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Riflessioni

Sanremo 2020: le canzoni in gara

Non sto seguendo Sanremo.
Non perchè abbia di meglio da fare o perchè ritenga importante boicottare il festival, semplicemente preso come spettacolo di intrattenimento non mi interessa per nulla e, anzi, soffrirei terribilmente se provassi a guardarlo.
Discorso diverso sono le canzoni in gara, che per qualche motivo ogni anno solleticano la mia curiosità pur sapendo a priori siano tutte ultra lontane dal poter finire anche per sbaglio nello spettro dei miei ascolti.
Questa mattina quindi ho approfittato della playlist che Spotify ha creato ad hoc e mi sono sentito tutti i pezzi, commentandoli di getto e al primo ascolto su twitter.
Qualcuno mi ha detto che poteva essere più intelligente, avendo un blog, racchiudere tutti i tweet in un unico post(o) ed in effetti ha senso, quindi li riporto di seguito esattamente come mi sono usciti.
Una sorta di mini guida a questa edizione del Festival della Canzone Italiana.

  1. Musica (E il resto scompare) di Elettra Lamborghini.
    Boh dai, poi rompevate il cazzo per Despacito.
  2. Me ne frego di Achille Lauro
    Funziona, per me pure più di Rolls Royce. Il personaggio mi resta comunque indigeribile.
  3. Eden di Rancore/Dardust
    Questi han puntato sull’impegno politico perchè gli mancava la canzone. Dubito paghi.
  4. Andromeda di Elodie
    Nel 2020 credo ci stia e lei è brava. A me il pezzo fa cagare.
  5. Tikibombom di Levante
    Fino ad ora il pezzo migliore e lei non è che mi faccia impazzire.
  6. Rosso di Rabbia di Anastasio
    Premio “ritornello dimmerda”. Non è l’unico problema eh.
  7. Fai Rumore di Diodato
    La prima Canzone di Sanremo™ che sento in questa playlist. Per molti è un bene, chi sono io per?
  8. Ringo Starr di Pinguini Tattici Nucleari
    Not my cup of tea, ma il testo è carino e tutto sommato se la sentissi in radio probabilmente non spegnerei
  9. NO GRAZIE di JUNIOR CALLY
    Ma perchè il caps lock? Perchè? Cmq un pezzo rap anonimo e cerchiobottista di cui aveva bisogno solo chi la musica non dovrebbe ascoltarla.
  10. Viceversa di Francesco Gabbani
    Dovrei chiedere a mio figlio, che è il target. La paura è che il ritornello potrebbe anche piacergli, ma con quella strofa la probabilità che ci arrivi è bassina. Brutta non direi, però.
  11. Come mia madre di Giordana Angi
    Sorvoliamo sul “questa chi è?” perchè non è l’unica che non conosco in playlist e l’ignoranza è al portatore come i libretti postali. La voce mi piace ed è la seconda Canzone di Sanremo™ , la SNAI manco quota che me la dimentichi subito.
  12. Baciami Adesso di Enrico Nigiotti
    Sono entrato nel blocco Canzone di Sanremo™? Possibile, cmq non credo ci fosse bisogno di un altro Biagio Antonacci.
  13. Dov’è di Le Vibrazioni
    Sono nel blocco, senti che sensazione di comfort. Però oh, questa tra le Canzoni di Sanremo™ al momento è la meglio per ampio distacco.
  14. Il confronto di Marco Masini
    Perchè Marco? Perchè?
    (Canzoni di Sanremo™ in rimontissima si portano a 6/14)
  15. Carioca di Raphael Gualazzi
    Se skippo è tipo barare, vero?
    Ad un certo punto, prima che diventi triste come un party di capodanno su Canale 5, c’è una linea di piano che per me ha fottuto da qualche parte.
  16. Sincero di Bugo/Morgan
    Non so, mi pare indiscutibile giochi un altro sport rispetto al resto pur trasudando sforzo di non risultare fuori contesto.
    Leggevo che sono ultimi, difficile stupirsi.
  17. Finalmente io di Irene Grandi
    Finalmente?
  18. Voglio parlarti adesso di Paolo Jannacci
    Se vedete due robe che rotolano in terra me le rispedite?
    Non che mi servano eh, è più una questione affettiva.
    (Canzoni di Sanremo™ report: 7/18)
  19. Il Sole ad Est di Alberto Urso
    Mi dite se almeno è cieco? Se no non si spiega.
    (Non rompetemi il cazzo, ho tanti amici ciechi. Canzone di Sanremo™, così anche nel 2020 la quota tenore è salva)
  20. Lo sappiamo entrambi di RIKI
    A questo punto la domanda è lecita: perchè 32 artisti di cui metà inutili? Per finire alle due di notte lo spettacolo? Boh.
    Nona Canzone di Sanremo™ su venti pezzi totali. Inizio ad essere preoccupato, le proiezioni a 2/3 dello spoglio le danno sotto.
  21. Gigante di Piero Pelù
    AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH
  22. Nell’estasi o nel fango di Michele Zarrillo
    Ho perso le parole o forse sono loro che perdono me (cit.)
  23. Niente (Resilienza 74) di Rita Pavone
    Solo cuori.
    E NON VOGLIO SENTIRE REPLICHE.
  24. Ho amato tutto di Tosca
    Ultime speranze per una rimonta impossibile della Canzone di Sanremo™ affidate a sta lagna. Butta male. 
  25. Per sentirmi vivo di Fasma/GG
    Qui è dove mi piglio gli insulti, ma io la salvo nonostante TUTTO. E vi dico di più, la conto come Canzone di Sanremo™.
  26. Tsunami di Eugenio in via di Gioia
    “Siamo figli di Steve Jobs e del T9”
    Salta traccia.
  27. Va bene così di Leo Gassmann
    Non so, Leo. Non sono convinto vada davvero bene così. Direi l’opposto, anzi. (Canzone di Sanremo™ +1)
  28. 8 Marzo di Tecla
    Tecla è un bel nome, non mi spingerei oltre. Poi oh, in confronto al monologo della Leotta questo pezzo è un trattato femminista.
  29. Due Noi di Fadi
    Stiamo chiudendo il recinto coi buoi ormai scappati. Canzone di Sanremo™ matematicamente sconfitta da questa edizione del Festival. A nulla serve questo colpo di reni di Fadi, che quindi potevamo pure evitarci.
  30. Il gigante d’acciaio di Gabriella Martinelli/Lula
    Dignitosissima fino al ritornello, poi va beh, è pur sempre una roba da cantare sul palco dell’Ariston.
  31. Billy blu di MARCO SENTIERI
    Ma perchè il caps lock? Ad ogni modo, le canzoni di denuncia fino a qui erano effettivamente poche, c’era da aspettarsela. Vorrei strapparmi le orecchie.
  32. Nel bene e nel male di Matteo Faustini
    La Canzone di Sanremo™ chiude a 14/32, una debacle pazzesca, ma in fondo “è solo un bene che ci faccia così male”.

