Manq Luzzardo Fegitz
Gli Underøath spaccano il culo.
Sul serio.
Possono piacere o meno, però sono dei fighi.
Il loro primo disco, “The Changing of Times”, io non riesco ad ascoltarlo.
Il BU lo adora.
Io non digerisco la voce del cantante di quel disco, troppo acuta nelle grida, non la sopporto proprio.
“They’rere only chasing safety” è il secondo disco e col primo non c’entra nulla.
Ma proprio nulla.
Morbido, melodico, orecchiabile: in una parola “frocio”. Ok, la definizione non è delle più “politically correct”, ma rende l’idea.
Io il loro secondo disco lo amo proprio.
“Down, set, go” secondo me è un pezzo eclatante.
In quel disco la voce cambia sia per l’innesto di palate di parti melodiche, sia perchè il cantante non è più lo stesso del precedente lavoro. Dal secondo disco in poi secondo me gli Underøath hanno la miglior voce gridata che ci sia in giro. Almeno tra quelle che mi è capitato di sentire.
Dopo “They’re Only Chasing Safety” si passa a “Define the great line”.
Terzo lavoro, terza sorpresa.
Il suono torna pesante, ma pesante parecchio.
Il risultato non è malvagio, ma non mi ha mai saputo conquistare. A dirla tutta, alla lunga mi ha sempre annoiato.
Per questo non ci spendo altre parole e passo direttamente ai giorni nostri.
All’inizio di questo mese è uscito “Lost in Sound of Separation”.
Al momento ho parlato male di due dischi su tre, tuttavia ho aperto dicendo che gli Underøath sono dei fighi: viene da se che questo disco secondo me è un gran bel disco.
Per una volta il trend stilistico rimane quello del disco precedente, la differenza secondo me sta nel fatto che questo a me piace molto molto di più. Non è poco.
Mi pare più vario, più articolato, più studiato e più completo.
Ci risento echi delle melodie del secondo disco, ma non decontestualizzati come nel precedente lavoro (“Writing on the Walls” sembra più un avanzo di “They are only chasing safety” che non un pezzo voluto per “Define the Great Line”), bensì inseriti dove serve e con una certa classe.
E poi c’è un sacco di hardcore nudo e crudo piazzato a dovere soprattutto nella prima metà del disco.
Ovazione, letteralmente, per la traccia conclusiva.
Da lacrime.
Pura poesia, elemento che, per dirla come farebbe Suani, i sei ultrà di Gesù hanno da sempre dimostrato di avere in faretra.
Spiace non essere riuscito a vederli live, ma ormai pare che a Milano non venga più a suonare nessuno e trecento chilometri sono troppi da fare in solitaria e dopo una giornata di lavoro.
Peccato, visti due anni fa a Bologna mi avevano colpito un sacco.
In conclusione “Lost in Sound of Separation” al momento è il mio disco dell’anno e vista la non certo straripante concorrenza, potrebbe restare tale fino alle valutazioni finali.