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Riflessioni

Hipsterismo alimentare®

La notizia è che il franchise americano Domino’s Pizza sbarca in Italia, ovviamente a Milano.
L’inaugurazione del primo negozio è oggi, ma nel piano aziendale ne dovrebbero seguire molte altre nell’immediato futuro. Io metterei un euro sul fatto che Napoli resterà fuori da questo disegno di business, ma potrei anche sbagliarmi visto che, me lo avessero chiesto prima che apprendessi la notizia, avrei risposto che per me importare il brand di una catena di pizzerie statunitensi in Italia è una scelta senza senso.
Immaginando abbiano fatto un’appropriata ricerca di mercato prima di partire con il progetto, pare ovvio io non veda così lungo sull’argomento.
Ora, io non sono tra quelli che tengono particolarmente al concetto di eccellenza italiana e al made in Italy a tutti i costi, però trovo assurda questa operazione a più livelli.
Il primo è chiaramente legato al discorso pizza. Io la pizza di Domino’s l’ho mangiata, negli States, più di una volta. Prima di partire, puntualmente, mi prometto che qualunque cosa accada non dovrò finire a mangiare Italiano oltre oceano perchè so quanto ogni volta mi penta di averlo fatto. Poi succede che sei lì e al quarto giorno, colmata ogni ragionevole voglia di prodotto USA, hai talmente poche opzioni da non poterti permettere di scansarne nessuna, nemmeno una pizza che sai a priori essere orrenda. La pizza di Domino’s fa schifo. Non è una questione di gusti nè di paragoni, è proprio un prodotto di merda in senso assoluto. Di conseguenza, se il progetto è portare in Italia la pizza di Domino’s “originale”, non posso che essere fortemente perplesso.
Più probabile quindi si decida di utilizzare solo il brand Domino’s per spacciare una pizza semplicemente mediocre (questa volta sì in senso relativo, ovvero nel contesto nazionale medio) trainata da un marchio che sappia imporsi nella moltitudine. Un progetto di questo tipo è certamente più verosimile e potenzialmente vincente, ma il suo esserlo evidenzia non pochi limiti nel target. In italia non è che la pizza la facciano solo gli italiani eh, anzi. Nel mio piccolo, statistica vuole che le migliori pizze del circondario siano tutte di pizzerie italiane, ma conosco certamente molte pizzerie italiane che fanno una pizza orrenda così come kebbabbari e cinesi che fanno una pizza buona. Ecco, io se vado da un kebabbaro mangio il kebab, come se vado al cinese mangio cinese, ma non è che posso aspettarmi una società a mia immagine e somiglianza. Il punto quindi non è “L’Italia La Pizza agli italiani!” come diktat. Ben vengano realtà straniere che si propongano qui con un buon prodotto. Credo sia anche stimolante, da un certo punto di vista, venire qui e imporci la pizza. Tipo quei film in cui il protagonista arriva in un posto e ci mette un po’ a farsi accettare, ma poi conquista tutti facendo proprio quello in cui la comunità eccelle e diventa un idolo. Una sorta di Karate Kid 2 della pizza. Divagazioni a parte, dicevo che non è importante che la pizza sia italiana, ma che sia buona. Di conseguenza nessuno va a mangiare la pizza in un posto per il nome sull’insegna, ma per la qualità di quel che arriva nel piatto.
Domino’s punta a spostare completamente l’approccio: è evidente che chi ci andrà, perlomeno all’inizio, andrà per il nome, probabilmente aspettandosi o addirittura sperando che la pizza sia meglio di come sarebbe entrando in un qualsiasi Domino’s americano. Quindi non sarebbe nemmeno un discorso di brand associato alla qualità, ma puro e semplice hipsterismo alimentare®. La cosa fa incazzare perchè è uno di quei casi in cui la moda punta ad abbassare il livello e per cascare in un tranello del genere bisogna essere piuttosto fessi. Da qui, ecco perchè dicevo che il problema è il target.
Prima di scrivere il post ho commentato la notizia su twitter e qualcuno mi faceva notare che la mia posizione oltranzista non tiene effettivamente conto del fatto che Domino’s potrebbe invece avere senso perchè offre qualcosa di diverso. Non ci credo molto. Dal punto di vista del prodotto, ho già spiegato che non credo potrà distaccarsi più di tanto da una mediocre pizza italiana. Il marchio è noto, ma non è MacDonald e se servissero la loro pizza TRUE continuo a pensare chiuderebbero esaurito l’effetto novità. In questo c’è molta differenza con altre operazioni insensate che possono venire in mente. La prima è Starbucks (che, tuttavia, se non erro ancora non ha aperto pur avendo in giro molti più estimatori di Domino’s). Starbucks offrirebbe qualcosa di diverso da quanto si trova in molti bar: beveroni, muffin, donuts e via dicendo, eppure quanti italiani ci andrebbero se non una tantum? Pochini. Andrebbe meglio con gli stranieri, che è noto non apprezzino sempre il nostro espresso in piedi per colazione. Ma quanti stranieri, in italia, rimpiangono la pizza di casa loro? Quindi abbiamo un marchio più noto, con un prodotto che si differenzia dallo standard nazionale per tipologia e non solo per qualità e con una nicchia di mercato garantita che, tuttavia, all’idea di stanziarsi da noi ancora non è sicuro il gioco valga la candela.
Se la differenziazione non arriva dal prodotto, quindi, si potrebbe pensare al prezzo. Ma onestamente, quanto meno si può pagare una pizza da Domino’s? Se parliamo di Milano vedo anche del margine, sebbene anche qui non sarebbe così semplice surclassare in rapporto qualità/prezzo uno Spizzico qualsiasi. Estendendo poi il concetto su scala nazionale, cosa a cui Domino’s punta, io la vedo davvero maluccio. Sempre che il prezzo conti. C’è chi paga 4 euro per un Magnum quando con 2 può avere un buon cono artigianale, ma ancora una volta non credo che Domino’s da noi valga Magnum sul piano del riconoscimento del brand.
Insomma, non vedo molte ragioni per cui questa idea non si riveli un fiasco clamoroso, ma è sempre vero che le mie supposizioni non hanno mezza base concreta nè studi alle spalle. Più probabile quindi che abbiano ragione loro.
Io però ho come il sospetto sarà tutto legato all’hype e alla moda che sapranno generare e, in tal senso, non vedo l’ora di vedere quanto se ne parlerà sui vari social.
Chissà quante twitstar ci diranno di essere da Domino’s, magari proprio a partire da questa sera.
#AcquaCalda