Bojack Horseman

E così è finito anche Bojack Horseman.
Ricordo quando l’ho iniziato, credo fosse già alla sua seconda o terza stagione e in giro ne parlavano più o meno tutti. Pensavo di trovarmi davanti una roba semi demenziale, volgarotta, di quelle che di solito a me non divertono, invece rimasi spiazzato. Non era quello che mi aspettavo, ma non era nemmeno qualcosa in cui è facile entrare, quantomeno non all’inizio.
Ho insistito e più andavo avanti più mi rendevo conto di non aver mai visto nulla che avesse la stessa potenza nel delineare i drammi umani contemporanei, con l’ulteriore aggiunta di una libertà narrativa che solo una serie animata può avere.
Ci sono episodi di Bojack Horseman che per me stanno di diritto tra i migliori episodi mai scritti in televisione: Fish Out of Water, That’s Too Much, Man!, Free Churro fino a quel capolavoro pazzesco che è The View from Halfway Down. Tutte puntate che per potenza narrativa mangiano in testa a roba ben più blasonata. Probabilmente ne dimentico anche qualcuno.
Serviva davvero umanizzare un cavallo per raccontarci le persone ed i loro rapporti, come partire da dei disegni di fantasia era davvero il miglior modo per mettere in scena relazioni interpersonali così dannatamente reali e vere.
Bojack Horseman è una serie perfetta con un finale perfetto.
E mi mancherà tantissimo.

Where’s your anger? Where’s your fucking rage?

“Io capisco se in scaletta ci mettono dopo i Pennywise, ma i BoySetsFire?
Chi cazzo sono i BoySetsFire?”

Non so se esistesse davvero una scena punk-rock in Italia tra fine anni ’90 e primi anni ’00, quello che so è che in quegli anni io ed alcuni amici seguivamo alcune band in giro per la Lombardia come fosse un lavoro. Se suonavano da qualche parte ci si andava, che tanto non c’era comunque di meglio da fare.
Una di queste band erano i Persiana Jones.
Erano i primi anni della comunicazione digitale, internet che passava da posto dove cercare le cose a posto dove incontrare le persone. ICQ, MSN, le message board, i forum. Non ricordo bene tramite quale canale successe, ma ad un certo punto a furia di stare dietro ai Persiana Jones avevamo conosciuto Sara, che era una figura all’interno del loro team (non ho idea del ruolo, ricordo che sul telefono avevo il suo numero sotto “Sara Persiana Jones”) e con cui ci si sentiva prima di andare ai concerti, così da passare un po’ di tempo coi ragazzi prima e dopo lo show. Non che fosse necessario avere agganci per fare una roba del genere, l’evento tipo di cui stiamo parlando era una qualsiasi Festa Campagnola di Biassono e i PJ non erano propriamente gli Oasis, però avere una sorta di aggancio per noi era una roba carina.
Ho questo ricordo: fa abbastanza caldo e siamo in un qualche campo brianzolo in cui la giunta comunale ha allestito il classico tendone bianco con i tavoli e la fila per prendere le salamelle, due o tre cessi chimici ed un palco evidentemente sovradimensionato per le band che ci suoneranno sopra. Stiamo bevendoci una birra e a qualcuno di noi viene in mente di dire che andremo anche a Bologna a vederli in un festival grosso, che potrebbe essere il Deconstruction o l’Independent. E’ lì che Silvio un po’ si incazza e tira fuori la frase con cui ho aperto il pezzo. Dice che loro hanno suonato di spalla a tante band e che hanno rispetto per tutti, ma che in Italia muovono parecchie persone e non è giusto che li facciano suonare prima di gruppi americani che non si incula nessuno.
A quel festival ci vado abbastanza prevenuto.
Come si permettono ‘sti BoySetsFire di fare i prepotenti e togliere spazio ai Persiana Jones? Per protesta, me li guardo dalla montagnetta che sta in fondo all’Area Parco Nord. Poi succede che arriva il loro turno, effettivamente piuttosto alto in scaletta, salgono sul palco e attaccano a suonare prendendo a sberle grossomodo tutta la folla presente che, in larga parte, non aveva idea di chi fossero.
A fine set io sono seriamente impressionato, Carlo scende al merch e gli compra tutti i dischi (l’ultimo, in quel momento, era Tomorrow come Today). Qualche tempo dopo me li faccio prestare e li ascolto. Altro tempo dopo li compro pure io. Ancora dopo, diciamo ieri, stavo su twitter a rimpiangere il fatto che di dischi come quelli non ne escano più e che, magari sbaglio, di band come i BoySetsFire non ne esistono più.

