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Restyle

L’ultima volta che ho aggiornato il look di questo sito era il 2009.
Sono dovuto andare a controllare, per risalire alla data, perchè ovviamente non ricordavo quando fosse successo. In questi giorni però ho deciso che potesse essere buona cosa dare una rinfrescata al layout del blog. Il motivo è che, onestamente, trovavo la vecchia grafica ai limiti dell’illeggibile.
Eh, lo so.
Diciamo che non mi andava di buttare l’enorme quantità di lavoro che mi era servita per progettare il sito come era prima e che la pigrizia ha molto spesso tarpato le ali al mio buon senso.
Tuttavia, il tempo per il cambiamento è finalmente giunto.
Non so se la nuova veste piacerà o meno, ma è certamente più semplice e comoda da leggere e dovrebbe aprire alla possibilità di consultare il sito anche da smartphone e tablet in modo abbastanza immediato. Credo.
C’è anche qualche novità.
Ho eliminato tutte le voci inutili del menu, tipo il widget di anobii e quello di twitter, così come la pagina “musica” che non aggiornavo da neanche so più quanto. Il nuovo menù a scomparsa include solo i link e le pagine relative ai viaggi (che, se avrò tempo e voglia, prima o poi uniformerò alla nuova grafica). Restano le categorie e l’archivio, che sono più che altro utili a me, e la search che secondo me è l’unica cosa necessaria in un blog.
Ho scoperto che l’archivio non è inseribile automaticamente nei menù custom di wordpress e non ho trovato in giro consigli su come ovviare alla cosa. Quindi mi sono fatto un menù archivio interamente a mano, che va aggiornato sempre a mano. Questo per dire che non sono capace di fare un cazzo.
Che poi è il motivo per cui prima di fare un aggiornamento faccio passare secoli.

Da qui si vede tutto

Nel post precedente accennavo al fatto che in questo inizio di 2015 sono usciti due dischi che aspettavo con impazienza. Il secondo si chiama “Da qui si vede tutto”, è il primo lavoro lungo dei Cabrera e ne parlo da qui in avanti.
Il mio rapporto con questo disco non è iniziato benissimo. Ero in America e quando è uscito un amico mi ha girato il link con i pezzi su soundcloud. Non chiedetemi perchè, non ne ho idea, ma sentendolo in streaming aveva i suoni tremendamente vuoti e scarichi. Ci sono rimasto abbastanza male, devo ammetterlo. Per come sono fatto io, se i pezzi non vengono registrati in un modo che mi soddisfi è come si creasse una barriera tra me e la musica. Possono essere i pezzi più belli del mondo, ma difficilmente riuscirò a superare quello scoglio e farmici tirare dentro. Grosso limite il mio, specie in un momento storico in cui nessuno o quasi registra più i dischi con un suono giusto, ma di questo magari riparlo dopo. Sta di fatto che a metà tra il mortificato e il deluso ho scritto ai ragazzi e gli ho detto che non mi piaceva come suonava il loro primo disco. Sono un brutta persona. Tuttavia mi sembrava giusto dirlo prima a loro, invece di scriverlo da qualche parte su internet. Sono anche anziano, evidentemente. Il motivo per cui premetto tutto questo è semplicemente per ufficializzare che, lo scrivo grande e chiaro,

AVEVO DETTO UNA CAZZATA.

Scaricando il disco da bandcamp e ascoltandolo di nuovo su un supporto diverso, suona immensamente meglio (NdM: per il download ho scritto “0 euro”, ma solo perchè comprerò il disco che, mare di cuori, esce in CD.). Come dicevo qualche riga fa, la produzione ed il mix hanno comunque quel sapore un po’ da “finta cantinetta” che adesso funziona un mucchio soprattutto qui da noi e che non capirò mai fino in fondo. Mi rendo conto che pro-tools negli ultimi anni abbia consegnato alla storia badilate di album indistinguibili e con la personalità di un cestino dell’umido, eppure, uccidetemi, a me i suoni puliti, precisi, asettici in un disco piacciono. Specie quando si parla di atmosfere dilatate, arpeggi, climax, esplosioni e tutte quelle belle cosine che offre, ad esempio, un certo post-rock.
Ho rotto il cazzo eh? Sì, penso anche io.
E’ tempo di parlare dei pezzi che stanno dentro questo “Da qui si vede tutto”. Sono dieci e sono tutti fighi, con punte che arrivano davvero in alto come nel caso di “Automobilisti della Domenica”, “Dirupo” o “Una Parola”. In realtà quasi tutti i pezzi sono ben più che fighi, a pensarci su. Rispetto all’EP “Nessun Rimorso” (che a me era piaciuto un bel po’ e che contiene in ogni caso un paio dei loro pezzi che preferisco) la differenza che viene fuori di più in termini stilistici è l’uso delle voci. Non ho letto moltissimo in giro a tema Cabrera, ma uno dei pochi pezzi tirava in mezzo un parallelismo con il cantante degli Old Gray. Non so. Io ho riferimenti molto più ristretti e quando ascolto il modo in cui Francesco gratta la sua voce in questo lavoro penso ad esempio ai Lantern, non per il timbro o per lo stile, ma per lo scopo. E anche il pezzo recitato in mezzo a “Costellazioni” mi fa pensare più ai connazionali che non oltre oceano. Credo il mio cervello processi la lingua del cantato come primo parametro per sviluppare i riferimenti. Nel cantato pulito, per dire, se dovessi trovare un paragone esemplificativo direi Francesco Renga. Davvero. Quel “Cade la pioggia e cadi anche tu” per me è Renga al 100% ed è un complimento. Credo.
Le voci sono la parte del disco studiata meglio, secondo me. Sono varie, si sovrappongono bene e coprono davvero tanti stili diversi che nel complesso rendono il tutto più vario e se vogliamo complesso.
E’ un disco derivativo? Sì, smaccatamente. Secondo me ci si sono proprio impegnati ad infilarci tutto quello che a loro piace, ma l’amalgama è perfetta ed è tutto sommato abbastanza personale, riconoscibile se vogliamo. Ascolti “Da qui si vede tutto” e non pensi immediatamente ai FBYC, per esempio.
Detto tutto? Credo di sì.
Qualche annotazione.
In questi mesi sono in giro a suonare, verranno a Milano il 27 Marzo e io ci andrò. Dal vivo mi è capitato di vederli mesi fa e son bravi, quindi fossi in voi ci fare un salto.
Il disco esce in formato CD. Lo ripeto perchè è una cosa bella.
Ah, quasi dimenticavo, su bandcamp lo si può ascoltare, scaricare e acquistare.

