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Parasite

A un certo punto, abbastanza avanti nel film, il protagonista si chiede: “Cosa ci faccio qui?” e finalmente si compie quel processo di immedesimazione che il regista ha tentato di inserirmi nel cranio a forza per i precedenti settecentoventimila minuti (percepiti) di film.
Sono dentro il cinema, ma non mi ci sento a mio agio e, anzi, provo fastidio ed irrefrenabile voglia di essere altrove.
Possibilmente non in Corea.

Parasite, film di Bong Joon-Ho recentemente premiato a Cannes, mi ha fatto discretamente cagare.
Probabilmente sono io eh, non è colpa del film, però le operazioni di cinema cervellotico e autocompiaciuto le tollero a fatica già quando pescano dal mondo che conosco e mastico, figuriamoci poi quando ci si mette anche la distanza culturale.
Guardo questa roba e non capisco quanto caricaturale sia la rappresentazione dei personaggi, per dirne una, quindi a conti fatti non capisco il film, che è grossomodo tutto racchiuso in quello.
Certo, non è tutto da buttare.
Ci sono sequenze che mi sono piaciute tantissimo, ad esempio tutta la parte dell’esondazione, ma è perché si tratta di una parentesi di pura estetica che non c’entra più o meno niente con la storia e, anzi, te la toglie proprio dai coglioni per diversi minuti permettendoti di apprezzare quanto sia effettivamente bravo il nostro Bong nel costruire le immagini che vuole mostrarti.
Quando la parentesi si chiude però, e i personaggi riprendono a parlare, il film torna a volerti raccontare qualcosa a tutti i costi e a te torna addosso il nervoso. Irritante come il Refn di Only God Forgives, ma senza l’aggravante della preterintenzionalitá di non voler raccontare una storia. Qui la voglia c’è, ma forse sarebbe stato meglio lasciarla a casa.

Altro momento esemplare.
Ad una certa c’è questa scena in cui DAZN (giuro), figlio piccolo di una coppia ricchissima, dorme in giardino ed i suoi genitori stanno sul divano a guardare fuori dalla finestra per controllarlo.
Da cosa nasce cosa e i due iniziano a fare roba. Tutto abbastanza normale, solo che quel che ne esce è la scena più anti-erotica mai passata su grande schermo e non si capisce se lo sia perché non mi arriva la sensualità Coreana, perché è stata scritta e filmata coi piedi o perché l’idea sia mostrare come il sesso tra ricchi é oltremodo disgustoso. Quale che sia il motivo però, non cambia il fatto non sia una cosa bella da vedere.
Ecco, più o meno vale lo stesso per il resto della pellicola, finale compreso, il cui mega pippotto a mio avviso è unicamente pensato per infierire ulteriormente su gente come me che, senza la pressione sociale dell’essere al cinema con alcuni colleghi, si sarebbe volentieri data dopo i primi 20′ e senza particolari rimpianti.
E pensare che il mio collega voleva vedere Zombieland. Forse non ci avremmo trovato gente morta male a colpi di spiedo da BBQ, ma certamente ci saremmo divertiti di più.

Te spiego l’EMO

Giorni fa Andrea ha riscoperto il piacere di fare le playlist su Spotify e ne ha tirata fuori una che racconta l’emo nella sua prima fase, diciamo quella che va dal 1985 al 2000. Per chi non lo conoscesse, Andrea è una delle penne di Impatto Sonoro, ma soprattutto un “amico di internet” che recentemente ho avuto il piacere di incontrare di persona e con cui mi è già capitato di fare giochini tipo quello di cui vi sto scrivendo. 
Dico giochino perchè Andrea, dopo aver condiviso la sua (bellissima) playlist ed essersi beccato il mio like, ha pensato di chiedermi se mi andasse di farne una sullo stesso tema. Potevo mai tirarmi indietro? Ovvio che no.
Non paghi, abbiamo deciso di estendere il concetto e coprire anche le fasi successive della storia, in modo ne uscisse un quadro diciamo completo.
In sostanza quindi mi sono cimentato nel mettere giù una breve serie di playlist a tema EMO e, visto che sono uscite più carine di quanto immaginassi, ho pensato potesse valere la pena metterle anche qui sopra e scriverci due righe due di commento.
Le regole erano pochissime: finestra temporale definita e massimo 12 tracce, come qualsiasi playlist dovrebbe essere se lo scopo è farsi ascoltare. Io ad ognuna ho messo come cover un’immagine di Andrea Emo e il perchè, se avete letto fino a qui, non ha senso spiegarlo. 

Emo 101 (’85-’00)
A conti fatti la più semplice da fare, ma anche quella in cui credo fosse più difficile distinguersi rispetto ad altre ipotetiche liste redatte con il medesimo scopo. Parliamo degli anni in cui l’emo è nato ed ha goduto del suo momento creativo di maggior spicco. Per moltissimi, l’unico periodo che abbia senso analizzare.
Su 12 pezzi, credo almeno 8 escano da dischi che per me sono capolavori. La cosa se vogliamo peculiare è che lo sono anche per un sacco di gente che ne capisce molto più di me. I gruppi coinvolti son quelli che trovate in qualsiasi testo a tema emo reperibile su internet, da wikipedia in giù, tralasciando però tutte le pagine di gente che parla di una roba che non ha idea di cosa sia.
Dopo averla fatta l’ho ascoltata alla nausea.

Emo 202 (’01-’10)
Qui la situazione si fa spinosa perchè è evidente il primo decennio del nuovo millennio coincida sì con la “maturazione” del genere, ma anche con il suo più drammatico sputtanamento. La corretta informazione avrebbe dovuto tener conto di entrambi i fattori e regalarci una playlist cumulativa, ma con Andrea si è deciso per farne due, una radical chic e una da guilty pleasure. Io i confini tra le due li vedo davvero molto sfumati, ma capisco il ragionamento.
La prima è questa e contiene alcune delle mie canzoni della vita.

La seconda invece è decisamente più cafona e contiene un sacco di roba che non ha propriamente una dignità. Dal canto mio però rivendico il diritto di difendere ogni singola traccia di questa seconda lista, che a conti fatti se vogliamo ha dalla sua il tentativo di sviluppare il tema in maniera diversa, anche se profondamente sbagliata a livello ideologico.
Poi oh, se ho tempo per una sola delle due, 8/10 metto su la seconda perchè io un po’ la penso come René Ferretti.

Emo 303 (’11-’19)
Terza playlist e siamo a quello che per me è il capitolo più complicato perché c’è da pescare nell’ultimo decennio (che decennio poi non è, ma vabbeh) e io non sono più sul pezzo da tantissimo tempo. La prova è che in lista sono finiti pezzi di dischi belli, ma che non ho mai comprato.
In generale il grosso del mio sforzo era volto a dimostrare che le idee, quando si parla di emo, ormai siano finite, ma anche che fare bei dischi usando le idee di altri venuti prima non è mai stata pratica per quel che mi riguarda deplorevole. In coda ho voluto mettere quello che per me è l’unico filone nato in questo periodo e con qualcosa di “nuovo” da dire e se vogliamo fa sorridere perché pur basandosi sul campionare i pezzi dei decenni prima (letteralmente), alla fine risulta comunque più fresco del revivalismo derivativo delle tracce che lo precedono in questa playlist.
Questo giro ci ho messo anche un pezzo italiano perché, in questo decennio, ho ascoltato forse più dischi italiani che stranieri. Poi mi dicono che da noi arriva sempre tutto dopo, quindi credo abbia senso.

Probabilmente nessuno ha bisogno che io gli spieghi cosa sia l’EMO, certamente non nel 2019, ma è un giochino che mi sono divertito a fare e che mi ha permesso di mettere insieme delle playlist che ascolterò certamente un sacco.
Quindi boh, evviva.