Il discorso qui sopra è importante per quel che voglio dire.
Io credo che in questi anni la voglia di dire delle cose, di prendere delle posizioni nette, manchi più delle chitarre distorte nel panorama musicale che ci circonda.
Non tutta la musica deve portare un messaggio, non tutti i messaggi che la musica porta devono essere condivisibili, ma ad oggi mi piacerebbe veder suonare gente che crede nei propri valori quanto ci hanno sempre creduto i BoySetsFire e magari sono io, magari il mio giudizio è viziato dai sentimenti, ma quel fuoco vivo dentro gli occhi prima che dentro ai testi io non l’ho mai visto uguale in nessun altra band.

L’ultima volta che ho visto suonare i BoySetsFire è stato al Transilvania Live nel 2006 (a naso quindi li ho visti solo due volte).
Ricordo che hanno suonato per cinquanta persone mal contate, in un locale che sembrava se possibile ancora più vuoto di quanto fosse. Saliti sul palco ci buttarono lo stesso livello di energia, impegno e attitudine di tre anni prima, per poi saltare giù dal palco e venire direttamente al bancone per passare un po’ di tempo con tutti i ragazzi che ne avessero voglia. 
Dopo quel concerto li ho seguiti ancora per un po’, dal brutto incidente capitato a Josh fino a quando decisero di prendersi una pausa. Lì una pausa me la sono presa anche io e per quanto fossi felice di sapere della reunion nel 2010, non sono più tornato ad interessarmi di quel che facessero o di dove suonassero. E’ possibile io abbia recensito il disco post reunion, While a Nation sleeps, non lo ricordo nemmeno brutto, ma è più onesto dire che non lo ricordo proprio.

Come dicevo poco più su, da ieri sono tornato abbastanza in fissa con i loro tre dischi cardine, After the Eulogy, Tomorrow come Today e The Misery Index
Son tre ottimi dischi, sebbene io mi dimentichi quasi sempre di citarli tra i miei preferiti. Probabilmente è perchè quando penso ai BoySetsFire penso al mio gruppo preferito non per tanto per la musica che ha scritto, ma per le persone che mi hanno sempre dato l’idea di essere.
Anche se, diciamocelo chiaro, hanno scritto una manciata grossa di canzoni incredibili.

Il 2019 di Manq

Fine anno, classico momento per tirare due somme. Oltretutto a questo giro finisce anche un decennio, quindi le somme da tirare sono anche più di due.
Dal 2010 ad oggi di cose, a voler guardare bene, ne ho combinate. Sono rientrato in Italia, ho preso un dottorato di ricerca, mi sono sposato, mi son trovato un lavoro a tempo indeterminato che tutto sommato mi piace, ho comprato casa, ho perso quasi quindici chili e ho messo al mondo due figli meravigliosi (ok, questo potrei non averlo fatto fisicamente io, ma ci siamo capiti). Un decennio decisamente positivo, nulla da dire. Un decennio in cui sono stato prevalentemente bene.
Eppure questo 2019 è stato l’anno in cui mi sono imbruttito.
Me ne rendo conto.
La spiegazione che mi sono dato è che… aspetta. Quel che segue è probabilmente un post di quelli che scrivevo nel decennio precedente, pieni di autoanalisi da quattro soldi e presa male gratis, quindi evitatelo. Davvero. Non è scritto per te.
La spiegazione, dicevo, che mi sono dato è che i due figli stupendi di cui sopra assorbano grandissima parte della mia pazienza. Il poco che rimane lo investo nel tentativo di non uccidere nessuno al lavoro e nei compromessi necessari alla vita di coppia. La cosa bella è che ho una moglie fantastica che 1) non usufruisce che di una porzione infinitesima della mia pazienza e 2) capisce quando non ne ho più e mi vuole bene anche se ogni tanto sbrocco.
Tutto ciò che sta fuori da questi tre ambiti, purtroppo, si becca un Manq a tolleranza zero e non è una bella cosa. Non lo è per chi mi sta intorno, ma non lo è nemmeno per me che di stare in mezzo alle persone inizio ad avere sempre meno voglia. Anche perchè vivo un quotidiano in cui tutte le interazioni si sono esasperate, estremizzate, e in ogni situazione c’è sempre qualcuno pronto a dirti quanto sei un coglione o ad insegnarti come si sta al mondo. 
Una volta abbozzavo. Serenamente. Magari mi spingevo nella discussione (senza il magari, son pur sempre quello che adora le discussioni), ma capivo piuttosto bene quando fermarmi e quando smussare. E lo facevo, di nuovo, serenamente. Oggi no.
Oggi mi trovo spessissimo a pensare “Ma perchè cazzo dovrei desistere dal mandare ‘sto tizio affanculo?” e l’unica risposta che ne esce è “per educazione” oppure, peggio, “per non incrinare il rapporto”. E sarò certamente io in un momento davvero passivo aggressivo della mia vita, ma ho l’impressione che a parti inverse nessuno si sia mai fatto questi scrupoli con me, quindi la vivo un po’ come essere in credito di 38 anni di diplomazia che nessuno sembra intenzionato a darmi indietro.
In più, come dicevo all’inizio, questo decennio è stato quello dei trent’anni che non è probabilmente il più divertente della vita, ma penso sia quello della realizzazione personale. Per me lo è stato.
E’ difficile guardare ai prossimi dieci anni con lo stesso senso di sfida o con la stessa fame di risultati. Anzi, è ovvio che prima o poi la vita inizi a chiedere conto anche delle rotture di coglioni che ci sono per tutti e che io, unicamente per fortuna, fino ad oggi sono riuscito a schivare. 
L’ho detto, mi sto imbruttendo.

Quest’anno ho ascoltato un po’ di dischi, qualcuno anche molto bello.
Li ho riassunti in una playlist di 12 canzoni, scegliendo per ogni mese quella più rappresentativa della fissa che avevo in quel momento.
Non è malissimo, la metto qui sotto.
Buon anno.