Se fosse uscito per, che ne so, To Lose La Track (respect) oggi 4/5 dei miei contatti in internet ne scriverebbero con una mano sulla tastiera e l’altra nelle mutande, ma ci sta. Io spero che il disco giri e che la gente lo ascolti, perchè è buono e loro sono dei bravi figlioli.

D’io

In questo inizio di 2015 sono usciti due dischi che aspettavo. Per uno come me che non ha più nulla da chiedere a nessuno dei suoi gruppi preferiti questa è una cosa abbastanza inusuale, ormai. Aspettare un disco, dico. Quindici anni fa a gennaio era tutto un “quest’anno esce questo, quello e quell’altro”, mentre oggi non saprei indicare più di, boh, cinque gruppi di cui cerco di seguire le uscite future quando invece i dischi che vale la pena sentire me li tirano in faccia i social network. A mia insaputa (cit.).
Un po’ invidio quelli che in questo presente incerto trovano almeno un punto di riferimento nella musica, tipo che tutto può succedere MA uscirà il disco nuovo di XXX e sarà sicuramente una figata.
Comunque, tornando al punto, uno dei due dischi di cui sopra è il nuovo di Dargen D’Amico. “D’io”.

Due righe sul tema, sto giro senza premesse che tanto son sempre quelle della volta scorsa.
Dovessi dare un giudizio, per me è NO. Nel senso, se prendo queste tredici tracce e faccio un bilancio, buona parte non mi piace. E’ roba che non fa per me. Liquidare così la questione, tuttavia, in questo caso trovo sia abbastanza riduttivo. Sono andato a vedere Dargen D’Amico un paio di volte. In entrambe le circostanze il posto era pieno di ragazzini probabilmente tirati in mezzo da “Festa” e “Bocciofili“. Ora, che il secondo sia un pezzo clamoroso l’ho detto in non so più quante occasioni (miglior base di sempre. DI. SEMPRE.), quindi non sto cercando di prendere le distanze. Il ragionamento è un altro.
In “D’io” non c’è praticamente traccia di cassa dritta.
In “D’io” non c’è nessun featuring di spicco.
Questi non sono i problemi del disco, sia chiaro, e lo dico da fan dei pezzi dritti ed ignoranti di DD, che sono una delle poche cose in musica che negli ultimi anni la sento e mi prende bene, mi mette allegria addosso qualunque sia il contesto in cui io mi trovi in quel momento. Sono però elementi che delineano un’intenzione di base, la necessità di dire altre cose o di dire cose analoghe, ma in modo diverso. Forse chi sta dietro al discorso dall’inizio ci può vedere un ritorno a ciò che era prima di “Vivere aiuta a non morire”, non lo so. Dal mio punto di vista parziale e superficiale, questo non è il disco più facile che Dargen D’Amico potesse scrivere dopo il precedente e il fatto che l’abbia realizzato esattamente com’è mi porta a pensare che si stia parlando di un tizio con delle idee in testa e la necessità di esprimerle, di volta in volta, per come le ha avute. Che è una dote che vorrei avere io e che farebbe bene a molti di quelli che fanno il suo stesso mestiere. C’è quindi un salto abbastanza marcato tra questo disco e il precedente, ma c’è anche un filo conduttore. Non parlo dello stile, delle rime, perchè da non amante del rap in generale è una cosa a cui bado poco. Ciò che avvicina i due lavori per quanto mi riguarda è la cura nelle basi, che se chiedete a me restano ad un livello oltre. Sono sparite le melodie facili, quelle che al primo ascolto ti si incollano in testa e restano lì. Qui c’è bisogno di un po’ di pazienza per apprezzare il gran lavoro fatto in quel senso. Spiego.
La prima volta che senti “A meno di te” ti parte immediatamente il piede. La seconda canticchi e balli. Alla terza sei ormai dentro il pezzo e ti arriva anche quanto è figa la base su cui è costruito. Con “Io, quello che credo” il processo è tutto il contrario. La ascolti la prima volta e cerchi di capire dove voglia andare a parare con quei suoni, tanto da cercare di isolarli e filtrare la voce che ti arriva. Poi realizzi e il pezzo cresce.
In quest’ottica la traccia più debole resta “Amo Milano“, in cui non riesco a trovare nulla che valga la pena di sottolineare. Continua a sembrarmi una roba vecchia, ma proprio fuori tempo massimo e senza un senso. E’ uno dei pezzi più facili, ma è facile nel modo sbagliato. Scivola via. Soprattutto, non ci vedo una firma.
Ci sono altri passaggi nel disco che mi piacciono meno, ma che stimo di più. Tipo “La mia donna dice“. Il mio è probabilmente un discorso del cazzo, ma spero che almeno sia comprensibile.
La mia canzone preferita di “D’io” è “L’Universo non muore mai“, la mia quote preferita da “D’io” è “Le stelle sono l’acne del cielo“.
In un panorama in cui J-Ax si ritrova a fare Fedez chiudendo una sorta di cerchio delle mutue ispirazioni (io se sento “Uno di quei giorni” ho quella sensazione lì [niente contro il pezzo, che è anche carino]), Dargen D’Amico resta una cosa buona.
Anche con un disco che, nel complesso, per me è un no.

