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Fretta ariflessiva vs. disilluso e cosciente relax

Sono appena arrivato da casa di Ambra. E’ notte fonda. Tornando a casa, angosciato dall’orario oltremodo tardo, ho disintegrato alcuni dei miei record sulla tratta “Rozzano-Scivolodicasamia”. Tuttavia appena smesso di correre per recuperare tempo, mi sono accorto di non avere la benchè minima voglia di andare a dormire. Non che io non abbia sonno, tuttavia credo che se anche mi andassi a sdraiare avvolto nel mio piumoncino, Morfeo faticherebbe a rapirmi. A questa stregua tanto vale occuparmi un po’ di questo mio diario. Ho aggiunto un altro link, trattasi del blog della Ersaz. Ormai i diari multimediali spopolano anche tra i miei amici. Spero per loro riescano a portarli avanti perchè è sicuramente un’esperienza degna d’esser fatta, sebbene richieda sacrifici spesso difficili da compiere. Scrivere, se lo si vuole fare con una certa serietà, richiede tempo e questo spesso non c’è (salvo in nottate piovose e insonni come questa).
Visto il moltiplicarsi esponenziale dei link, ho avuto un’idea carina per il template, tuttavia devo ancora capire quanto possa essere facile da realizzare e soprattutto quanto possa essere funzionale.
Ho sentito “Uncle” Bazzu. Oltre ad un discreto scambio di mail sono anche riuscito ad intercettarlo in ICQ. Stava per iniziare laboratorio quando io ne ero uscito da pochi minuti. Fiko. Il fuso orario esercita su di me sempre un certo fascino. Se la cosa continua così non faticherò a sentirlo con continuità e questo è un bene. Certo che le distanze ai giorni nostre sono relative, come l’intelligenza riscontrabile in una frase ovvia come quella che non ho ancora finito di scrivere.
Il sonno forse comincia a farsi sentire, quindi è il caso che vada a nanna. Non so se ascoltare per l’ennesima volta “Tell All Your Friends” dei Taking Back Sunday prima di appisolarmi. Questo CD mi sta creando una seria dipendenza ultimamente, sebbene appena uscito lo ritenessi un prodotto mediocre.
Domani spero di andare a tagliare i capelli e spero che il risultato mi soddisfi. Ho voglia di frangia.

A Bazzu

Questa mattina, accompagnato dalla freschezza dell’aria autunnale e da un pacco da 700g di Pan di Stelle, Bazzu* ha lasciato l’Italia.
La sua destinazione è Irvine, California, ed il motivo della partenza è iniziare un progetto di tesi negli States. Il progetto lo terrà via un anno e quindi per dodici mesi circa non sarà dei nostri. Ieri sera abbiamo organizzato una festicciola in suo onore qui “alla panca”, in modo che potesse salutarci tutti. L’organizzazione è stata un po’ approssimativa per via di alcuni inconvenienti, ma l’impegno c’è stato e la speranza è di aver fatto una cosa bella. Prima che mi cappottassi del tutto ho fatto due chiacchiere con lui sul partire che, per citarlo, “è un po’ morire” e ne sono usciti alcuni concetti interessanti. Effettivamente prendere e mollare tutta la propria vita per un anno, accettandone una nuova a scatola chiusa, non dev’essere una scelta facile. Giorni fa, pensandoci, avevo avuto come l’impressione che Bazzu lo facesse perchè, in fondo, una nuova vita la stava cercando sul serio. L’idea che aveva iniziato a ballarmi per la testa era che se una persona vive stretta nella sua quotidianità, staccare e andarsene via sono concetti a cui ci si approccia in manera molto più sicura. Partire è un po’ morire. Effettivamente è vero, perchè è l’unico modo per cambiare vita concretamente e radicalmente. Ieri tuttavia Bazzu mi ha detto essere stato piuttosto triste di dover lasciare l’Italia e credo non stesse facendo facile retorica. Mi ha anche detto però che pian piano che la partenza si avvicinava, la sua mente si concentrava sempre più su ciò che stava iniziando, piuttosto che su quanto stava finendo. Ed in effetti deve essere proprio così che vanno le cose, una volta entrati nell’ottica di fare questo passo. Credo sia una cosa molto emozionante.
L’altra faccia della medaglia è ovviamente occupata da chi rimane. Inutile dire che l’impatto è diverso per ognuno di noi, dagli amici, ai parenti, ai semplici conoscenti, e non voglio certo lanciarmi in facili sentimentalismi, non è il caso. Da qualche anno il “buon vecchio Bazzu” non viveva certamente al centro della compagnia e usciva di rado con noi. Per questo credo che non sarà certo il sabato sera che mi accorgerò del fatto che è partito. Credo invece me ne accorgerò quando vorrò fare due chiacchiere serie con qualcuno. In quel caso si che la sua figura susciterà in me un po’ di nostalgia.
Bando alle ciance, questo vuole essere un mio personalissimo saluto e un grande “In bocca al lupo!” a Bazzu. Ci rivedremo tra un’anno e, anche se non è poi molto, sicuramente entrambi saremo diversi da ora. Cresciuti.
Chiudo con un messaggio diretto: “Goditela negli States, perchè quando tornerai non avremo dimenticato che per alcuni mesi ce l’hai fatta sotto il naso. I “commisari di gara” sapranno come agire.”
Buon viaggio!
La truppa al completo
* A Bazzu. Perchè il suo viaggio lo conduca esattamente dove vuole andare. Cin.