La situa: #ScrubsRewatch

Quando Prime Video ha annunciato che avrebbe messo a catalogo tutte le stagioni di Scrubs ho pensato fosse l’occasione di fare il rewatch che mi promettevo di fare da tanto tempo.
Ho sempre considerato Scrubs la mia serie preferita, ma dopo tanti anni volevo verificare di non averla idealizzata eccessivamente. E invece, devo ammetterlo, lo avevo fatto.
È evidente sia un prodotto pensato ben prima del concetto di binge watching: ci sono una montagna di incongruenze e soffre di lungaggini e parti inutili che oggi forse una serie non potrebbe più permettersi. Ad essere del tutto onesti, anche la qualità non rimane certamente altissima per tutti e 182 gli episodi, anzi, ma il cuore della faccenda, racchiuso grossomodo nella prima e nell’ultima stagione, è ancora tutto lì a farsi ammirare. E mi ha riconquistato in pieno.
Non è stata solo operazione nostalgia però, in questa terza visione ho apprezzato cose che nelle precedenti non avevo notato. Carla, ad esempio, è uno dei personaggi femminili meglio scritti che mi vengano in mente, soprattutto per una serie che usa spesso linguaggio e stereotipi che oggi farebbero incazzare molti (anche giustamente).

Nota a margine: pur essendo Scrubs di fatto finito con l’ottava stagione, per la prima volta ho voluto guardare i 13 episodi di Scrubs Med School, quella specie di seguito/spin-off che è venuto dopo, con cast semi rivoluzionato. Pur essendo chiaro dal minuto 1 non sapesse dove andare a parare, devo riconoscere che il livello non è poi così distante dalla media delle altre stagioni, quindi il suo essere stato cancellato a metà della prima stagione è quasi più incomprensibile dell’idea di averlo voluto realizzare. Forse molti, come me, si sono semplicemente rifiutati di guardarlo, ma dopo un finale PERFETTO come quello della 8×19 era una scelta più che legittima, che mi sento di rivendicare in pieno.
Ora però bando alle ciance, è tempo de “La Situa”, ovvero di tutti i tweet che ho pubblicato durante questi due mesi in cui ho riguardato tutti gli episodi, marcando ciascun con l’hashtag #ScrubsRewatch.

30 Ottobre:
– S1e01 sto per premere play e sono onestamente emozionato.
– S1e01 miglior pilota di sempre e s1e02 attacca con quell’iconico montaggio musicale. Che serie meravigliosa.
– S1e03. Credo Scrubs abbia inventato il termine friendzone.
Poi vabbeh, potremmo discutere di quanto fosse avanti nello sviluppo dei personaggi femminili e di come i primi tre episodi siano la perfezione, ma viene tutto dopo gli ERASURE.
– Non riesco a non commentare ogni episodio al momento. S1e04, il tema della morte gestito con una maestria pazzesca. Piangerissimo.
– Sono stato in aereo e sono arrivato a s1e10. Forse tutto si normalizza un po’ dopo i primi episodi, ma le dinamiche tra i pg sono sublimi. Alla s1e06 compare Jordan e mi sono innamorato di nuovo.
1 Novembre:
– Scrubs è come quelle band nu-emocore in fissa con Gesù. Non sei magari d’accordo col messaggio, ma nella poetica gli riconosci spesso una marcia in più. S1e12 e s1e14 smaccatamente democristiani, eppure solo cuori. Ah, Alex figa atomica.
3 Novembre:
– S1e22. Ben. :(
5 Novembre:
– S2e01, si ricomincia dalle basi, ovvero dall’utilizzo della musica come chiave su cui tenere in piedi un episodio, cosa che forse era mancata un po’ nella seconda metà della prima stagione.
9 Novembre:
– S2e06. Episodio tutto sommato anonimo, ma poi arriva il discorso del dr. Cox a Turk ed è una di quelle cose per cui Scrubs è Scrubs.
13 Novembre:
– S2e12 è il primo episodio in cui le scenette surreali non avvengono nella testa di JD, ma nella realtà. Ero convinto succedesse ad inizio terza stagione, ma é un po’ il salto dello squalo per la serie. Poi non diventa brutta, ma certamente diversa.
18 Novembre:
– S2e17. Sto andando piuttosto a rilento, che cazzo di problema ho?
19 Novembre:
– S2e22 e finisce la seconda stagione. Ho riso più che con la prima, ma ho sofferto anche un filo più di stanca. TCW amore vero.
24 Novembre:
– S3e05 torna Dan. Personaggio meraviglioso, Dan.
– S3s06 e SBAM. Arriva Tara Raid. Ti amo ancora, Tara Raid.
25 Novembre:
– S3e12. Michael J. Fox pazzesco.
– S3e14 e non credo di farcela. Manco un po’, in effetti.
Lo ricordo come una delle cose più belle e toccanti abbia mai visto.
1 Dicembre:
– S4e01 e la scena della vasca sono il salto dello squalo.
– S4e04 e non riesco a seguire nessun episodio perché c’è Heather Graham con tutte quelle magliette scollate.
2 Dicembre:
– S4e15 la morosa di colore di JD non è la stessa ragazza della caffetteria della domanda Vaniglia o Cioccolato? Non ho voglia di controllare.
– S5e03 la fantasia del ladro di mele messicano si conferma una delle vette della serie.
3 Dicembre:
– La stagione 5, molto sopra la quattro fino ad ora (s5e09) è sia quella dei Toto che quella di More than a Feeling. La musica torna protagonista, non succedeva da un po’.
– E’ almeno la terza volta che vedo s5e16 nella mia vita, ma è la prima volta che la vedo da papà e, incidentalmente, la prima in cui mi vengono i lucciconi.
– S6e04 e la parodia di Dr. House con tanto di musichetta fake. Che stile.
4 Dicembre:
– S6e06 è quello musical.
Madonna.
Che.
Merda.
9 Dicembre:
– S6e11 è la puntata con il best of. Credevo fosse impossibile fare peggio di quella musical.
11 Dicembre:
– Credo la sesta sia la peggior stagione di Scrubs, e credo sia per quello che si son giocati la morte di Laverne (s6e15). Però funziona.
18 Dicembre:
– La stagione 6 mi sta mettendo a dura prova. Credo che una delle cose belle di Scrubs sia il suo non essere adatta al binge watching.
Cmq s6e20 ed ecco spuntare un giovane Reverendo Newlin. Quasi quasi riguardo True Blood.
22 Dicembre:
– s7e09 e il pensionamento di Bob Kelso. Che personaggio meraviglioso Bob Kelso.
23 Dicembre:
– Non capisco perché la stagione 6 e la 7 abbiano episodi in ordine palesemente sbagliato.
Andiamo alla 8, che ricordo come una delle migliori.
– S8e02 è ancora uno dei miei preferiti. Riprende una delle tematiche che il miglior Scrubs affronta in modo impareggiabile e lo fa come ci aveva abituati a fare.
Nota a margine: l’ottava stagione ha una fotografia tutta nuova. Sembra un’altra serie.
24 Dicembre:
– S8e06. Hanno palesemente rimosso pezzi di quanto successo nella stagione precedente. Boh.
27 Dicembre:
– S8e14. Oggi come allora una voglia di finire alle Bahamas che neanche quando guardavo Black Sails. E io ho amato Black Sails.
28 Dicembre:
– Con la 8×19 si conclude il mio rewatch, ma è stato come la prima volta. IL. MIGLIOR. FINALE. DI. SEMPRE.
Magari sto giro provo a guardare lo spin-off, ma dopo un finale così non ha molto senso. È stata una bella corsa, più difficile di quanto ricordassi.
– Mi sono visto anche Scrubs Med School alla fine, per la prima volta. È una sorta di Community che punta a coverizzare idee e personaggi delle stagioni precedenti spacciandoli per nuovi. Tipo Episodio VII.
E ho visto pure Interns, la webserie: Inutile.