L’hamburger GIUSTO.

Se c’è una cosa a cui mi sono dedicato con perizia in questi giorni negli stati uniti è lo studio dell’hamburger.
Ormai in giro se ne vedono di ogni, anche qui in Italia. Tutti vogliono dire la loro, dal baracchino sotto casa al grande chef, ma è davvero difficile trovare qualcuno che possa proporre un hamburger GIUSTO.
Ora, siccome sono una brava persona e a voi ci tengo, vi scrivo per bene le regole e le caratteristiche necessarie per l’hamburger GIUSTO.

ATTENZIONE: i seguenti non sono consigli né tantomeno suggerimenti, sono diktat.

1) la cosa principale dell’hamburger è la carne. L’hamburger GIUSTO è alto grossomodo 1,5 cm ed è cotto mediamente al sangue (dicasi medium-rare). In un hamburger GIUSTO ci va solo un disco di carne, che deve avere il diametro del panino, non di meno e non di più. La cottura della carne può essere sia alla griglia, che in padella con del condimento. In questo secondo caso, il burro funziona meglio dell’olio. Sale e pepe sono importanti e non vanno dimenticati, ma non serve alcuna altra spezia.

2) Nell’hamburger GIUSTO non ci sono salse. Lo so cosa state pensando, ma è così. Se un hamburger senza salse vi risulta asciutto è perché lo state facendo male.

3) Nell’hamburger GIUSTO ci vanno le verdure. Crude. Una foglia di insalata verde, una fetta di cipolla (meglio se rossa) e una fetta relativamente sottile di pomodoro. Niente cipolle cotte, perchè non è un hot dog, niente peperoni grigliati, niente zucchine, melanzane o sa il cazzo. Gli americani ci mettono anche la fettina di cetriolino sott’aceto e siccome l’hanno inventato loro io sto dalla loro parte. Può non piacere ed effettivamente non è strettamente vincolante alla realizzazione di un hamburger GIUSTO, però sappiate che ci andrebbe. Vi piace il piccante? Prendetevi un tacos, un burrito o qualche cazzo di panino messicano, ma non infilate peperoncini dentro ad un hamburger per carità di Dio.

4) La questione formaggio è spinosa. Sull’hamburger GIUSTO ci va una fetta di formaggio fuso che, se volete un parere, dovrebbe essere cheddar perchè come sapore pare proprio inventato appositamente per quel contesto. C’è chi ci mette l’american cheese, chi le volgarissime sottilette, chi l’emmenthal. Sono tutte varianti ammesse, purchè il formaggio sia ben fuso. Mozzarella? NO. Blue cheese? NO.

5) L’ultima regola riguarda il pane. Deve essere un pane morbido al latte. Con o senza sesamo non fa differenza, ma non deve essere croccante, nè tantomeno abbrustolito. Un criterio per valutare il pane dell’hamburger GIUSTO è: “riuscirei a mangiarlo da solo, senza nient’altro ad accompagnarlo?”. Se la risposta è sì, avete preso il pane sbagliato.

Queste sono le cinque regole fondamentali.
Rispettando questi cinque criteri avrete in mano un hamburger GIUSTO e ve ne accorgerete al primo morso. Se dopo un boccone vi viene un dubbio, una delle cinque regole qui sopra non è stata correttamente rispettata. Semplice e lineare. Per gustare correttamente l’hamburger GIUSTO è necessario tagliarlo a metà, altrimenti si sfalda. Se non si sfalda, qualcosa non funziona e siamo di nuovo al punto in cui avete infranto una delle cinque regole.
“Eh, ma a me piace di più con XXX e senza YYY.”.
Nessun problema. Ci sono intere popolazioni che mettono il ketchup sulla pizza o il grana sugli spaghetti allo scoglio. Nessuno vi vieterà mai di perpetrare lo sbaglio. Ora però sapete dove e come vi state allontanando dalla retta via.
Se questa cosa vi sembra troppo restrittiva e vi sentite particolarmente creativi, vi do comunque la possibilità di personalizzare l’hamburger GIUSTO in due modi, non necessariamente mutualmente esclusivi. Sono entrambe opzioni GIUSTE capaci di dare al prodotto uno spessore tutto nuovo, ma non sono essenziali. Se lo diventano (ovvero se in loro assenza lo stesso hamburger non vi convince) siamo di nuovo al punto in cui avete infranto una delle regole di cui sopra.