Favola moderna

Parlerò un po’ di calcio.
Mi pare giusto, in fondo, visto che l’ultima volta che ho toccato l’argomento su queste pagine il mio cuore stava sanguinando copiosamente.
Il calcio è bello perchè totalmente diverso dalla vita. Se un anno è pessimo, quello dopo può essere il migliore della storia senza che nulla di particolare accada per modificare la situazione. Ogni volta si ricomincia da capo, tutti alla pari ed ognuno con le sue possibilità di farsi valere. C’è sempre una seconda opportunità, nel calcio. Tutto questo è talmente irreale da sembrare una favola.
Una favola moderna.
E così anche quest’anno eccomi li ai blocchi di partenza, sperando di ottenere il tanto agoniato lieto fine. La trama di quest’anno, però, non mi piace proprio. Sono molto deluso.
Il Milan di inizio stagione è raccapricciante. Realmente raccapricciante.
D’altronde non saremo certo noi a permettere al “Maiale col 32” di vincere qualcosa.
Nota positiva: stasera lo Shalke 04 mi ha fatto divertire parecchio, pur non essendo mai nemmeno lontanamente vicino al controllo del match.
Sicuramente in queste prime pagine di fiaba la compagine tedesca si aggiudica il premio di “Miglior Attrice non Protagonista”.

Ogni tanto…

… la mia vita mi fa schifo.
Credo siano le persone che mi circondano a rendere questi momenti non troppo frequenti.
Tuttavia quando si è da soli, in macchina, di notte, queste persone non ci sono ed è in quei momenti che il peso dei pensieri si fa insostenibile.
Cosa ne sto facendo della mia vita?
Credo di aver scelto il meno peggio dei modi per realizzare le aspettative che altri pongono su di me. Riuscirò a non deluderli? Boh. Magari si, anche se in questo momento mi sento particolarmente propenso al fallimento. Se anche dovessi farcela, sarò contento? E se lo sarò, lo sarò per loro o per me?
Sento forte una pressione che probabilmente nemmeno esiste.
Bisogna reagire e passare oltre l’ostacolo. Come le altre volte. Una volta di più.
Lo farò domani, ora credo di non poter fare altro che piangermi addosso.
E questo non porta ad altro che a continuare a farmi schifo.
Inesorabilmente.

Back to the roots

Domani sera andrò al Rainbow.
Si, proprio al Rainbow.
Il posto dove ho trascorso gran parte dei week-ends della mia adolescenza e che ha visto svolgersi al suo interno incontri molto importanti nella mia vita passata.
Voci di corridoio dicevano essere diventato un locale Hip-Hop, ma nel mio cuore ho sempre saputo che un giorno sarebbe tornato a splendere nella sua vera natura: ora e sempre punk adolescenziale.
Amavo quel locale e tornarci adesso sarà quantomeno bizzarro.
Suoneranno ancora gli stessi pezzi di allora? Probabile.
Ci sarà ancora il tizio che si inginocchia sentendo “The Brews”? Me lo auguro.
Ci apriranno ancora la macchina all’uscita? Spero vivamente di no.
Inizio ad essere piuttosto eccitato all’idea.
Per calmarmi basta pensare che non potrò certo sfuggire alle “Piramidi di Keope” dei Vallanzaska…

E.R.