Parasite

A un certo punto, abbastanza avanti nel film, il protagonista si chiede: “Cosa ci faccio qui?” e finalmente si compie quel processo di immedesimazione che il regista ha tentato di inserirmi nel cranio a forza per i precedenti settecentoventimila minuti (percepiti) di film.
Sono dentro il cinema, ma non mi ci sento a mio agio e, anzi, provo fastidio ed irrefrenabile voglia di essere altrove.
Possibilmente non in Corea.

Parasite, film di Bong Joon-Ho recentemente premiato a Cannes, mi ha fatto discretamente cagare.
Probabilmente sono io eh, non è colpa del film, però le operazioni di cinema cervellotico e autocompiaciuto le tollero a fatica già quando pescano dal mondo che conosco e mastico, figuriamoci poi quando ci si mette anche la distanza culturale.
Guardo questa roba e non capisco quanto caricaturale sia la rappresentazione dei personaggi, per dirne una, quindi a conti fatti non capisco il film, che è grossomodo tutto racchiuso in quello.
Certo, non è tutto da buttare.
Ci sono sequenze che mi sono piaciute tantissimo, ad esempio tutta la parte dell’esondazione, ma è perché si tratta di una parentesi di pura estetica che non c’entra più o meno niente con la storia e, anzi, te la toglie proprio dai coglioni per diversi minuti permettendoti di apprezzare quanto sia effettivamente bravo il nostro Bong nel costruire le immagini che vuole mostrarti.
Quando la parentesi si chiude però, e i personaggi riprendono a parlare, il film torna a volerti raccontare qualcosa a tutti i costi e a te torna addosso il nervoso. Irritante come il Refn di Only God Forgives, ma senza l’aggravante della preterintenzionalitá di non voler raccontare una storia. Qui la voglia c’è, ma forse sarebbe stato meglio lasciarla a casa.

Altro momento esemplare.
Ad una certa c’è questa scena in cui DAZN (giuro), figlio piccolo di una coppia ricchissima, dorme in giardino ed i suoi genitori stanno sul divano a guardare fuori dalla finestra per controllarlo.
Da cosa nasce cosa e i due iniziano a fare roba. Tutto abbastanza normale, solo che quel che ne esce è la scena più anti-erotica mai passata su grande schermo e non si capisce se lo sia perché non mi arriva la sensualità Coreana, perché è stata scritta e filmata coi piedi o perché l’idea sia mostrare come il sesso tra ricchi é oltremodo disgustoso. Quale che sia il motivo però, non cambia il fatto non sia una cosa bella da vedere.
Ecco, più o meno vale lo stesso per il resto della pellicola, finale compreso, il cui mega pippotto a mio avviso è unicamente pensato per infierire ulteriormente su gente come me che, senza la pressione sociale dell’essere al cinema con alcuni colleghi, si sarebbe volentieri data dopo i primi 20′ e senza particolari rimpianti.
E pensare che il mio collega voleva vedere Zombieland. Forse non ci avremmo trovato gente morta male a colpi di spiedo da BBQ, ma certamente ci saremmo divertiti di più.