APPENDICE 1: Il bacon. Aggiungere il bacon è lecito, ma deve essere bacon, cucinato come si cucina il bacon. Non chiedetemi che differenza ci sia tra il bacon e la pancetta, non ne ho idea, ma sono cose diverse. Una volta certi che sia bacon, tagliatelo non troppo sottile, direi un paio di millimetri di spessore, e rosolatelo fino a che non diventa completamente croccante. Una listarella di bacon che si pieghi non è cotta nel modo giusto. Deve avere la consistenza di un cracker. Il bacon va posizionato sotto l’hamburger, ovviamente, e non tra hamburger e verdure.

APPENDICE 2: L’uovo. L’uovo fritto nell’hamburger è una cosa che al primo impatto può dare da pensare, ma è una strada che una volta imboccata non si abbandona più. Semplicemente il TOP. La cottura dell’uovo però è essenziale: deve avere il tuorlo molle, crudo, che possa colare sul resto degli ingredienti una volta tagliato il panino in due. Tra cuocere troppo il tuorlo e lasciare un po’ di albume crudo propendete sempre per questa seconda ipotesi, è fondamentale. L’uovo, nel contesto del panino, si trova direttamente sopra la carne (e il formaggio, che essendo fuso fa tutt’uno con la carne e non può essere considerato da questa scindibile.). Si chiama uovo fritto perchè va cotto nel pentolino con del condimento, che in generale sarebbe il burro, ma nel caso dell’hamburger è meglio usare l’olio.

Ecco, adesso avete tutti gli elementi che vi servono. Se seguirete queste indicazioni, non ho dubbi che sarete soddisfatti e mi darete ragione. Non vi resta che provare.
Nota: a me l’hamburger col blue cheese piace e, parlando di gusti, io eviterei la fetta di pomodoro. Sono però conscio siano due varianti SBAGLIATE.

California sun

E’ tutta colpa della televisione.
Televisione e cinema, in effetti.
No. E’ più colpa della musica che ho ascoltato e che ascolto, a pensarci meglio. Mhh. Certamente non c’entra nulla lo sport. Anche se…
Non lo so.
Non so spiegare a cosa sia dovuta questa sensazione, ma ho come l’idea di essere stato per sette giorni nel cuore del mondo. Lì dove succedono le cose. Non in senso generale, proprio del mio mondo, quello nel centro del quale dovrei trovarmi sempre e, invece, mi é parso che no.
Nell’ultima settimana sono stato per lavoro in California, prima a Sunnyvale e poi a San Francisco. Per lavoro, ma con un paio di giorni “buchi” a disposizione per togliermi qualche sfizio. Sunnyvale è nel cuore della Silicon Valley. Di fronte alla sede della mia azienda c’è Linked In. Tre miglia più a nord, Google. Facebook è ancora un po’ più su mentre Twitter di casa sta più lontano, ma sempre da queste parti*. Per fare degli esempi.
L’altra sera, una volta deciso di prendere una macchina a noleggio, ho iniziato a mettere giù la lista delle cose da provare a vedere e ne è uscito senza sforzi un elenco interminabile.
Programmavo una tappa e per andarci l’itinerario mi portava in quel posto di quella canzone o in quell’altro dove hanno girato quel film. A cascata. Un loop interminabile che ti da proprio l’impressione di essere per la prima volta sul set dove hanno girato la tua vita.**
L’esperienza in macchina è stata totale.
Certo, aver chiesto un’utilitaria e aver ricevuto una Camaro ha certamente avuto il suo peso, ma non è solo quello. In una giornata ho fatto poco meno di 300 miglia e mi sembrava di guidare dentro GTA V (o San Andreas, o Need4speed, o…). Le colline, i boschi, le zone rurali e la strada lungo la costa. Tutti posti in cui ero giá stato, if you know what I mean***, e che mi erano assurdamente familiari. E poi ero su una Camaro, con la capotte abbassata e l’aria in faccia.
L’elenco delle cose che ho visto (tantissime) e di quelle che ho perso (ad occhio e croce altrettante) lo risparmio. Ci sarà certamente da tornare, questa volta non per lavoro, ma con chi vorrei vedesse le stesse cose e vivesse le stesse belle sensazioni che ho vissuto io.
Ora sto aspettando la navetta per l’aeroporto. Altri quattro giorni negli States, ma al gelo del Wisconsin. Nulla di rilevante da aggiungere in merito.
Poi casa, finalmente.
Nel cuore però difficilmente verrà meno lo spazio per quella volta in cui sono stato nel centro del mio mondo.

* Non ho menzionato Apple perchè non fa parte della mia vita, però è qui. Ovviamente.
** Questa frase me l’ha scritta Fabio Volo.
*** Sto esagerando. Lo so.

Ho visto i Mineral al Bloom. Nel 2015.