Il mio disco Preferito

Una volta leggevo un blog di musica che mi piaceva molto e che in merito alla questione “disco preferito” aveva una posizione piuttosto articolata.
Per me il discorso è decisamente più semplice: da che esisto ho avuto diversi dischi preferiti, in diversi momenti della mia vita, ma mai più di uno per volta.
Il primo è stato The Final Countdown degli Europe e c’entra col fatto che il 5 settembre 1988 invece di andare in seconda elementare sono andato in sala operatoria a farmi aggiustare il cuore. Il disco me lo portó in ospedale un amico dei miei, su una cassetta da 90′: lato A gli Europe, lato B l’album di Barbarossa con dentro Al di là del muro. Del lato B ricordo a malapena quel pezzo, che tuttavia non ascolto da 31 anni (sono tentato di metterlo su ora, ma credo alla fine eviterò1). Con The Final Countdown invece fu amore vero, tanto che ancora oggi me lo risento volentieri, quando capita.
Per quasi tutti i miei dischi preferiti è funzionato così: musica che posso immediatamente associare ad un periodo o un’esperienza, a volte a una persona, e da cui mi sono sentito rappresentato al 100% come ascoltatore (probabilmente anche come individuo) nel momento in cui stava in cima alle mie preferenze.

Ho questa idea che, per quanto spero mi resti molto tempo a disposizione, non ci sono altri dischi preferiti ad attendermi nel futuro. Temo ci sia una stagione per tutto, nella vita.
È quindi ragionevole pensare che il mio attuale disco preferito sia destinato ad essere il Preferito con la maiuscola, avendo avuto la meglio sulla concorrenza passata ed essendo al contempo al sicuro da attacchi futuri.
Paradossalmente, è anche l’unico disco che è riuscito a farsi amare così tanto senza essere correlato a nessun particolare aspetto/momento della mia vita.

Questo post parla di Under the Radar, un disco dei Grade.

Ho detto che non è un disco che ricollego ad un momento della mia vita, ma non vuol dire che non abbia ricordi a riguardo. A differenza di tanti altri dischi infatti, ricordo esattamente la prima volta in cui l’ho ascoltato. Ero in treno, vagone con cuccetta, e stavo andando con mio padre in Sicilia per il matrimonio di un cugino. Dopo aver speso una cifra di tempo nel tentativo di trovarlo su uno dei vari P2P dell’epoca (a memoria siamo nel 20052), finalmente me lo ero scaricato e messo sul lettore .mp3 portatile, con moderate aspettative. Erano gli anni in cui bazzicavo una webzine chiamata Munnezza (poi Dedication) e UtR era citato come riferimento principale di una cifra di dischi post-hc, nu-emocore e compagnia di cui in quel momento storico andavo ghiottissimo. Ciò nonostante, sulla webzine non c’era una recensione del disco e anche altrove leggerne era piuttosto complicato, trattandosi di un’opera probabilmente sì seminale, ma da cui ha avuto origine uno dei movimenti più infami e bistrattati della storia del rock alternativo. Movimento di cui, vorrei ribadire, sono comunque stato profondamente appassionato per diversi anni e che, ancora oggi, mi pare tutto sommato in linea con tanta altra merda che non ho ritegno nell’ascoltare, ma che a conti fatti gode inspiegabilmente di maggior credito. 
Ad ogni modo, ricordo di essermi messo questo disco in cuffia e di essermene innamorato subito. Il motivo di questo colpo di fulmine l’ho capito un po’ di tempo dopo: UtR è sostanzialmente il disco perfetto, sotto ogni punto di vista.
Non c’è un pezzo debole o mal riuscito, ok, ma questa non è una caratteristica unica. Il punto è che non mi vengono in mente altri esempi in cui così tante melodie siano state incastrate in modo altrettanto efficace per generare di fatto canzoni prive della canonica struttura strofa-ritornello, ma che non perdano la capacità di incollarsi in testa immediatamente e restarci a vita. Under the Radar ha scoperto la formula magica per fondere gli elementi duri e tendenzialmente poco accesibili dell’hardcore ad un immediatezza completamente pop, senza però abbassarsi ai compromessi paraculi che sono invece stati fondamentali a tutti quelli che sono venuti dopo e che hanno di fatto sancito la morte del genere. Una roba completamente irripetibile, tanto che gli stessi Grade col disco seguente hanno provato a cambiare completamente strada, credo per evitare paragoni infelici (che in ogni caso è impossibile non fare, visto che Headfirst Straight to Hell è, ad esser buoni, un disco del tutto sbagliato).
Non bastasse la perfezione compositiva, UtR è anche il mio disco di riferimento in termini di suoni e produzione. Non è una di quelle robe iperprodotte in cui l’approccio diciamo “barocco” a Pro Tools con lo scopo di far suonare tutto GROSSO si traduce nel far suonare tutto finto, ma non è neanche figlio del movimento reazionario che in tutta risposta ha sancito i dischi di musica alternativa dovessero per forza suonare come se li avesse registrati un non udente nel suo box catturando tutto in presa diretta col microfono del Canta Tu.
In UtR c’è una base ritmica solidissima e piena, che ti tiene incollato ai pezzi senza distrarti, e poi ci sono due chitarre che fanno sempre la cosa giusta, dialogando perfettamente e risultando sempre distinguibili, anche nei momenti più rumorosi. Zero sovraincisioni, nessuna traccia di chitarra aggiuntiva, essenziale come pochi altri dischi che ho in casa eppure ricchissimo di sfumature che vengono fuori ascolto dopo ascolto. Anche le voci sono perfette: le parti di scream sono sporche e ruvide, ma mai finte, mentre quelle clean sono melodiche, ma non melense. Tutto è al posto giusto per undici tracce, di cui l’ultima si chiama Triumph and Tragedy e ad un certo punto dice così:

My relationship, with reality (yeah)
It comes and goes

Non credo esista un singolo verso in qualsiasi altra canzone che senta più vicino.

Oggi, 12 Ottobre 2019, compie vent’anni il mio disco Preferito. 


1 Alla fine ho evitato.
2 Ho controllato, era davvero il luglio 2005. Il cugino è andato in viaggio di nozze a Sharm el-Sheikh e l’hanno rimpatriato pochi giorni dopo per via degli attentati. Una di quelle cose che non sai dire se sia sfiga perché c’è finito in mezzo o culo perché può raccontarla.

Joker

Sta sera ho deciso di andarmi a vedere il Joker di Todd Philips (o se preferite di Joaquin Phoenix), da solo e al secondo spettacolo. Non avevo voglia, ma ho letto così tanti complimenti in giro da voler verificare di persona appena possibile.
Il dubbio più grande che avevo era che non avrebbe retto le aspettative che mi sono fatto leggendone in giro.
Ecco alcuni commenti sparsi che può leggere anche chi non lo ha visto, senza che rovinino nulla (tranne forse uno, ma lo segnalo prima).
1) Non lo so se usare il cattivo dei fummetti sia stato solo un pretesto per vendere il film, ma di sicuro, anche togliendo i Wayne e Gotham City dall’equazione, persino mia nonna all’uscita avrebbe detto: “Bello tutto, ma questo è il Joker…”
2) Non dirò che Joaquin Phenix è meno bravo di quel che si dice e legge in giro. Mentirei. Per darvi l’idea di come la vedo io però, posso dire che il mio Di Caprio preferito non è quello di The Revenant.
3) Ho letto che negli Stati Uniti c’è una certa preoccupazione intorno a quanto questo film possa innescare e che addirittura in alcuni casi si sia parlato di “stato di allerta” e “misure precauzionali”. Posso capire, ma non credo sia un problema del film.
Al di qua dell’Atlantico fortunatamente credo il peggio che possa accadere sia un nuovo effetto “V per Vendetta”, il cui pensiero mi porta in ogni caso a bestemmiare maledicendo la pellicola.
4) Domanda tecnica: la versione doppiata presenta gran parte dei testi a video tradotta in italiano, ma non tutti. Perché (cazzo) ne hanno tralasciati alcuni? Se pensavano fosse un lavoro utile (non lo è), tanto valeva farlo completo.
5) Si chiama Joker, parla del Joker: è un cinecomic. Non capisco la polemica che si è scatenata in tal senso.