Te spiego l’EMO

Giorni fa Andrea ha riscoperto il piacere di fare le playlist su Spotify e ne ha tirata fuori una che racconta l’emo nella sua prima fase, diciamo quella che va dal 1985 al 2000. Per chi non lo conoscesse, Andrea è una delle penne di Impatto Sonoro, ma soprattutto un “amico di internet” che recentemente ho avuto il piacere di incontrare di persona e con cui mi è già capitato di fare giochini tipo quello di cui vi sto scrivendo. 
Dico giochino perchè Andrea, dopo aver condiviso la sua (bellissima) playlist ed essersi beccato il mio like, ha pensato di chiedermi se mi andasse di farne una sullo stesso tema. Potevo mai tirarmi indietro? Ovvio che no.
Non paghi, abbiamo deciso di estendere il concetto e coprire anche le fasi successive della storia, in modo ne uscisse un quadro diciamo completo.
In sostanza quindi mi sono cimentato nel mettere giù una breve serie di playlist a tema EMO e, visto che sono uscite più carine di quanto immaginassi, ho pensato potesse valere la pena metterle anche qui sopra e scriverci due righe due di commento.
Le regole erano pochissime: finestra temporale definita e massimo 12 tracce, come qualsiasi playlist dovrebbe essere se lo scopo è farsi ascoltare. Io ad ognuna ho messo come cover un’immagine di Andrea Emo e il perchè, se avete letto fino a qui, non ha senso spiegarlo. 

Emo 101 (’85-’00)
A conti fatti la più semplice da fare, ma anche quella in cui credo fosse più difficile distinguersi rispetto ad altre ipotetiche liste redatte con il medesimo scopo. Parliamo degli anni in cui l’emo è nato ed ha goduto del suo momento creativo di maggior spicco. Per moltissimi, l’unico periodo che abbia senso analizzare.
Su 12 pezzi, credo almeno 8 escano da dischi che per me sono capolavori. La cosa se vogliamo peculiare è che lo sono anche per un sacco di gente che ne capisce molto più di me. I gruppi coinvolti son quelli che trovate in qualsiasi testo a tema emo reperibile su internet, da wikipedia in giù, tralasciando però tutte le pagine di gente che parla di una roba che non ha idea di cosa sia.
Dopo averla fatta l’ho ascoltata alla nausea.

Emo 202 (’01-’10)
Qui la situazione si fa spinosa perchè è evidente il primo decennio del nuovo millennio coincida sì con la “maturazione” del genere, ma anche con il suo più drammatico sputtanamento. La corretta informazione avrebbe dovuto tener conto di entrambi i fattori e regalarci una playlist cumulativa, ma con Andrea si è deciso per farne due, una radical chic e una da guilty pleasure. Io i confini tra le due li vedo davvero molto sfumati, ma capisco il ragionamento.
La prima è questa e contiene alcune delle mie canzoni della vita.

La seconda invece è decisamente più cafona e contiene un sacco di roba che non ha propriamente una dignità. Dal canto mio però rivendico il diritto di difendere ogni singola traccia di questa seconda lista, che a conti fatti se vogliamo ha dalla sua il tentativo di sviluppare il tema in maniera diversa, anche se profondamente sbagliata a livello ideologico.
Poi oh, se ho tempo per una sola delle due, 8/10 metto su la seconda perchè io un po’ la penso come René Ferretti.

Emo 303 (’11-’19)
Terza playlist e siamo a quello che per me è il capitolo più complicato perché c’è da pescare nell’ultimo decennio (che decennio poi non è, ma vabbeh) e io non sono più sul pezzo da tantissimo tempo. La prova è che in lista sono finiti pezzi di dischi belli, ma che non ho mai comprato.
In generale il grosso del mio sforzo era volto a dimostrare che le idee, quando si parla di emo, ormai siano finite, ma anche che fare bei dischi usando le idee di altri venuti prima non è mai stata pratica per quel che mi riguarda deplorevole. In coda ho voluto mettere quello che per me è l’unico filone nato in questo periodo e con qualcosa di “nuovo” da dire e se vogliamo fa sorridere perché pur basandosi sul campionare i pezzi dei decenni prima (letteralmente), alla fine risulta comunque più fresco del revivalismo derivativo delle tracce che lo precedono in questa playlist.
Questo giro ci ho messo anche un pezzo italiano perché, in questo decennio, ho ascoltato forse più dischi italiani che stranieri. Poi mi dicono che da noi arriva sempre tutto dopo, quindi credo abbia senso.

Probabilmente nessuno ha bisogno che io gli spieghi cosa sia l’EMO, certamente non nel 2019, ma è un giochino che mi sono divertito a fare e che mi ha permesso di mettere insieme delle playlist che ascolterò certamente un sacco.
Quindi boh, evviva.

Il mio disco Preferito

Una volta leggevo un blog di musica che mi piaceva molto e che in merito alla questione “disco preferito” aveva una posizione piuttosto articolata.
Per me il discorso è decisamente più semplice: da che esisto ho avuto diversi dischi preferiti, in diversi momenti della mia vita, ma mai più di uno per volta.
Il primo è stato The Final Countdown degli Europe e c’entra col fatto che il 5 settembre 1988 invece di andare in seconda elementare sono andato in sala operatoria a farmi aggiustare il cuore. Il disco me lo portó in ospedale un amico dei miei, su una cassetta da 90′: lato A gli Europe, lato B l’album di Barbarossa con dentro Al di là del muro. Del lato B ricordo a malapena quel pezzo, che tuttavia non ascolto da 31 anni (sono tentato di metterlo su ora, ma credo alla fine eviterò1). Con The Final Countdown invece fu amore vero, tanto che ancora oggi me lo risento volentieri, quando capita.
Per quasi tutti i miei dischi preferiti è funzionato così: musica che posso immediatamente associare ad un periodo o un’esperienza, a volte a una persona, e da cui mi sono sentito rappresentato al 100% come ascoltatore (probabilmente anche come individuo) nel momento in cui stava in cima alle mie preferenze.