Probabilmente c’è un modo giusto per scrivere del live di questa sera. Io, però, non credo di conoscerlo. Mi piacerebbe evitare di scivolare nella malinconia spinta. Il piano è non scrivere un post che sostanzialmente celebri un’epoca che non c’è più, pieno di riferimenti faciloni che creino empatia con eventuali altri ex-giovani che si trovassero a leggerlo. Riuscirci parlando di un concerto dei Mineral al Bloom non è proprio immediato però, perchè tutto effettivamente riporterebbe lì. A me quel genere di post tendenzialmente piace anche, tanto, e nonostante pensi sia il modo più facile per raccontare quello che ho fatto sta sera credo anche sia un modo sbagliato. Sarebbe come dire che un concerto dei Mineral nel gennaio 2015 ha un suo senso unicamente per via di quanto è accaduto 10 o 15 anni fa. Ecco, no.
Un’altra cosa che vorrei evitare è scrivere il post che avrei potuto scrivere senza bisogno di andare al concerto. Il biglietto di questa sera l’ho comprato a luglio dello scorso anno, indice di una certa carica d’aspettativa. C’è chi sostiene, probabilmente a ragione, che non esistano concerti belli a priori. Per me non è così. Ci sono gruppi che hanno scritto cose troppo importanti per me perchè io possa affrontarle con oggettività. Quando e se mi ci ritrovo di fronte sono completamente disarmato, mi faccio puntualmente ribaltare come un calzino, e ne esco innamorato. Non credo ci sia un’altra parola. Di funzionare in questo modo io ne sono conscio ed è per quello che se mi mettessi seduto a dire: “Adesso vi racconto con oggettività, imparzialità e distacco come hanno suonato”, mentirei. E io non voglio mentire. Certo, poi ci sono quegli eventi che sanno andare oltre e regalarti ancora più di quanto fosse lecito aspettarsi, ma passano una volta ogni tanto. Le prime tre tracce di questa sera sono state “Five, Eight and Ten”, “Gloria” e “Slower”. Quindici minuti sufficienti a prendere l’evento in questione e inchiodarlo in cima alla classifica dei concerti del 2015 prima ancora che si concludesse il set, data 31 gennaio, senza timore di eventuali ripensamenti futuri. Io di norma non mi guardo le scalette dei concerti prima di andarci, così come difficilmente leggo recensioni di film prima di averli visti, ma che avrebbero suonato quei tre pezzi lo davo per certo, così come ritenevo scontato che sarebbero ampiamente bastati a comprarmi. La mia filosofia è abbastanza semplice: ci sono una manciata di canzoni, forse più, che nell’arco della mia esistenza hanno voluto dire qualcosa. Per sentirle non ci saranno mai un momento, un contesto o dei presupposti sbagliati.
Non so più dove cazzo sto andando a parare con questo post. Giuro. Ero partito anche bene, ma ho iniziato a ribaltarlo ed ora sono il primo ad aver perso il filo. Probabilmente sentire dentro la profonda necessità di scrivere una pagina che avesse senso mi sta schiacciando.
Peccato.
Ci sono comunque una paio di altre cose in merito al concerto che chi legge potrebbe trovare interessanti.
Il cantante dei Mineral è completamente stonato. Sul serio. Viene già fuori abbastanza chiaramente su disco questa cosa, ma dal vivo è una roba che se non la senti non ci puoi credere.
A conti fatti, “The Power of failing” non è il disco preferito della band o quantomeno quest’ultima non lo ritiene più rilevante di “End Serenading”. Con i pezzi di TPOF ci hanno aperto e chiuso il set, cosa che ha un suo certo peso specifico, ma andando a contare le tracce ne hanno suonate solo cinque, mentre dal secondo hanno pescato qualcosa in più. “Take the picture now” non l’hanno suonata e per quanto mi riguarda è un gran peccato.
Il vantaggio di avere assistito a più di metà scaletta presa da un disco che non venero è che posso dire qualcosa di vagamente credibile su come suonano i Mineral dal vivo. Suonano bene. Ho incontrato un po’ di persone sul posto e parlandoci nessuno se lo aspettava. La carica emotiva non è mai stata in discussione, ma la padronanza strumentale era un’incognita. Bei suoni, bei volumi, buon affiatamento e gran tiro. Li senti e non pensi mai al fatto che fossero fermi da 17 (DICIASSETTE) anni.
E basta.
A fine serata ho preso il telefono, aperto twitter e l’unica cosa che sono riuscito a scrivere è stata questa:

Probabilmente è anche l’unica che abbia un senso.

And it happens once again…

All’inizio l’idea era non commentare. Tutto sommato la rilevanza è pressoché nulla, sia parlando in generale che per quanto riguarda il sottoscritto. Giuro. Ho letto la notizia e ho pensato che non avevo davvero nulla da dire in merito. Nessuna reazione. Ci sta. Io non credo che esistesse qualcuno li fuori ancora convinto che i Blink182 fossero una band. Intendo fuori dalle pagine ufficiali dei vari social, dove stormi di persone con un palese rifiuto per la realtà o per parte di quest’ultima si trovano e fanno comunità tra loro come se tutto il resto non ci fosse. Tipo Paolo Sarpi o la Gran Bretagna. Per chi sta sulla pagina FB dei Blink (non intendo chi ci passa, ma proprio chi commenta e discute ogni post, quelle boh, 100k persone che si votano anima e corpo ad una band e praticano scientemente l’unica forma di monogamia che potrebbero risparmiarsi senza che la societá li additi con sdegno), per loro dicevo è avvenuta una tragedia che ha senso analizzare, dissezionare, comprendere oltre l’unica chiave di lettura possibile. Lo capisco.
Per il resto del mondo non è successo niente. Capisco anche questo.
Io tutto quello che c’era da dire l’ho detto quattro anni fa, in uno dei rari casi in cui ci ho visto lungo (non che fosse così complesso):

[…] i Blink182.0 entrano in studio. Da qui in poi mi baso solo su ipotesi personali e su quanto sentito nel pezzo anteprima “Up all night” uscito, appunto, ieri. Le chiavi del progetto, a questo punto, vengono messe in mano a Tom che essendo convinto di essere John Lennon potrebbe decidere da un momento all’altro di rimandare tutti affanculo (NdM: volesse iddio!) e andar via col pallone. Mark decide di produrre la cosa per scongiurare che Travis porti in sala mixer tutti i suoi amici negri. Tutto dovrebbe andare bene e, con un po’ di fortuna, il disco uscirà. Bello o brutto non conta, perchè vendere venderà in ogni caso. Il problema eventualmente ci sarà col disco successivo, ma nessuno di loro, credo, confida di arrivarci.[…] (15-7-2011.)