Concludendo quindi é un gran bel film e merita i premi e i complimenti che sta raccogliendo, anche oltre la prova d’attore del protagonista. Per me, ad esempio, ha una regia strepitosa.
Se proprio dovessi fargli un appunto (MINISPOILER) mi sarei giocato meglio l’ambiguità tra quel che è reale e quel che Arthur percepisce in seguito alla sospensione delle terapie farmacologiche cui è sottoposto. Il film parte bene in quel senso, ma poi diventa eccessivamente “pulito” e lineare, quindi forse si poteva far meglio. Sono però davvero dettagli che non tolgono nulla alla valutazione complessiva.
Ultima riflessione a margine. Inizio ad avere un problema con le opere che mi sbattono in faccia quanto è orrenda la società in cui viviamo. Giorni fa tiravo un pippone sui social in merito all’ultimo video di Massimo Pericolo e ai numeri che mette insieme e per questo Joker vincitore a Venezia vale grossomodo lo stesso discorso. Non dico sia sbagliato che l’arte svolga questo ruolo, penso anzi il contrario, però forse sto nella parte di società che certi problemi li vede, ma non li vive ed il mio inconscio egoista vorrebbe evitare di venirci a contatto, se non sempre, almeno quando sta cercando di dedicarsi ad azioni di svago. Credo lo prenda come un colpo sotto la cintura. Lo so, è un discorso stronzo, ma sto spazio serve soprattutto a mettermi di fronte ai miei discorsi stronzi.
Certo è che se in Italia opere come Gomorra sollevano sempre un putiferio legato a quanto sia eticamente corretto raccontare i cattivi con una certa epica, al netto del fatto il messaggio nostrano sia sempre che quel tipo di scelta criminale non paga, questo film fa proprio saltare il banco, basandosi quasi esclusivamente sul darci la prospettiva del pazzo omicida. Non dico sia una cosa per forza sbagliata, credo sia argomento complesso e che certamente non voglio affrontare alla 1:55 di notte, ma resta un dato a mio avviso interessante.

Nel 2019 sono usciti sia Endgame che Joker: direi annata non male per i fumetti sul grande schermo.

Once upon a time in Hollywood

La roba più difficile è stata dover aspettare. Per vederlo, ma anche per leggerne, perché volevo arrivarci vergine e reagire di conseguenza, solo in virtù di quanto visto sullo schermo e delle mie aspettative. Non so se vi sia mai successo, ma nel 2019 è una fottuta guerra.
Un’altra roba per nulla facile è stata vederlo doppiato, perché è un film che per gran parte si regge sullo spiegare a chi guarda cosa voglia dire recitare e vederlo doppiato toglie molto più che in altri casi, ma per quello ci sarà tempo e modo di rimediare.

Questa sera sono andato a vedere “Once upon a time in Hollywood”, nono film di Quentin Tarantino, e all’uscita ero cosí fomentato da volerne scrivere e parlare con tutti, cosa che non mi succedeva da Inglorius Basterds.

Adesso ci sarebbe spazio per qualche commento più dettagliato sul film, che per alcuni potrebbe voler dire SPOILER. Ancora una volta però le vicende su cui si basa la storia non sono che un pretesto, una scusa cui appoggiarsi per mettere in scena quel che realmente Tarantino vuole raccontare, ovvero il cinema. In questo il “messaggio” è paro paro quello di Bastardi senza Gloria: il potere salvifico (?) del cinema, della finzione, nell’orrenda realtà in cui siamo costretti a vivere. Questa volta il concetto non è però spalmato su tutto il film, ma relegato al finale e spiegato veramente in stampatello e con qualche disegno in modo che nessuno possa perdersi il sottotesto. Non è solo il film che aggiusta la storia, non è solo il cinema (rappresentato dai personaggi fittizi di Di Caprio e Pitt) a salvare la relatá (Margot Robbie): a quelli che la storia ci ha consegnato come carnefici di una delle più efferate stragi del passato recente il nostro mette anche in bocca un dialogo sui danni causati dalla violenza in tv, prima di farli morire male che più male non si può. Una roba da applausi, che però come dicevo non è che la fine del film.
Sharon Tate in OUATIH avrà forse 6 battute, metterla sui cartelloni e in tutto il materiale promo serve solo a vendere il film a chi ancora ha bisogno di un motivo per andare al cinema a vedere un film di Tarantino (pazzi). Per più di due ore quello che ci viene proposto è l’amore di Tarantino per il cinema, come tutte le altre volte, ma in maniera ancora più esplicita e dettagliata.
Si dice che di solito Tarantino usi un genere per poi farne un altro: western travestiti da film di guerra, horror travestiti da western e via dicendo.
In quest’ottica, per me, questo giro Quentin Tarantino ci ha regalato la sua idea di porno.

Ora scusate, devo leggere ogni possibile articolo mi sia perso a riguardo nell’ultimo mese (almeno)

Me lo ha chiesto internet

Ieri su twitter è successo questo:

Ora, chi sono io per oppormi al volere della rete nell’epoca in cui perfino le alleanze di governo devono sottostarvi?
Nessuno.
Quindi, nonostante tutti i miei buoni propositi e le promesse, mi trovo costretto a rivedere i miei piani e recensire NINE, l’ultimo disco dei Blink 182.
Se questa cosa ha un lato positivo è che quantomeno questa sarà l’unica recensione che abbia senso leggere in merito al disco in questione.

Nine è il secondo disco dei Blink 182 con Matt Skiba al posto di Tom DeLonge e se sembra diverso da quello prima è essenzialmente per due motivi: Matt ha ricevuto un minimo spazio in fase compositiva e hanno prodotto i pezzi come fosse un disco dei 30 Seconds to Mars.
MH ha un repertorio che non arriva a cinque linee melodiche e credo si sia accorto che riciclarle ulteriormente (Pin the granade) sia ridicolo. Il problema è che quando prova a tirar fuori qualcosa di diverso, finisce col fare il verso ai Police (Hungover you) e il risultato è anche peggio. Spazio quindi a Matt, che a conti fatti canzoni ne ha sempre sapute scrivere. In Nine quindi finiscono pezzi degli Alkaline Trio (Black Rain), che hanno il pregio di risultare freschi alla fanbase, ma un po’ meno a chi ‘sta roba ce l’ha in cuffia da vent’anni. Il giorno in cui in casa Blink capiranno che invece di spartirsi i pezzi sarebbe meglio lavorarci insieme e mescolare gli igredienti forse non ne uscirà il White Album, ma di certo qualcosa di più interessante. In ogni caso, come direbbe Syrio Forel, “Not today”.
Altra chiave di innovazione su cui si punta sono appunto i suoni alla 30 Seconds to Mars (No heart to speak of) la cui efficacia, nel 2019, è tutta da dimostrare nonostante, questo va detto, un disco come questo Jared Leto non lo metterebbe insieme nemmeno se ci lavorasse da oggi alla fine dei suoi giorni.
Il resto è grossomodo quel che c’era in California (Ransom è sostanzialmente Cynical), sgrossato dal peso di dover fare le canzoncine divertenti e voler parlare solo a gente che non ha più di sedici anni. Due ottimi passi avanti, concettualmente, che però certo non bastano a farmi alzare dalla sedia.
Di contro, in tre giorni avrò ascoltato Nine dieci volte e potrei ascoltarlo altrettante nelle prossime ore senza problemi, fischiettando anche qualche pezzo. Non credo esistano altre band di quel giro ancora capaci di farmelo fare, quindi se vogliamo dire che è un disco superfluo e dimenticabile ok, ma brutto in senso assoluto no, specie per il target di riferimento.
Chiudo su Travis con una notizia buona ed una cattiva: la buona è che riesce ad essere inopportuno e fastidioso solo in un’occasione, la cattiva è che in quell’occasione devasta la traccia migliore di tutto il disco (Remember to forget me).

Mi prendo l’ultima riga per ringraziare Andrea per la pietà mostrata nei miei confronti e tutti i regaz che gli/mi hanno datto corda in questa pantomima.
Cuori grossi.