Ieri sera ho avuto un piccolo incidente domestico e sono andato al pronto soccorso dell’ospedale di Cernusco sul Naviglio.
Arrivato in loco spiego all’infermiera di turno il mio problema all’orecchio destro e questa, dopo averne preso accuratamente nota, mi indica un posto dove attendere il mio destino.
Già a partire da quel momento in me nasce un primo pensiero: “a che punto della carriera di infermiera si perde la gioia di vivere e ci si trasforma in donne dalla personalità urticante?”.
Due mie compagne del liceo fanno le infermiere e mi spiacerebbe vederle ridotte così.
Magari chiederò a loro.
Sta di fatto che immerso in questa riflessione sociologica passo una buona ora abbondante in sala d’attesa, fino a quando la sopracitata signorina intona a gran voce il mio nome, con il timbro che usano genitori e professori quando devono rimproverarti. Scosso dalle mie riflessioni ed un po’ spaesato mi chiedo: “Dove ho sbagliato? Perchè la maitresse ce l’ha con me? Dovevo forse sedermi altrove?”. Senza il tempo di poter rispondere ai miei quesiti mi viene indicata la via da seguire per giungere alla guarigione ed io, speranzoso, la percorro a grandi passi.
Giungo ad una porta.
E’ una di quelle scorrevoli, tutta grigia, monito al malato che mai deve abbandonare il suo stato di tristezza e depressione.
Quando mi viene aperta, l’uomo che ho di fronte è piuttosto alto e brizzolato e porta un cartellino al camice recante la scritta “dottore”. Sorride. La cosa un po’ mi solleva e mi dico: “Finalmente qualcuno che capisce che non sono qui per scelta, nè per rompere i coglioni, ma semplicemente perchè necessito assistenza.”. Ricambio il sorriso e faccio per sedermi, ma l’amico medico stronca sul nascere ogni mia velleità di distensione e mi comunica che l’otorino la sera non è in ospedale e che sarei dovuto tornare l’indomani mattina. Lo dice tutto di un fiato e termina con un sorriso, come tra noi non fosse cambiato nulla e l’amicizia che ci lega da anni restasse inviolata. Lo guardo perplesso, cerco la telecamera nascosta, ma non vedo specchi. Da perplesso viro ad indispettito.
Lo guardo di nuovo e chiedo se è normale che io debba passare la notte in quelle condizioni, ma prima che mi potessero rispondere pongo una seconda domanda, la cui risposta mi interessa nettamente di più: “Non potevate dirmelo all’ingresso invece di farmi aspettare più di un’ora? Se vengo perchè ho problemi ad un orecchio con chi vi aspettate che voglia parlare, con l’addetto mensa? Se l’otorino non è andato via da due minuti esatti, potevate fare la cortesia di risparmiarmi un’ora e passa di attesa inutile.”. L’uomo mi guarda, stupito, dopodichè risponde: “Cosa vuole, che la visiti io?”. L’aria è di sfida. “Evidentemente il cartellino ingannatore che porta al camice è semplicemente il bedge per il parcheggio che questo imbecille ha rubato ad un vero dottore – penso – e se usa una eventuale sua visita come una minaccia forse è il caso di desistere dall’intento di essere curato qui ed ora.”. Restando calmo chiedo indicazioni su come agire e il netturbino, penso fosse quella la sua reale professione, mi spiega di tornare l’indomani mattina. “Venga dopo le nove e trenta.” aggiunge, perchè l’otorino non deve certo alzarsi all’alba per me. Ancora indispettito mi allontano dalla corsia e torno a casa.
Stamane, come da accordi, alle nove sono all’ospedale. Non mi aspetto di trovare il dottore che, come detto, deve pur dormire, tuttavia spero almeno di poter sbrigare le pratiche burocratiche ed ottimizzare un po’ i tempi.
L’accoglienza è buona. L’infermiera allo sportello è al telefono con la famiglia. Non sono certo un maleducato, quindi mi faccio solo vedere, ma non dico nulla. Lei mi vede. “Ok, adesso dice che richiama dopo e mi da retta.” penso. Illuso. Evidentemente ha questioni più importanti della mia salute di cui discorrere e quindi non accenna a mettere giù. Da indispettito viro a visibilmente seccato. Non parlo comunque, mi sforzo a non sbottare. “Devi andare? Ok, ti richiamo dopo!” dice l’infermiera. Mi viene da sorridere. Il tipo con cui è al telefono deve andare. Peccato. Lei avrebbe parlato volentieri ancora per un po’ ed invece si trova costretta a soccorrermi. La voglia è di darle una testata sul naso e così mi limito a fornire in silenzio il foglio di cui ero stato munito la sera prima. Vengo indirizzato al secondo piano.
Mi incammino.
Incontro la Pedro, amica di mia cugina, anche lei dalle parti del pronto soccorso. La saluto un po’ in fretta (mi scuso) e proseguo. Giungo a destinazione e ad accogliermi c’è l’ennesima infermiera. Ormai prevenuto, la tratto con leggero disprezzo, tuttavia si dimostra essere cordiale ed educata, nonchè propensa ad aiutarmi. Abbasso un po’ la guardia, le sorrido e le consegno il foglio. Lei ricambia il sorriso per un attimo, poi legge il foglio. Improvvisamente cambia espressione e vedo il rammarico fare capolino dai suoi occhi. Titubante abbassa lo sguardo e dice: “Mi scusi, ma ci deve essere un errore. Oggi non c’è l’otorino in ospedale, deve venire domani.”
Bestemmio. Forte.
Lei tuttavia reagisce bene e cerca comunque di aiutarmi. Mi chiede chi mi abbia mandato lì. In breve ricostruisce il mio recente passato e si mobilita, telefonando in cerca di qualcuno che possa darmi quello per cui sono venuto: soccorso. Magari non pronto, ma non è certo il caso di sottilizzare. I minuti passano ed io non faccio che imprecare e chiedere di poter vedere il “dottore” della sera prima, così da poter dare sfogo al mio umore. Ovviamente non c’è, comprensibile avendo fatto il serale la sera prima.
Arrivano invece un paio di altre infermiere, attirate credo dal mio atteggiamento non proprio compassato. Mi dicono che ho ragione, che quello della sera prima non dovrebbe fare il medico, ma l’idraulico e che devo andare a Melzo se voglio sperare di risolvere il mio problema in giornata.
Così tempo di fare la strada e sono a Melzo, dove in circa mezz’ora vengo visitato ed il mio problema viene risolto. Anzi, c’è addirittura di più.
L’otorino estende l’ispezione a tutte le aree di sua competenza e, dopo attenta analisi, mi dice che ho problemi al setto nasale e che, di conseguenza, il mio cronico naso tappato non è di natura allergica come pensavo. Neanche il tempo di farmi rendere conto di quanto mi stava dicendo, che passa allo step successivo e mi propone un intervento in day hospital che potrebbe ridonarmi la capacità di utilizzare il naso per respirare con soli quattro giorni di ricovero. La verve chirurgica tuttavia scema subito dopo e, prescrittemi le medicine per eliminare i residui di infiammazione all’orecchio, mi augura buon giorno e mi lascia libero di andare.
Che esperienza.