Pronostici a parte, chiudo riflettendo sulla tristezza della situazione. Ho letto i comunicati, le smentite, le interviste, i tweet scritti e cancellati. Non perchè abbia senso stare a capire cosa sia successo e di chi siano le responsabilità, ma per dare il quadro di una band che non è più una band da dieci anni i cui membri si comportano come se invece fossero ancora parte di qualcosa di attualmente rilevante. Prigionieri della realtà generata intorno a loro dai 100k di cui sopra. A 18 anni io ascoltavo i Blink perchè erano la cosa in cui riuscivo meglio ad identificarmi (potremmo aprire una parentesi, cosa che ho in effetti fatto). Oggi c’è talmente tanto in mezzo tra me, loro e il Paese reale (cit.) che, davvero, non so di che cazzo son qui a parlare.

Il nuovo frontman dei Blink 182 è Matt Skiba, uno che ha scritto pezzi giganti, ma anche uno che pur provandoci da almeno tre o quattro dischi, non ce l’ha mai fatta. Sopra un palco è grossomodo nullo sia come chitarrista che come cantante.
Alla fine, la coerenza.

Ten years of fucking up

Nella mia mente ogni cosa ha sempre avuto un momento giusto per finire. Mi sono fatto un sacco di quadretti a tema in testa nel corso degli anni, ricamando con la fantasia. Credo sia un meccanismo che porto avanti più o meno inconsapevolmente per esorcizzare l’impotenza nei confronti delle cose che finiscono. Non trattandosi di un se, mi prendo la libertà di fantasticare sul quando postulando l’esistenza, come detto, di un momento e di un contesto giusti.
Appropriati.
Ideali, addirittura.
Sono sempre stato affascinato dai finali, soprattutto se ad effetto, e probabilmente questa cosa ha influenzato un sacco i miei gusti musicali o la roba che mi sparavo in TV. Scrivo queste righe e in testa compare immediatamente Pacey che lascia Joy al ballo di fine anno.
Mollare all’apice.
Mourinho che fa il triplete e lascia l’inter prima ancora di aver portato la coppa fisicamente a Milano da un’idea del punto. Da lì non si poteva che scendere e quindi meglio smetterla e chiudere lasciando un bel ricordo. Che è una cosa facile, se vogliamo. E’ un po’ scappare dai propri limiti. Non accettare di poter fare peggio come se abbassare il livello squalifichi in qualche modo l’averlo tenuto così alto in precedenza. Ha un senso? Certamente è un modo di vedere le cose che se sei cresciuto avendo come romanzo generazionale “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” può avere delle giustificazioni. Che poi ok il libro, ma io penso soprattutto al fatto che a sedici anni avrei dato via una mano per essere mollato da Violante Placido. Io da ragazzino avevo fantasie di relazioni perfette che finivano in modo perfetto. Tutto torna.

Questo blog oggi è ben lungi dall’essere al suo apice. Se per un momento queste pagine hanno avuto una qualche rilevanza, non è adesso. Il pezzo che si trascina da qualche riga a questa parte è il numero 890. Anche un bel numero volendo, tuttavia non è 1000.
Succede però che questo mio diario online oggi fa dieci anni esatti e sono un bel po’ di tempo nell’arco di una vita che ne conta 33 e un pezzo. Dieci anni di vita sono ben oltre le aspettative che avevo quando l’ho aperto, ma anche molto più di quanto avrei ipotizzato nel momento in cui scriverlo mi dava più gusto. Sono uno che vive di mille passioni estemporanee che spesso si consumano in tempi brevissimi. Quando si parla di hobby mi interesso a enne cose diverse senza portarne avanti nessuna con costanza. Eppure, non so come, questo sito è rimasto nel tempo. Se immagino la chiusura di questo blog me la vedo con un post più bello di questo (non di molto direi, anche se con un titolo certamente migliore*), in un momento significativo come potrebbe essere questo e con un tot di persone che mi scrivono che a loro dispiace. Non tante, ma quelle giuste. E che sia vero o meno, posso giurarlo, non conterebbe un cazzo perché le bugie che mi fanno stare bene sono ben accette da sempre.**
Io però questo blog oggi non lo chiudo.
Magari l’ultimo post su queste pagine sarà il prossimo o quello ancora seguente. Probabilmente sarà un post che parlerà di tutto tranne che del suo essere l’ultimo. Questo perché i finali nella vita vera non sono mai perfetti, belli o anche solo vagamente corrispondenti alle aspettative. Non ci sono immagini emozionanti che scorrono su un telo come nel meraviglioso finale di Scrubs e quando i Get Up Kids scrivono un comunicato perfetto per annunciare il loro scioglimento mettendoci dentro cose tipo “all good things have endings” prese dai loro pezzi più fighi, viene fuori che il finale reale sarà un altro, con un disco brutto e inutile e tanta gente che non glielo perdonerà mai. Il momento giusto per mettere un punto semplicemente non esiste.
Quindi, buon compleanno blog.
E avanti finché dura.