I 10 dischi del decennio

Tempo fa ho fatto la classifica dei miei 10 film del decennio.
Ora è il turno di quella dei dischi. A differenza della prima è stato molto più semplice perchè non ho lasciato fuori nulla di cui sia pentito.
L’ordine non è casuale, ma cambierebbe dieci volte se la rifacessi dieci volte.
1) Envy – Atheist’s cornea
2) Minnie’s – L’esercizio delle distanze
3) Brand New – Science Fiction
4) Modern Baseball – You’re gonna miss it all…
5) Moving Mountains – S/T
6) Sorority Noise – You’re not as _____ as you think
7) Touché Amoré – Parting the sea between brightness and me
8) Dargen D’Amico – Vivere aiuta a non morire
9) Thrice – Major/Minor
10) Defeater – Empty days & sleepless nights

To tweet or not to tweet

Poco fa su twitter una delle persone che seguo ha condiviso il video di una TED Conference a tema social shaming. E’ un intervento molto bello, che credo sia giusto condividere, ma che mi dà anche occasione di buttar giù una riflessione sul mio rapporto con twitter, che nell’ultimo periodo non è proprio rose e fiori.
Prima però metto il video dell’intervento, che è la parte interessante del post. A chi non volesse sorbirsi anche il resto basta evitare di leggere quel che c’è scritto dopo.

Fortunatamente, i problemi che sto avendo io con twitter non sono quelli riportati nel video. Potrebbero esserlo? Non lo so, da un lato credo di no, non è un rischio che correrei volentieri, ma dall’altro è evidente io non abbia una percezione reale di come il mio modo di esprimermi su twitter arrivi a chi legge.
La persona che ha condiviso questo video qualche ora prima mi diceva, dopo avermi dato del troll, che mi esprimo su twitter “come fossi su un forum nel 2003”. Credo sia un commento molto centrato, quindi partirò da lì.

Io non mi sono mai posto più di tanto il problema di come si sta su un social network, quale che sia. Li ho sempre approcciati in modo molto egoistico ed egocentrico: usarli per il mio scopo alle mie regole, non curandomi più di tanto di venire compreso. Non lo dico con l’arroganza di chi crede sia l’approccio corretto, però è una cosa di cui sono consapevole e che non ho mai pensato di cambiare. Vale a tutti i livelli, ovviamente. Su Instragram, ad esempio, non metto quasi mai foto di paesaggi nè uso hashtag per catalizzare visite. Il motivo è che l’ho sempre inteso come un album di ricordi personali da condividere, che debbano parlare di me e non di quanto sia bello o interessante quel che mi sta intorno.
Lo stesso discorso vale per twitter. Ci sono entrato perchè lo trovo un bel modo per stare aggiornato su quel che succede intorno a me e perchè mi dà la possibilità di dialogare con persone che non sono magari accessibili per un’interazione diretta. Non necessariamente persone con cui sono sempre d’accordo, spesso con persone di cui stimo l’opinione anche quando è molto distante dalla mia. Nel video qui sopra si parla di twitter come di “Mutual approval machine” (10:42) ed è una cosa che penso molto vera, ma che personalmente non faccio. Mi piace discutere con persone che la pensano in modo diverso da me perchè mi aiuta a pensare. A volte mi permette di mettermi in discussione, altre volte rafforza il mio punto di vista in virtù dell’aver avuto una visione più completa delle altre possibilità. Puntualmente però, quando mi capita uno scambio di punti di vista con qualcuno che la vede molto diversamente da me, i like sono sempre piuttosto schierati: i follower dell’interlocutore cuorano i tweet dello stesso. Se si tratta di uno che ha “i numeri” di solito le sue risposte ricevono un’approvazione solida e massiccia. Raramente qualcuno della curva opposta trova condivisibile la mia visione ed è una cosa che mi è sempre sembrata “strana”, a livello statistico. Probabilmente parte della spiegazione sta in questo fenomeno di “bolla di approvazione” all’interno di cui ci si muove.

Un’altra parte della spiegazione potrebbe stare nel fatto che non sono capace di comunicare online. Io ho “imparato” a relazionarmi con persone sconosciute usando una tastiera proprio sui forum, per quello prima dicevo che quella descrizione appiccicatami ‘sta mattina è probabilmente molto vera. Non ho cambiato modo di pormi rispetto a quelle dinamiche lì e se c’è una differenza comunicativa tra i due mezzi, io non solo non la applico, ma non la conosco proprio. Oltretutto quel tipo di approccio è piuttosto comune anche nelle chat whatsapp che ho con gli amici, con la grossa differenza che in quel caso sono persone che conosco e a cui è più semplice “contestualizzare” un mio messaggio sulla base della persona che sono, identificandone magari il tono o lo scopo. 
Non è che cerchi di essere criptico quando scrivo, di solito ci provo davvero duro a farmi capire, eppure il messaggio spesso non passa  o non attecchisce. Non sono così insicuro da pensare di non saper scrivere frasi di senso compiuto, ma il numero di persone che hanno a che fare con me online e che non capisce quanto gli dico è diventato “sospetto”, perchè siano unicamente loro la causa del problema. In più sono abbastanza permaloso, quindi per quanto cerchi di non farlo mai per primo, non ho particolari inibizioni nel portarmi a livello di chi si pone in maniera passivo aggressiva o mi tratta evidentemente da scemo e questo, incredibilmente, non aiuta a chiarire eventuali incomprensioni.
Tutto sommato che la cosa fosse in questi termini mi è sempre andato piuttosto bene. Il rate di situazioni in cui uscivo dalla discussione con il nervoso era accettabile e pensavo di avere le spalle sufficientemente larghe per sopportare che una manciata di sconosciuti potesse pensare di me che sono un demente.
Nell’ultimo periodo però mi pare di raccogliere dal mio intorno digitale sempre più merda in faccia ed inizio ad averne un po’ abbastanza. Sono un tizio con 333 follower che nei massimi episodi di consenso online raccatta due o tre dozzine di like. Non ho ancora smesso di chiedermi come mai certe cose che dico non arrivino, soprattutto quando si tratta di gag o battute, ma mi sono rassegnato all’evidenza dei fatti. Sono sempre stato così, però. Quindi o mi prendevo troppo pochi vaffanculo prima (possibile) o qualcosa è cambiato anche nel modo in cui le altre persone stanno sui social. Probabilmente, anche in questo caso, la verità sta in mezzo. 
Il video qui sopra mi ha portato a riflettere sul fatto che le mie spalle potrebbero non essere davvero larghe abbastanza. Ed è una cosa che fa paura.

Da qualche giorno sto pensando seriamente di staccare un po’ la spina a Twitter.
Se non l’ho fatto è perchè credo davvero sia un buon modo per rimanere aggiornati su quanto succede nel mondo: su twitter le notizie arrivano prima e in maniera meno filtrata, lasciandomi un giusto spazio per approfondire. Non è una cosa a cui mi sento di rinunciare.
La soluzione quindi potrebbe essere continuare a starci, ma senza parlare con nessuno. Leggere quel che scrivono gli altri e magari scrivere quel che mi va di dire a mia volta, ma smettere di interagire. Conoscendomi potrebbe essere una delle sfide più difficili per me perchè il mio stare sui social deriva da un grande bisogno di parlare con persone di cose di cui non ho modo di discutere altrove. Al momento la vedo come una rinuncia gigantesca, forse però sovrastimo il mio reale bisogno di stare attaccato a questa macchina.
C’è quel famoso detto: “E’ meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio.”.
Ecco io ritengo sia una mega cazzata.
O meglio, se per quel che penso e dico ti sembro stupido è giusto correre il rischio e fare in modo che il tuo giudizio emerga. In un modo o nell’altro, è una cosa che alla fine farà bene ad entrambi. Andando per logica però, potrebbe tranquillamente essere un altro ambito in cui il mio punto di vista si riveli non condiviso.

EDIT: La mia forza di volontà ha resistito sette giorni. Dio, se sono inaffidabile.