Piccola aggiunta

Eccomi qui, prima di andare a nanna, a sistemare il mio diario virtuale.
Purtoppo attualmente il tempo che ho a disposizione per scrivere è molto limitato, ma cercherò di rimediare in futuro.
Intanto ho finalmente apportato una modifica interessante al template di questo blog, introducendo i Links.
Questa scelta era voluta da un po’, sebbene in realtà non avessi granchè da linkare, tuttavia la casua scaturente è avvenuta oggi.
Ambra ha aperto un “fotolog”, una sorta di blog fotografico, ed io le ho promesso che l’avrei pubblicizzato attraverso questo mio spazio.
Spero solo che quello spazio non venga riempito di mie foto.
Odio le mie foto.

Dubbio

Treno. Posto finestrino.
Sono le 19.10 e sto tornando da laboratorio quando il convoglio arresta la sua corsa. La stazione è quella di Sesto S. Giovanni, unica di inframezzo tra dove sono salito e dove scenderò.
Si aprono le porte.
Fa il suo ingresso un ragazzo. Lo conosco? Si. Bene? No.
Gli sguardi si incontrano abbastanza a lungo da rendere noto ad entrambi che l’altro è un viso conosciuto. Si siede affianco a me.
Dubbio.
Gli parlo? Ok, potrei, ma poi che gli dico? Odio quando ti trovi a parlare con una persona cui non hai nulla da dire e scende tra i due un silenzio imbarazzante. Odio ancora di più quando pur di non cedere all’evidente penia di argomenti si inizia a parlare di cose che non interessano a nessuno.
E se invece lui non mi avesse riconosciuto? Potrei salutarlo e vedermi guardare con la faccia interrogativa di chi fruga nella memoria cercando l’identità del suo interlocutore. Perchè mettere in imbarazzo una persona? Come detto lo conosco di vista, questa possibilità è tutto fuorchè remota.
Che fare quindi?
Gli parlo? Lo saluto? Lo ignoro?
Tramite Muvo, gli Alkaline Trio continuano ad isolarmi dal mondo, dandomi un alibi. Lo sguardo è fisso all’infinito, oltre il vetro del finestrino. Il tempo passa ed un altro fattore interviene. Se lo salutassi ora, dopo tutti questi minuti, sarebbe del tutto normale per lui chiedersi come mai io abbia atteso tanto. “Perchè non voleva salutarmi?”, penserebbe. In questo caso l’imbarazzo sarebbe assolutamente inevitabile.
Dubbio.
Alla fine mi decido, non lo guardo e gli parlo: “Permesso.”
Sono arrivato. Scendo dal treno.
Percorrando la strada verso la macchina penso: “E Lui? Avrà avuto tutti i miei dubbi o semplicemente non aveva idea di chi fossi?”
Dubbio.