Ho questa idea che, per quanto spero mi resti molto tempo a disposizione, non ci sono altri dischi preferiti ad attendermi nel futuro. Temo ci sia una stagione per tutto, nella vita.
È quindi ragionevole pensare che il mio attuale disco preferito sia destinato ad essere il Preferito con la maiuscola, avendo avuto la meglio sulla concorrenza passata ed essendo al contempo al sicuro da attacchi futuri.
Paradossalmente, è anche l’unico disco che è riuscito a farsi amare così tanto senza essere correlato a nessun particolare aspetto/momento della mia vita.

Questo post parla di Under the Radar, un disco dei Grade.

Ho detto che non è un disco che ricollego ad un momento della mia vita, ma non vuol dire che non abbia ricordi a riguardo. A differenza di tanti altri dischi infatti, ricordo esattamente la prima volta in cui l’ho ascoltato. Ero in treno, vagone con cuccetta, e stavo andando con mio padre in Sicilia per il matrimonio di un cugino. Dopo aver speso una cifra di tempo nel tentativo di trovarlo su uno dei vari P2P dell’epoca (a memoria siamo nel 20052), finalmente me lo ero scaricato e messo sul lettore .mp3 portatile, con moderate aspettative. Erano gli anni in cui bazzicavo una webzine chiamata Munnezza (poi Dedication) e UtR era citato come riferimento principale di una cifra di dischi post-hc, nu-emocore e compagnia di cui in quel momento storico andavo ghiottissimo. Ciò nonostante, sulla webzine non c’era una recensione del disco e anche altrove leggerne era piuttosto complicato, trattandosi di un’opera probabilmente sì seminale, ma da cui ha avuto origine uno dei movimenti più infami e bistrattati della storia del rock alternativo. Movimento di cui, vorrei ribadire, sono comunque stato profondamente appassionato per diversi anni e che, ancora oggi, mi pare tutto sommato in linea con tanta altra merda che non ho ritegno nell’ascoltare, ma che a conti fatti gode inspiegabilmente di maggior credito. 
Ad ogni modo, ricordo di essermi messo questo disco in cuffia e di essermene innamorato subito. Il motivo di questo colpo di fulmine l’ho capito un po’ di tempo dopo: UtR è sostanzialmente il disco perfetto, sotto ogni punto di vista.
Non c’è un pezzo debole o mal riuscito, ok, ma questa non è una caratteristica unica. Il punto è che non mi vengono in mente altri esempi in cui così tante melodie siano state incastrate in modo altrettanto efficace per generare di fatto canzoni prive della canonica struttura strofa-ritornello, ma che non perdano la capacità di incollarsi in testa immediatamente e restarci a vita. Under the Radar ha scoperto la formula magica per fondere gli elementi duri e tendenzialmente poco accesibili dell’hardcore ad un immediatezza completamente pop, senza però abbassarsi ai compromessi paraculi che sono invece stati fondamentali a tutti quelli che sono venuti dopo e che hanno di fatto sancito la morte del genere. Una roba completamente irripetibile, tanto che gli stessi Grade col disco seguente hanno provato a cambiare completamente strada, credo per evitare paragoni infelici (che in ogni caso è impossibile non fare, visto che Headfirst Straight to Hell è, ad esser buoni, un disco del tutto sbagliato).
Non bastasse la perfezione compositiva, UtR è anche il mio disco di riferimento in termini di suoni e produzione. Non è una di quelle robe iperprodotte in cui l’approccio diciamo “barocco” a Pro Tools con lo scopo di far suonare tutto GROSSO si traduce nel far suonare tutto finto, ma non è neanche figlio del movimento reazionario che in tutta risposta ha sancito i dischi di musica alternativa dovessero per forza suonare come se li avesse registrati un non udente nel suo box catturando tutto in presa diretta col microfono del Canta Tu.
In UtR c’è una base ritmica solidissima e piena, che ti tiene incollato ai pezzi senza distrarti, e poi ci sono due chitarre che fanno sempre la cosa giusta, dialogando perfettamente e risultando sempre distinguibili, anche nei momenti più rumorosi. Zero sovraincisioni, nessuna traccia di chitarra aggiuntiva, essenziale come pochi altri dischi che ho in casa eppure ricchissimo di sfumature che vengono fuori ascolto dopo ascolto. Anche le voci sono perfette: le parti di scream sono sporche e ruvide, ma mai finte, mentre quelle clean sono melodiche, ma non melense. Tutto è al posto giusto per undici tracce, di cui l’ultima si chiama Triumph and Tragedy e ad un certo punto dice così:

My relationship, with reality (yeah)
It comes and goes

Non credo esista un singolo verso in qualsiasi altra canzone che senta più vicino.

Oggi, 12 Ottobre 2019, compie vent’anni il mio disco Preferito. 


1 Alla fine ho evitato.
2 Ho controllato, era davvero il luglio 2005. Il cugino è andato in viaggio di nozze a Sharm el-Sheikh e l’hanno rimpatriato pochi giorni dopo per via degli attentati. Una di quelle cose che non sai dire se sia sfiga perché c’è finito in mezzo o culo perché può raccontarla.

Joker

Sta sera ho deciso di andarmi a vedere il Joker di Todd Philips (o se preferite di Joaquin Phoenix), da solo e al secondo spettacolo. Non avevo voglia, ma ho letto così tanti complimenti in giro da voler verificare di persona appena possibile.
Il dubbio più grande che avevo era che non avrebbe retto le aspettative che mi sono fatto leggendone in giro.
Ecco alcuni commenti sparsi che può leggere anche chi non lo ha visto, senza che rovinino nulla (tranne forse uno, ma lo segnalo prima).
1) Non lo so se usare il cattivo dei fummetti sia stato solo un pretesto per vendere il film, ma di sicuro, anche togliendo i Wayne e Gotham City dall’equazione, persino mia nonna all’uscita avrebbe detto: “Bello tutto, ma questo è il Joker…”
2) Non dirò che Joaquin Phenix è meno bravo di quel che si dice e legge in giro. Mentirei. Per darvi l’idea di come la vedo io però, posso dire che il mio Di Caprio preferito non è quello di The Revenant.
3) Ho letto che negli Stati Uniti c’è una certa preoccupazione intorno a quanto questo film possa innescare e che addirittura in alcuni casi si sia parlato di “stato di allerta” e “misure precauzionali”. Posso capire, ma non credo sia un problema del film.
Al di qua dell’Atlantico fortunatamente credo il peggio che possa accadere sia un nuovo effetto “V per Vendetta”, il cui pensiero mi porta in ogni caso a bestemmiare maledicendo la pellicola.
4) Domanda tecnica: la versione doppiata presenta gran parte dei testi a video tradotta in italiano, ma non tutti. Perché (cazzo) ne hanno tralasciati alcuni? Se pensavano fosse un lavoro utile (non lo è), tanto valeva farlo completo.
5) Si chiama Joker, parla del Joker: è un cinecomic. Non capisco la polemica che si è scatenata in tal senso.