 

#VacanzeAlFresco

In passato mi è capitato di fantasticare all’idea di poter fare il “travel blogger” di mestiere. Fare del viaggiare il proprio lavoro, girare il mondo a spese di altri. Mi sembrava davvero uno di quei sogni che si fanno ogni tanto, tipo quelli in cui si pianifica come spendere vincite milionarie ottenute tramite lotterie a cui neanche si gioca.
Ultimamente ho cambiato idea.
Credo che fare il viaggiatore professionista finirebbe con l’uccidere la mia passione, soffocandola di doveri che limitazioni che sono comuni a tutti i lavori. Seguo un paio di travel blogger sui social e li vedo sempre entusiasti, impegnati in 15 viaggi all’anno tutti magnifici e incredibili. Non ho il dubbio siano sinceri, o meglio non mi interessa stare a sindacare sul fatto che lo siano, è più un vedersi in quella situazione e pensare che, al posto loro, probabilmente inizierei ad odiare quella vita. Qualcuno penserà sia un discorso di volpe ed uva, ma in realtà è che probabilmente quello che sognavo era che qualcuno mi pagasse le vacanze, non di viaggiare per lavoro.
La mia passione per i viaggi non è limitata al momento in cui sono in viaggio. A me piace proprio tutta la parte in cui valuto le mete, approfondisco, studio, mi confronto, pianifico itinerari e, solo alla fine, parto. E mi piace sia il frutto di un lavoro, sì, ma che nessuno mi chiede di fare. Mi piace poter decidere se e quando viaggiare, come farlo e dove andare. Sotto sotto credo mi piaccia anche non avere tutte le mete sempre a disposizione, dovermi fare i conti dei viaggi che posso e non posso fare ed eventualmente pensare ai “sacrifici” da mettere in atto per arrivare a mete che, senza qualche “rinuncia”, sulla carta sarebbero fuori portata. Non credo di dover spiegare il perchè delle virgolette.
Mesi fa stavo meditando di aprire un account Instagram dove mettere le foto migliori dei posti in cui sono stato, corredate da didascalie ricche di consigli, #hashtag e link in bio. Poi ho pensato che anche no. L’uso che ho sempre fatto di instagram è “immortalare ricordi di vita”, un po’ come ho sempre usato il blog più che altro per un bisogno personale. Mi fa piacere se a qualcuno interessa, ma vivo bene anche se così non è.
Alla fine quindi è bello viaggiare per vocazione. Fare delle tue passioni il tuo lavoro per me è un buon modo per ucciderle, quelle passioni. L’obbiettivo dovrebbe essere trovarsi un lavoro che ti permetta di avere delle passioni che esulano dallo stesso.

Va beh, dopo ‘sta pippa inutile andiamo al succo del discorso. Quest’anno in vacanza Manq e famiglia sono andati otto giorni in Giordania ed è stato davvero molto bello, al netto di esserci per la prima volta confrontati con una cultura non solo molto distante dalla nostra, ma anche non esattamente propensa a non far pesare questa distanza. 
Come tutti gli anni ho messo insieme una paginetta coi dettagli del viaggio e qualche dritta per chi fosse interessato. Questa è una delle poche cose che faccio espressamente per il prossimo e la faccio con piacere perchè mi capita che amici e conoscenti mi chiedano indicazioni su come muoversi, specie da quando lo faccio coi figli. Se posso essere utile, perchè no? Io pagine come quelle che scrivo ne leggo tantissime mentre pianifico i miei viaggi, quindi è un po’ come contribuire ad un servizio che uso. A corredo ovviamente non può mancare la solita gallery di foto brutte.
Ora è tempo di pensare alla prossima meta.

Dick pics: una chiacchierata con Mara

Ad inizio giugno ho iniziato una conversazione via email con Mara, autrice ed editrice prima di Serialmente e ora di playermagazine, nonché persona particolarmente attiva nella lotta per i diritti delle donne e per la parità di genere. Mi capita spesso di litigare confrontarmi con lei su twitter, ma in questa occasione cercavo un dialogo libero da limiti di caratteri e lei è stata molto disponibile nel prestarsi a questa chiacchierata, cosa per cui la ringrazio molto.
Io sono quello che scrive in corsivo, che non può capire in quanto uomo ed il cui pensiero è irrilevante.
Lei è quella che scrive in grassetto e che parte per la tangente.
Ne è uscita una sorta di intervista certamente più lunga del previsto, ma a mio avviso interessante.
Ah sì, l’argomento è: le foto del cazzo in chat.

Il punto di partenza per me è questo: la pratica del mandare una foto del proprio cazzo in chat come “door opener” di relazioni che nascono online è diffusa. Tutti sanno che è qualcosa che succede, nel mio intorno digitale se ne parla spesso e anche nella mia vita reale, dove frequento persone che non hanno la mia stessa presenza online, l’argomento è sdoganato. Come a dire: esiste un fenomeno di costume che prevede l’iniziare una conversazione mandando all’interlocutrice la foto del cazzo. Se siamo arrivati a questo livello di diffusione del concetto significa che è davvero qualcosa di molto comune nella vita quotidiana delle persone. La mia logica ha quindi tirato due somme: se tutti conoscono il fenomeno vuol dire che ha attecchito, se ha attecchito vuol dire che funziona. Perché, prova a pensarci, lo scopo finale di questa cosa è scopare, giusto? Non ha altre implicazioni. Non c’è alcun ritorno per chi invia la foto se non il portarsi a casa una scopata. Lo fai una volta perché tuo cugino ti ha detto che è una strategia sicura, magari, ma se dopo tre tentativi non hai risultati o sei davvero orgoglioso oltre misura dell’aspetto del tuo uccello e valuti che continuare a spammarlo in giro valga il non scopare, oppure passi ad altro. Credo. Non so dirti il rate di successo, è probabile sia influenzato da mille variabili, ma di certo se nessuno avesse mai scopato grazie alla foto del cazzo in chat, Manq, utente social maschio che non è tendenzialmente bersaglio di questo tipo di messaggi, non ne saprebbe niente.
La prima domanda quindi, se vuoi anche per metterti a tuo agio, è: hai mai ricevuto cazzi in chat? SCHERZO. Non è una cosa che voglio sapere. 
Per iniziare vorrei chiederti se hai la mia stessa percezione, ovvero di un fenomeno reale e diffuso, o se credi che sia legato 80% ad una certa narrazione maschile che per qualche ragione si bulla di azioni che poi in realtà non compie e 20% a reali disagiati che mandano la foto del cazzo anche se non porta da nessuna parte. Immagino che per una donna lo scenario possa anche essere molto diverso, quindi prima definiamo il campo da gioco se ti va. 

Ecco, nel tweet parlavi di “statistiche” e di un “rate di successo” evidentemente incoraggiante al reitero della pratica, ma a conti fatti non stiamo parlando di numeri rilevati statisticamente ma della tua percezione all’interno della tua bolla che – naturalmente – è ben diversa dalla mia che infatti smentisce la tua di realtà. Prima di addentrarmi nella questione vera e propria, però, anch’io vorrei farti una domanda e chiederti se nella tua esperienza, diretta o indiretta, per un uomo l’arrivo non richiesto di foto esplicite è motivo di orgoglio ed entusiasmo, oppure è causa di disagio: ti è mai capitato di discutere con o di uomini che si sono sentiti offesi, mortificati, o infastiditi dall’arrivo non richiesto di particolari anatomici femminili? E se sei incappato in questa situazione la risposta circostante, soprattutto maschile, è stata di comprensione o dileggio?
Prevedo che per gli uomini non solo non sia un problema ricevere foto hot, seppure non richieste, ma anche motivo di vanto e purtroppo l’universo maschile è portato a prendere sé stesso e le proprie reazioni quale metro di misurazione da applicarsi a chiunque altr*.
Il fatto che esista tutto un mondo di donne che stigmatizza come inopportuno, mortificante, fin anche allarmante, il ritrovarsi email e dm con soggetti non richiesti dovrebbe far capire che è molto più comune che la destinataria blocchi il tipo che invia, piuttosto che gli accordi un appuntamento. Anche ammettendo che ci sia qualcuno a cui sia andata effettivamente bene (il “
success rate” di cui parli) non dice nulla di quante volte la pratica debba essere reiterata per produrre frutti: è verosimile che all’invio delle tue pudenda, prima ancora di un ciao, ci sia subito una risposta positiva? Direi proprio di no, così come avviene per un qualsiasi altro tipo di approccio dal complimento al bar, a quello per strada, alla battuta a una festa [rassegnatevi: non esiste una tecnica infallibile]. Prima di arrivare al punto in cui la domanda si incontra con un’offerta bisogna tentare, quindi un tipo che verosimilmente ti dice di aver avuto di recente tre incontri con questa modalità ha probabilmente inviato un centinaio di foto a un centinaio di donne che in prevalenza si saranno offese, risentite, infastidite, ma in questi casi conta il risultato da esibire e tre donne a cui è andata bene questa modalità di incontro diventano facilmente lo standard a scapito di 97 a cui è stata rovinata la giornata.
Poi, sostenere che se l’invio della dick pick continua a essere pratica diffusa – numeri? – è perché funziona, significa anche dimenticare di quanto e come gli uomini siano abituati a fare quello che vogliono, o peggio continuino nel prodursi in quello che ritengono un esercizio di un loro diritto, nonostante venga loro spiegato che no, non è così. Vedi banalmente l’apprezzamento per strada, da anni viene detto che la catcall è offensiva e irritante ma pare che gli uomini continuino come fosse un loro diritto inalienabile. Ti prevengo: sì ci sono alcune donne a cui l’apprezzamento per strada aumenta l’autostima, questo perché il maschilismo non è genetico ma un costrutto sociale che non risparmia le stesse donne.