* Ten years of fucking up è una videocassetta (!!!) dei NOFX che io e alcuni compagni del liceo avevamo comprato in colletta. Nel 1997, probabilmente.
** un blogger figo questa frase l’avrebbe scritta coi tempi verbali giusti. O, nel caso anche i miei lo siano, l’avrebbe saputo.

Alcune considerazioni, anche stronze, su quanto successo a Parigi

Oggi, quando ho letto dei fatti di Parigi, ho reagito come tutti lasciandomi andare a delle considerazioni. Alcune di queste sono stronze, lo so. Me ne vergogno. Ora le scrivo qui sopra perché secondo me può aiutarmi a schiarire le idee e riflettere sulla questione con più lucidità.
Considerazione 1. Con me il terrorismo ha vinto perché io ne ho paura. Tanta. Se si ha paura di qualcosa è difficile contrastarla, immagino, e quindi fossero tutti come me probabilmente il terrorismo avrebbe il successo in tasca. Certo, ci sarebbe da capire quale sia lo scopo dei terroristi. Perché l’idea è che da sempre, oltre al creare casino e destabilizzare la società iniettandovi paura quando meno se lo aspetta, non ci siano molti altri obbiettivi.
Considerazione 2. Oggi sono morte più di dieci persone per delle vignette. Assodato per me non ci siano mai ragioni valide per uccidere, accetto che per alcuni ce ne siano di buone per morire. Non delle cazzo di vignette, però. Lo so, il punto non è la vignetta, ma la libertà di poterla disegnare, o meglio, la libertà di potersi esprimere. Io non credo che le persone uccise oggi vivessero con la consapevolezza di stare rischiando la vita per combattere una battaglia ideologica. Certamente la loro era una presa di posizione cosciente contro le censure e il confine tra ciò che si può e non si può dire. Una presa di posizione che condivido e che ho sposato molte volte in passato, con questo blog e sui vari social. Al sicuro (?). Onestamente, se avessi avuto anche solo il dubbio che farlo avrebbe messo a repentaglio la mia vita, credo avrei evitato. Anzi, ne sono sicuro, per via di quella cosa che ho scritto nella considerazione 1. Facile eh, lo riconosco, perché la bella vita agiata che vivo mi è stata regalata da chi nel corso della storia ha combattuto e perso la vita per la mia libertà. Insomma, il punto è che non conta tanto se le persone morte oggi sapessero o meno che la loro lotta avrebbe potuto avere conseguenze di questo tipo. Il punto è che stavano combattendo anche per me e pensare che io, al posto loro, non l’avrei fatto mi fa sentire abbastanza una merda. Mi fa sentire anche peggio però l’idea che domani qualcuno possa leggere il mio blog e pensare che quello che ho scritto sia punibile con la morte. E non tanto perché sarebbe sbagliato morire per aver espresso il proprio pensiero, ma perché nel farlo non pensavo di rischiare una pallottola. Insomma, sono piuttosto confuso e sconclusionato quando ragiono su questa cosa.
Considerazione 3. Per un malsano meccanismo comparativo ho associato le vittime di oggi a quelle di altri attentati terroristici. Ho pensato che se uno disegna una vignetta reputata offensiva da qualche pazzo che per quello decide di sparargli è ORRIBILE. Se tuttavia a causa di una vignetta reputata offensiva viene fatto saltare un bus di gente che va al lavoro e che con il vignettista non ha a che fare nulla se non essergli connazionale è, boh, “peggio”. Ed è un ragionamento di merda, lo capisco anche da solo, ma non posso negare di averlo pensato.
Considerazione 4. Queste cose tirano fuori il peggio da tutti ed è lì la loro drammatica pericolosità. Perché oggi 12 persone sono morte, ma domani ne moriranno molte di più a causa di quanto accaduto oggi e delle reazioni rabbiose che gli succederanno. Questo è qualcosa che non sarà evitabile. In nessuna maniera. Ed è uno schifo, oltre ad essere la vera vittoria del terrorismo: generare violenza a cui rispondere con ancor più violenza.
Considerazione 5. Oggi ho letto ovunque che gli attentatori erano impegnati a gridare ai quattro venti il loro credo religioso durante il massacro. L’ho trovata una cosa strana. Ho pensato che nominare Allah durante una sparatoria fosse un gesto troppo ostentato per non puzzare. Qualche minuto passato a leggere dei fatti ed ero già in preda al complottismo. Vaffanculo. Da un lato penso che non ci sono molte organizzazioni estremiste e fanatiche oltre all’ISIS che possano compiere un gesto del genere. Dall’altro penso a gente tipo Breivik e concludo che potrebbe essere stato chiunque. La speranza è che chi debba fare chiarezza sull’accaduto sia più lucido di me nell’affrontare la questione.
Considerazione 6. Oggi chiunque ha detto la sua sui fatti di Parigi. Molte cose intelligenti, altrettante stronzate (tipo quelle scritte qui, ma anche peggio ad onor del vero). C’è chi non ha perso tempo per farci sopra un po’ di speculazione, chi ha sfruttato l’onda emotiva per lanciare messaggi che nulla o quasi hanno a che fare con quanto accaduto, ma puntano solo a cavalcare la rabbia per trasformarla in odio da veicolare a piacimento. La frase che ho letto più spesso è stata sulla falsa riga del “non dovete per forza dire la vostra / la vostra opinione non è necessaria”. L’ho pensato anche io, in termini anche molto meno educati, leggendo svariati interventi come possono essere quelli di Salvini, Gasparri o la Meloni per citare i nomi noti. A rifletterci su però, stare a discutere su chi abbia o meno diritto di parlare in seguito all’uccisione di dodici persone morte in nome della libertà di espressione mi pare l’assurdo nell’assurdo.
Considerazione 7. Io vorrei capire, davvero, cosa aggiunge alla cronaca dei fatti mostrare le immagini pornografiche dell’accaduto. So bene cosa spinge la gente a guardare i video, conosco fin troppo bene la frenesia voyeuristica che prende le persone quando accade qualcosa di brutto. La fame di macabro che spinge a visionare fotogramma per fotogramma l’esecuzione di un prigioniero, l’assassinio a sangue freddo di un poliziotto in strada o la morte di Simoncelli. Quello che non solo non comprendo, ma non riesco a tollerare, è la redazione che sfrutta o anche solo si piega a questo turpe meccanismo fornendo immagini non richieste e non necessarie a raccontare l’accaduto. “Persone armate entrano nella sede di un giornale e trucidano parte degli impiegati”. Serve un video per conferire drammaticità all’evento? Serve un video per raccontarlo? Per farlo comprendere appieno? Per me no, ma se ci sono ragioni che non colgo o passaggi che mi sfuggono vorrei davvero che qualcuno me li spiegasse.
Oggi è successa una tragedia che mi ha sconvolto davvero a fondo ed era quello che volevo dire con questo post.