Concludendo quindi é un gran bel film e merita i premi e i complimenti che sta raccogliendo, anche oltre la prova d’attore del protagonista. Per me, ad esempio, ha una regia strepitosa.
Se proprio dovessi fargli un appunto (MINISPOILER) mi sarei giocato meglio l’ambiguità tra quel che è reale e quel che Arthur percepisce in seguito alla sospensione delle terapie farmacologiche cui è sottoposto. Il film parte bene in quel senso, ma poi diventa eccessivamente “pulito” e lineare, quindi forse si poteva far meglio. Sono però davvero dettagli che non tolgono nulla alla valutazione complessiva.
Ultima riflessione a margine. Inizio ad avere un problema con le opere che mi sbattono in faccia quanto è orrenda la società in cui viviamo. Giorni fa tiravo un pippone sui social in merito all’ultimo video di Massimo Pericolo e ai numeri che mette insieme e per questo Joker vincitore a Venezia vale grossomodo lo stesso discorso. Non dico sia sbagliato che l’arte svolga questo ruolo, penso anzi il contrario, però forse sto nella parte di società che certi problemi li vede, ma non li vive ed il mio inconscio egoista vorrebbe evitare di venirci a contatto, se non sempre, almeno quando sta cercando di dedicarsi ad azioni di svago. Credo lo prenda come un colpo sotto la cintura. Lo so, è un discorso stronzo, ma sto spazio serve soprattutto a mettermi di fronte ai miei discorsi stronzi.
Certo è che se in Italia opere come Gomorra sollevano sempre un putiferio legato a quanto sia eticamente corretto raccontare i cattivi con una certa epica, al netto del fatto il messaggio nostrano sia sempre che quel tipo di scelta criminale non paga, questo film fa proprio saltare il banco, basandosi quasi esclusivamente sul darci la prospettiva del pazzo omicida. Non dico sia una cosa per forza sbagliata, credo sia argomento complesso e che certamente non voglio affrontare alla 1:55 di notte, ma resta un dato a mio avviso interessante.

Nel 2019 sono usciti sia Endgame che Joker: direi annata non male per i fumetti sul grande schermo.

Once upon a time in Hollywood

La roba più difficile è stata dover aspettare. Per vederlo, ma anche per leggerne, perché volevo arrivarci vergine e reagire di conseguenza, solo in virtù di quanto visto sullo schermo e delle mie aspettative. Non so se vi sia mai successo, ma nel 2019 è una fottuta guerra.
Un’altra roba per nulla facile è stata vederlo doppiato, perché è un film che per gran parte si regge sullo spiegare a chi guarda cosa voglia dire recitare e vederlo doppiato toglie molto più che in altri casi, ma per quello ci sarà tempo e modo di rimediare.

Questa sera sono andato a vedere “Once upon a time in Hollywood”, nono film di Quentin Tarantino, e all’uscita ero cosí fomentato da volerne scrivere e parlare con tutti, cosa che non mi succedeva da Inglorius Basterds.

Adesso ci sarebbe spazio per qualche commento più dettagliato sul film, che per alcuni potrebbe voler dire SPOILER. Ancora una volta però le vicende su cui si basa la storia non sono che un pretesto, una scusa cui appoggiarsi per mettere in scena quel che realmente Tarantino vuole raccontare, ovvero il cinema. In questo il “messaggio” è paro paro quello di Bastardi senza Gloria: il potere salvifico (?) del cinema, della finzione, nell’orrenda realtà in cui siamo costretti a vivere. Questa volta il concetto non è però spalmato su tutto il film, ma relegato al finale e spiegato veramente in stampatello e con qualche disegno in modo che nessuno possa perdersi il sottotesto. Non è solo il film che aggiusta la storia, non è solo il cinema (rappresentato dai personaggi fittizi di Di Caprio e Pitt) a salvare la relatá (Margot Robbie): a quelli che la storia ci ha consegnato come carnefici di una delle più efferate stragi del passato recente il nostro mette anche in bocca un dialogo sui danni causati dalla violenza in tv, prima di farli morire male che più male non si può. Una roba da applausi, che però come dicevo non è che la fine del film.
Sharon Tate in OUATIH avrà forse 6 battute, metterla sui cartelloni e in tutto il materiale promo serve solo a vendere il film a chi ancora ha bisogno di un motivo per andare al cinema a vedere un film di Tarantino (pazzi). Per più di due ore quello che ci viene proposto è l’amore di Tarantino per il cinema, come tutte le altre volte, ma in maniera ancora più esplicita e dettagliata.
Si dice che di solito Tarantino usi un genere per poi farne un altro: western travestiti da film di guerra, horror travestiti da western e via dicendo.
In quest’ottica, per me, questo giro Quentin Tarantino ci ha regalato la sua idea di porno.

Ora scusate, devo leggere ogni possibile articolo mi sia perso a riguardo nell’ultimo mese (almeno)