Hai messo un bel po’ di carne al fuoco, vediamo se riesco a commentare tutto con un minimo di ordine e senza perdermi nulla.
Dici che la mia realtà è diversa dalla tua, ma poi dici che effettivamente le dick pic sono una cosa reale, che effettivamente arriva, quindi settiamoci su questo dato: non parliamo di una leggenda metropolitana, ma di un fenomeno esistente. Che è la stessa realtà che vivo io, l’ipotesi su cui si fonda il ragionamento. Quel che per te è diversa è la percezione che io (uomo) e tu (donna) abbiamo del fenomeno, ma anche qui mi stai facendo più che altro un processo alle intenzioni. Chiarisco: la mia opinione sulla foto del cazzo come primo step comunicativo è che sia una roba completamente senza senso. Lo sarebbe anche a parti inverse, ovviamente. Se una tipa come prima cosa mi spedisse la foto delle tette la bollerei come una matta. E’ vero, probabilmente io non mi sentirei offeso o molestato dalla cosa perché parto da una posizione sociale ben diversa, ma penso che parte del problema sia proprio lì. Ci arrivo dopo, spero.
Quello che non mi torna è la tua certezza assoluta sul fatto che la maggior parte delle donne blocchi il tipo che gli manda il cazzo in chat e che il rapporto stia effettivamente di 97 cazzi mandati a vuoto contro 3 cazzi a bersaglio. Per me è un discorso illogico: così fosse non credo davvero ne staremmo parlando. E’ più probabile la verità stia in mezzo: quel tipo di approccio paga, in qualche modo, ma è difficile stimare quanto perché:
– una donna non può permettersi di dire “sì guarda, io se ricevo un cazzo in chat sono incuriosita” per evidenti problemi derivati, quelli sì, da secoli di cultura maschilista e repressiva (quindi cattolica).
– è ampiamente possibile il fenomeno sia partito da un portale dedicato a scopare (che so, Tinder) e che lì avesse magari un certo “success rate” che ha convinto i minus habens a sdoganarlo in ogni altro contesto. Perché un cazzo in chat su Tinder non è un cazzo in chat su LinkedIn. E non sto dicendo che su Tinder vada bene, attenzione, sto dicendo che capirei se su Tinder in qualche modo pagasse.
In queste discussioni tendenzialmente finisco a prendermi del maschilista (beh, lo sei, starai pensando. In realtà non credo, ma non sono qui per convincere nessuno.), forse è perché trovo superfluo dover precisare che nessuno dovrebbe sentirsi oggetto di attenzioni manifestate in modi che mettano a disagio. So che non è per niente scontato rendersi conto di quanto la realtà sia diversa da questo presupposto, però penso sempre di non dovermi far carico di tutti i malcostumi del mondo maschile semplicemente perché sono nato uomo. Quindi quando dici che ricevere la foto di un cazzo può mettere a disagio una ragazza io lo capisco, quando dici che gli uomini si arrogano il diritto di tenere atteggiamenti fastidiosi impunemente pure. Il fatto ci possa essere qualche donna, poche o tante non conta, che da quegli atteggiamenti non è turbata non giustifica l’estenderli a tutte? Agree.
Spero sia quindi chiaro che la mia qui non è una sorta di apologia del cazzo in chat, non cerco un contraddittorio di questo tipo. Io voglio capire come ci si possa essere arrivati. Prendo il tuo parallelismo perché me lo ha fatto anche un’altra ragazza su twitter: la catcall. Per me i due fenomeni non sono per nulla accomunabili. 
Fischiare o fare commenti ad una ragazza per strada non è una tecnica di rimorchio. E’ una manifestazione di machismo che l’uomo usa per fare mostra di sé, spesso con altri uomini. E’ questione di branco o comunque di autodeterminazione. Nessun uomo fischia per strada sperando di ingraziarsi la vittima.
Il cazzo in chat è tutto un altro sport. E’ una questione privata, non c’è ritorno. Se stai cercando di scopare, fai le mosse che pensi ti portino a scopare. Se hai 100 donne e mandando il cazzo sai che te ne bruci 97, il cazzo non lo mandi.
Tu credi che oggi una ragazza possa dire: “A me piace ricevere cazzi in chat”?

Cito:
“La mia logica ha quindi tirato due somme” […] Non so dirti il rate di successo […] ma di certo se nessuno avesse mai scopato grazie alla foto del cazzo in chat, Manq, utente social maschio che non è tendenzialmente bersaglio di questo tipo di messaggi, non ne saprebbe niente.”
Ripartiamo da qui. La tua percezione, la tua bolla, la tua realtà di maschio etero. Vedi bene che alla tua base di partenza “io Manq utente medio non se saprei nulla se non fosse vero” potrebbe corrispondere un “Io Mara utente media non ne ho mai sentito parlare come di tecnica efficace” e le due percezioni si annullerebbero senza  numeri, statistiche, ricerche a suffragare la percezione dell’una o l’altra bolla. Dal tuo tweet iniziale dicendo “statisticamente” ti avevo preso alla lettera, pensavo che effettivamente avessi letto di qualche ricerca sull’argomento ma qui siamo nel campo di “la mia esperienza”.
Ma, prima di proseguire, metto prima i puntini sulle i. Sì, sei maschilista e no, non lo dico come offesa, pregiudizio o preveggenza: semplicemente lo siamo tutti, donne incluse, perché siamo stati educati e cresciuti in una cultura maschilista e sessista per liberarsi della quale serve fatica, impegno,  un’attenzione costante e una rinuncia, da parte degli uomini, a privilegi che non sono altro che soprusi socialmente accettati, e mi riferisco anche agli atteggiamenti più banali e scontati. Precisazione non necessariamente rivolta a te: rispettare le donne, riconoscere i loro diritti, essere per il consenso, essere contro la violenza ed essere a favore di un trattamento economico equo, è l’ABC della convivenza civile, nessuna medaglia al valore se credi in tutto questo. Un po’ come un genitore che dice “provvedo ai miei figli e non li picchio mai”: ci mancherebbe altro, è il minimo sindacale per essere genitori.
Quando scrivi “però penso sempre di non dovermi far carico di tutti i malcostumi del mondo maschile semplicemente perché sono nato uomo” confondi la colpa con la responsabilità: non è colpa tua se la situazione è quella che è, ma diventa una tua responsabilità continuare o meno a mettere in atto comportamenti che perpetuino lo status quo perché, come dicevo più su, essere contro la violenza, a favore del consenso ecc, non è sufficiente, bisogna che gli uomini rinuncino a quello che credono sia loro dovuto e cambino sistema di pensiero.
E qui mi ricollego al discorso principale.
Con l’esempio della catcall non ho voluto equiparare una presunta tecnica di rimorchio, l’invio della dick pic, ai fischi e lazzi per strada, ma mi è servito per sottolineare quanto poco agli uomini importi della reazione delle donne: da anni, ormai, agli uomini viene detto e ribadito che quella è una pratica indesiderata, ma loro continuano perché non ci vedono nulla di sbagliato, e se va bene a loro questo è tutto quello che vogliono sapere, e anzi sono convinti che alle donne piaccia anche se fanno finta di no.
Quindi sì, non ho mai negato che ci sia una diffusa pratica di invio di quel tipo di foto ma nego che possa essere una pratica che porta i propri frutti su una scala tale da far diventare il fatto una tecnica efficace per racimolare una serata di sesso. Chiarisco ulteriormente, non sto parlando di due che si messaggiano, si “
piacciono” e da lì si passa al sexting: quando c’è reciprocità non esiste discussione.
Ma visto che parliamo anche di strutture di pensiero diverse e spesso opposte, prova a condurre un piccolo sondaggio tra gli uomini che cercano di portare a casa un paio d’ore di sesso e chiedi loro: se inviando a 100 sconosciute una foto del tuo pene, 97 si risentono, ma 3 sono a colpo sicuro, ti lanceresti? E vedi cosa ti rispondono. Malignamente, per me, per molti la risposta sarebbe “Sono carine queste tre?”. Seppure.
Ma ora parliamo di un po’ di numeri.
L’invio delle dp presuppone che l’uomo in questione sappia cos’è il consenso, e sappia distinguere una molestia da un comportamento considerato sessualmente eccitante. E non è proprio così. Se questa pratica fosse davvero conosciuta e sdoganata questi numeri direbbero qualcos’altro. (Link)