I migliori film del 2014

Mi stavo distraendo e quasi andava a finire che quest’anno lo chiudevo senza dire quali sono stati i miei film preferiti. Pensa te.
Fortuna che mi sono ricordato, perchè quest’anno di bei film ne sono usciti un po’ e di elencarli ho giusto giusto voglia. Però fare una classifica è difficile e serve argomentarla bene, perchè altrimenti uno arriva, la legge e può dirmi cose tipo: “Ma sei scemo a lasciare The Wolf of Wall Street fuori dal podio?”. Che effettivamente ha un suo senso come obbiezione, uno si mette lì e ripensa al filmone di Scorsese e può avere difficoltà ad accettare la possibilità che, nello stesso anno, ne siano usciti almeno tre più belli di quello. E invece sì.
Vogliamo parlare de I Guardiani della Galassia? Cazzo, ci si pensa ed immediatamente si sarebbe portati a dire che è impossibile, nello stesso anno, sia uscito un film di fantascienza più godibile e divertente di quello. E invece sì, di nuovo. Pazzesco. Un anno in cui, se non stai attento, scrivi un post sui migliori film e finisce che non trovi spazio a The Winter Soldier, che è il miglior capitolo di sempre legato al panorama Avengers (come film, dico, lasciando stare Hulk che demolisce NY perchè quello è fuori scala), o per The Raid 2, che è comunque un monumento gigante all’azione sul grande schermo.
Insomma, è un casino fare le classifiche in un 2014 con così tanti film belli a disposizione.
Più semplice è dire quali sono stati i tre film più brutti che ho visto: Monuments men, A proposito di Davis e Godzilla. In quest’ordine, dal meno brutto al più brutto.
Vabbè dai, via il dente e via il dolore, sparo i migliori tre film dell’anno per il sottoscritto:
Argomento? Ok.
Al terzo posto ho messo il film che più mi ha intrattenuto, al cinema, in questo 2014: Edge of Tomorrow. Un bel filmetto d’azione con ambientazione fantascientifica che funziona dall’inizio alla fine. Lui è Tom Cruise e, dite quel che volete, per me funziona sempre. Lei è Emily Blunt, anzi, è Emily Blunt con una cazzo di mega armatura da Space Marine. I nemici sono dei mostroni repellenti che giocano con il tempo. La trama è quella di un videogame, ma non ha buchi e fila in tutte le sue parti, finale (buonista) compreso. Due ore di sano cinema come si deve. Una figata.
Al secondo posto ci metto Gone Girl. David Fincher è un figo di Dio, nonchè il mio regista preferito, e qui tira fuori una roba di un disturbante che metà ne basta. Tensione dal minuto 3, ritmo misuratissimo, regia sublime e film della madonna. In italia è arrivato col titolo “L’amore bugiardo” e quando l’ho visto io, delle 20 persone in sala almeno 15 erano convinte fosse una commedia romantica con Ben Affleck. Le matte risate. Sarebbe stato il film dell’anno in qualunque altro anno, tolto forse l’anno in cui è uscito Seven, o Fight Club, cosa che da un lato fa gridare: “Fincher santo subito!”, ma dall’altro da una misura del film che si piazza in testa alla mia classifica.
Prima posizione a The LEGO Movie. Solo una parola: AWESOME.
Detto tutto? Sì, direi di sì.
Anzi no, quest’anno è stato abbastanza figo anche per il cinema italiano. Non ho visto “La Grande Bellezza” che mi sa di palla clamorosa e senza appello e “Il Capitale Umano” è bello, ma neanche così tanto. Però ho visto “Smetto quando voglio” e non ricordo l’ultima volta che ho riso così tanto al cinema.