“Women also say they are not asking for these pictures. Only 11 percent of women overall say they have asked to be sent a dick pic. That number increases to 23 percent among millennial women. However, of the 53 percent of millennial women who have received a dick pick, more than three in four (78 percent) say those pictures were unsolicited.”
Ma la parte interessante è questa, la percezione di cui parlavamo prima e di cosa gli uomini pensano che una donna pensi:
“This miscommunication about nude photos also extends to the ways women perceive those pictures and how men think women perceive them. When given a range of adjective most millennial women picked the words “gross” (49 percent), “stupid” (48 percent), and “sad” (24 percent). When millennial men were asked how they think women would describe dick pics, the number one answer was “gross” at 32 percent. However, the second highest adjective chosen was “sexy” at 30 percent. Only 17 percent of millennial women described dick pics as “sexy.” The same was true for just 9 percent of women overall”
Infine:
“Previous research has found young men are less aware about what constitutes sexual assault. A survey by the National Sexual Violence Resource Center found that young men are less likely than women to view things like non-consensual voyeurism, sexual coercion, and verbal harassment as forms of sexual assault. This is especially troubling given the number of young men who are sending dick pics and the even greater number of women who are not asking for them.”
Quindi gli uomini non solo tendono a non sapere cosa è molestia e cosa no, ma pensano che alle donne piaccia e – aggiungo io – semplicemente perché piace a loro.
Quindi in questo contesto desolante mi pare inverosimile che ci siano frotte di ragazzi o uomini che con l’invio del proprio pene rimedino una serata a colpo sicuro.

Temo ci sia tra noi un gap comunicativo, ma forse non ha tanto senso insistere oltre su quel che è percezione e quel che è assodato perché se non sono riuscito a spiegarmi fino ad ora, non credo di poter migliorare.
Mi piace la parte sui dati e ci vorrei tornare sopra, partendo però da quanto scrivi nel paragrafo prima relativo al nostro essere maschilisti come società, cosa su cui hai assolutamente ragione. Il punto che vale la pena forse analizzare è che la società maschilista è composta tanto da uomini, quanto da donne. Togliamo per un secondo l’uomo dall’equazione e concentriamoci sulle donne.
Vivere in una società radicalmente maschilista porta le donne a vivere male aspetti della sessualità che non andrebbero vissuti così. E lo capisco, perché non è facile smarcarsi da un giudizio costante e ossessivo che parte dall’aspetto e arriva agli atteggiamenti. Se me lo chiedi siamo in un momento brutto della storia in cui non vedo muovere grandi passi verso una reale emancipazione della donna, ma proviamo a dimostrare che così non è con battaglie che puntano molto più sul punire l’uomo che non sul mettere la donna nelle condizioni di non essere più vittima. Questa stortura, a mio avviso, genera mostri. Se non lavoriamo per togliere dalla testa delle donne 2000 anni di cultura cattolica in cui il sesso è peccato, vergogna o, nel migliore dei casi, qualcosa di bello SE fatto al momento giusto e con la persona giusta (ad insindacabile parere di terzi) non risolveremo mai il problema, ipoteticamente anche cancellando 2000 anni di cultura machista dalla testa degli uomini. 

Sarò io che over semplifico, ma il mio mondo ideale non è quello dove nessuno manda foto di cazzi, ma quello in cui la foto di un cazzo non è che un selfie. Una parte anatomica che accomuna metà della popolazione del globo, magari non esteticamente splendida, ma certamente nulla che possa turbare, sconvolgere o far sentire una donna molestata. Cerca di capirmi qui, perché è importante: non voglio cambiare le donne per “scagionare” o “depenalizzare” certi atteggiamenti maschili. Credo tuttavia che in un mondo in cui tutti vivessimo con serenità e senza tabù la sessualità, metà degli atteggiamenti che oggi sono molestie (e lo sono, insindacabilmente, perché arrecano danno) non lo sarebbero più. Ripeto: non sto dicendo che mandare la foto del cazzo sia una cosa innocua di cui le donne fanno ingiustamente un problema, sto dicendo che è un problema e come tale va affrontato, ma che lo è anche a causa di un bias culturale che non riguarda chi manda la foto, ma chi la riceve. Spero sia chiaro il punto. La domanda, ora.
E’ possibile che i dati che citi, come l’esperienza diretta che hai parlando con altre donne, siano “fallati” dal fatto che, in merito a certi argomenti, semplicemente le donne non siano nella condizione di essere sincere? Non voglio ridurre tutto alla regola del 3 di American Pie, ma è un buon punto di partenza. Aggiungo, ritornando al discorso culturale, come ti poni rispetto al ragionamento che ho tentato di fare sul peso che una certa cultura ha sulla donna e sul concetto di molestia?

Quando dici “ma proviamo a dimostrare che così non è con battaglie che puntano molto più sul punire l’uomo che non sul mettere la donna nelle condizioni di non essere più vittima” incorri nel primo errore, quello di dividere il problema in due parti separate e caricare la donna dell’onere della prova: non funziona così. Il rapporto tra i generi è strutturato e solidificato in quello che è un rapporto tra oppresso e oppressore, ti sembrerà una esagerazione, ma è esattamente così. Appena fino al 1996 lo stupro in Italia, non nella Repubblica Centroafricana, era un reato contro la morale pubblica: culturalmente siamo andati poco più avanti.
Tutto il mondo è fatto a immagine e somiglianza del maschio bianco etero, incluse le più piccole faccende che riguardano le donne sono pensate e concepite in funzione dell’uomo. In queste condizioni è impossibile che le donne da sole decidano che “il sesso ci piace e non ce ne vergogniamo e vogliamo anche tatuarcelo e portarci a casa ogni sera uno diverso” e tutto è bene quel che finisce bene, perché dall’altra parte deve esserci una maturazione della cultura del consenso, di educazione sessuale che deve innanzi tutto essere educazione all’intimità, e un cambiamento radicale, profondo, epocale della cultura maschile altrimenti il tuo discorso si riduce esattamente a un mero tornaconto, avere una facilità di fare sesso sempre e ovunque e senza che l’uomo si metta in discussione.
Ma l’errore più comune e grave che commetti, tu come tanti altri, è considerare le problematiche femminili a compartimenti stagno: non funziona così, e la liberazione sessuale delle donne è inestricabile da quella economica: finché le donne non avranno diritto a pari trattamento salariale, trattamento equo sul lavoro e durante il lavoro, tutele in caso di maternità, finché le donne non potranno fare carriera in ogni singolo settore, sfondare il famigerato tetto di cristallo, guadagnare quanto gli uomini e avere le stesse identiche opportunità, la liberazione sessuale sarà impossibile perché sesso&potere sono indivisibili. Vuoi le donne sessualmente libere? Rinuncia ai tuoi privilegi, rinuncia alla tua posizione predominante all’interno della società. Altrimenti troppo comodo avere sesso facile e a portata di mano ma con gli uomini ancora in vantaggio anni luce in economia e lavoro. Esemplifico con il commento di un utente maschio trovato su Quora, il titolo di discussione è “Why aren’t women turned on by dick pics?“, intervengono sia uomini che donne e, stringendo, anche per un paio di donne che dicono di gradire, il punto è sempre lo stesso: consenso e contesto. Ma, a proposito di potere
Men are generally much bigger and stronger than women and often have a lot more social power. (…) Consequently, if a woman sends an unsolicited pussy pic to a guy, he doesn’t feel threatened because he knows he can easily dismiss her if he doesn’t want her. When a man sends an unsolicited dick pic to a woman, though, there’s a whole different power dynamic. The woman may feel threatened because she knows this man who keeps violating her by sending her pictures she doesn’t want could easily go a step further and have his way with her against her will if he wants to. (link)
Auspichi le donne libere che possano postare e ricevere allegramente nudi e dick pik senza lo stigma dell’essere una facile? Sii un alleato per le battaglie femministe sul lavoro, non puoi avere l’una senza l’altro. Desideri che tua figlia da grande possa vestirsi come le pare, tornare all’ora che preferisce, potersi scambiare selfie e foto scherzose delle mutandine con i draghi con compagni/e di classe senza essere bullizzata, poter prendere i mezzi pubblici senza che qualcuno le metta le mani addosso, avere 13 anni senza che i 40enni la guardino in spiaggia o all’uscita da scuola pensando “è già una donna…”, ecco battiti affinché da grande abbia le stesse identiche opportunità di lavoro, carriera e salario degli uomini senza che nessuno la faccia sentire in dovere di aderire a un modello estetico, o la giudichi da meno perché le donne sono inadeguate a ricoprire posizioni di comando, sono problematiche, emotive, fanno figli…
Ma tornando alla questione principale. Io ho inteso la tua posizione, tu dici “
se gli uomini continuano a inviare dick pic vuol dire che il riscontro è positivo perché altrimenti non lo farebbero, converrebbe loro più non farlo che farlo“. Il fatto è che, al di fuori di un discorso di percezioni, Io non trovo alcun riscontro alla tua ipotesi, piuttosto articoli che puntano nella direzione opposta.
Ne linko uno in cui la giornalista che si è resa disponibile all’invio di dick pic, successivamente ha intervistato diversi uomini proprio per sapere se l’invio del loro pene sia mai stato determinante per concludere: la risposta è no, funziona solo se è già in atto una “
conoscenza“. La giornalista conclude:
And another thing: of all the people I interviewed, not one had actually slept with a woman after sending an unsolicited dick pic. So there could be something in that for all you straight white men thinking about sending a dick pic. Maybe just don’t.(link)
L’articolo è però datato agosto 2017, due anni sono una piccola era su internet, magari qualcosa è cambiato.
Ho trovato altro materiale, ma tutto quello che c’è a proposito della dick pic come tecnica di rimorchio rimanda a molestie e consenso. Non ho trovato nulla che evidenzi un trend per il quale l’invio dei propri genitali faciliti in prima battuta un uomo. Ci sta che una donna non si senta di ammettere “
sì, mi piace che mi si inviino nudi“, ma a questa donna che non si esprime corrisponde la mitomania da bar degli uomini che da sempre millantano conquiste solo immaginarie.
Per chiudere, una riflessione: facciamo conto che sia vero, inviare una dick pic è un approccio vincente, come concili questa pratica con il fatto che solo due mesi fa è stato votato l’emendamento di Boldrini a tutela delle donne vittime di cyberbullismo (e voglio vedere all’atto pratico se farà differenza)? Come possono tante donne gradire un comportamento dal quale allo stesso tempo non hanno i mezzi per difendersi quando non è richiesto?

E’ probabilmente vero che il comportamento e l’educazione femminile non può essere analizzata a compartimenti stagni e che sulla libertà sessuale pesa, in primo luogo, la mancata emancipazione economica della donna. Nella prima parte del tuo commento però fatico un po’ a seguirti, non perchè quel che dici sia sbagliato o non condivisibile, ma perchè mi sembra tu voglia un po’ troppo aprire il campo da gioco e non lo faccia sempre in modo “attinente“.
Commento la seconda parte quindi, provando a rispondere alla tua riflessione. Premessa: hai citato degli articoli che in pratica sostengono mandare dick pics sia inutile, ai fini di cui discutevamo. Per me la cosa non ha senso, ma non ha senso nemmeno mandare dick pics, quindi ecco, ci sta il mio presupposto fosse basato sul un metro di giudizio che evidentemente non è largamente condiviso nel mondo maschile (etero?). Siamo venuti a capo della domanda principale, quantomeno. 
Ora, come possono le donne gradire qualcosa da cui però non possono difendersi? Qui per me torniamo al problema centrale: perchè dovrebbero “difendersi” dalla foto di un cazzo? Nell’articolo che citavi si dice:
“The woman may feel threatened because she knows this man who keeps violating her by sending her pictures she doesn’t want could easily go a step further”.
Io capisco il ragionamento e non mi permetto di dire sia infondato, ma ci sono dei dati a supporto di questa “
paura“? Una correlazione tra foto di cazzi non gradite e effettivi “step further“? Perchè quel che cerco di dire dal principio (probabilmente male) è che una narrazione che sovraccarica comportamenti che abbiamo assodato essere fastidiosi e irrispettosi, di implicazioni violente a mio avviso non fa bene alla causa. E’ sacrosanto diritto della donna non ricevere foto non gradite di cazzi, ma non penso faccia bene averne paura. Non se non c’è un reale motivo per averne. 
In altre parole, estremizzando giusto un po’ per darti l’appiglio a non seguire il discorso e partire per la tangente (
I’m joking), non credi il tuo discorso sugli uomini come macro categoria assomigli ad un certo tipo di discorsi fatti sugli immigrati o i rom, come macro categorie? 

Io vorrei essere stringata e rimanere sul punto della domanda, il problema è che è impossibile, ma non per le mie scarse doti di sintesi, semplicemente perché hai preso in esame un argomento che è interconnesso con un problema risultante da una cultura sociale, politica ed economica che dalla notte dei tempi opprime la donna: il patriarcato.
Tu dici:

“[..]comportamenti che abbiamo assodato essere fastidiosi e irrispettosi, di implicazioni violente a mio avviso non fa bene alla causa. E’ sacrosanto diritto della donna non ricevere foto non gradite di cazzi, ma non penso faccia bene averne paura.”
Ecco, quello che pensi tu è irrilevante, e quello che davvero non fa bene alla causa è che tanti uomini pensino di essere in diritto di avere un’opinione sul cosa e come una donna dovrebbe sentirsi in una posizione disagiata in cui è stata messa. La persona del commento di cui sopra ha intuito giusto: la donna atavicamente è stata delegittimata e privata di potere e nel momento in cui è oggetto di una molestia, oltre alla sgradevolezza dell’atto, c’è anche l’impotenza che deriva proprio dal sapere di non avere alcun potere, e di non avere i mezzi per rispondere adeguatamente, per esempio con una denuncia, se ritiene il caso. Se una donna sente la propria incolumità in pericolo, non conosco la sua storia, le sue esperienze, la sua situazione, e quindi di sicuro non mi sento di derubricare una paura a esagerazione: penso non dovrebbe farlo nessuno.
Ma se vuoi l’estrema sintesi: la liberazione sessuale delle donne è inscindibile dal potere economico, finché la donna non avrà pari opportunità di guadagnare, fare carriera, ricoprire incarichi di potere tanto quanto gli uomini, gli uomini vedranno sempre nelle donne un oggetto sessuale a disposizione, in ogni caso, una persona di rango inferiore.

“Non credi il tuo discorso sugli uomini come macro categoria assomigli ad un certo tipo di discorsi fatti sugli immigrati o i rom, come macro categorie?”
Non saprei, tu ritieni forse che gli afroamericani quando parlano di razzismo trattino i bianchi come macro categoria tipo i discorsi sugli immigrati o i rom? Bisognerebbe essere un afroamericano per saperlo.
Chiudo con un consiglio: Nanette di Hannah Gadsby, disponibile su Netflix, illuminante per la questione femminile.