Quando ti specchi in un disco (o anche solo una recensione del nuovo Envy)

Essere padre mi fa un effetto strano.
Ormai sono dentro questa cosa da più di quattro mesi ed inizio a percepirne i risvolti in maniera più netta. Non so se avete presente quando vi dicono: “La paternità ti cambia la vita!”. Ecco, é vero, ma non nel modo in cui pensavo. La rivoluzione attesa era soprattutto incentrata sul minor tempo libero e la ristrutturazione della vita di coppia. Nei momenti più onesti ed introspettivi temevo molto anche lo stand by forzato alla mia propensione ai viaggi, unico vero obbiettivo capace di rendermi accettabile la mia natura di lavoratore dipendente (nel senso di essere dipendente da una vita spesa a lavorare).
Invece no.
O meglio, queste sono tutte conseguenze della paternità realmente insorte, ma a cui alla fine non penso mai.
Essere padre ti cambia le prospettive. Passi diversi momenti ad essere incontrovertibilmente felice e questo, ad uno come me, crea più di qualche disagio. Non penso di potermi definire una persona pessimista, però sono certamente un paranoico ed in quanto tale vivo di ansie legate al fatto che questa felicità possa improvvisamente ed irreversibilmente venir compromessa. Di notte mi capita di dormire poco pur avendo un tesoro di bambino che, al contrario del padre, se la riposa volentieri. Se questa cosa vi facesse pensare al pane e ai denti e vi portasse ad odiarmi lo capirei. Il mio essere cosí non sta molto simpatico nemmeno a me.
Dicevo che questa cosa ti cambia le prospettive perché non sono diventato paranoico con la paternità, ho solo stravolto il fulcro delle mie psicosi.
Dicono che le madri in post-gravidanza subiscano sbalzi di umore legati alle fasi ormonali. Dei padri nessuno parla. Ci sta perché, non essendoci stravolgimenti fisici conseguenti l’avere un figlio, per noi i repentini cambi di umore devono per forza di cose avere radici psicologiche (parlo come se sapessi qualcosa di psicologia o anche solo ritenessi un plus conoscerne le basi.). Fatto sta che sono in questo momento emotivamente complicato da gestire, fatto essenzialmente di paure/preoccupazioni e sorrisoni ebeti in rapida e schizofrenica successione.
E questo è, a conti fatti, il più grosso stravolgimento dell’essere padre.

In un momento non meglio precisato di questo 2015 è uscito Atheist’s Cornea, che è un disco degli Envy. Non so dire di preciso quando perché non sono davvero più sul pezzo con nulla, ma per fortuna i social in questo aiutano e così da un paio di giorni non ascolto altro. Per me è un bel disco. Non ci si trova tutto il post-rock che ci si aspetterebbe dagli Envy, infatti il disco ha una durata ragionevole, ma ci si trovano di certo tutte le atmosfere a cui ci hanno abituati. Solo, questa volta, frullate insieme senza un senso anche minimo di continuità. Da qualche parte, non ricordo dove né in che contesto, ho letto la definizione “emotional rollercoaster” trovandola stupida. La uso adesso senza vergogna perché, pur restando stupida, mette a fuoco l’immagine meglio di come saprei fare io.
Non c’è niente di rivoluzionario in questo disco. A volersi spingere si può sottolineare l’inserimento di alcuni momenti di cantato pulito ad arricchire il pannello di soluzioni previa costituito solo da parti recitate/parlate e urla ferali, ma nel 2015 al più può essere definita una scelta retrò. In fin dei conti questo è un disco revival, pieno di pezzi che nessuno ormai scrive più, ma costruiti con la sapienza di chi ha le basi, le idee e una certa attitudine a fare sempre e comunque le cose a modo. In una scena che generalmente tende al post gli Envy, che credo siano stati tra i primi a percorrere quella strada, tirano il freno a mano e invertono il senso di marcia. La cosa del freno a mano si sente proprio, succede a 00:21 della prima traccia del disco. Io, in totale sincerità, apprezzo e ringrazio perchè ultimamente, se c’è un disco con cui mi sento in completa sintonia, è questo qui.

Il pezzo nasce dopo aver letto la recensione di Pitchfork e l’averla trovata completamente sbagliata. Ne è uscito tuttavia un post che con ogni probabilità sembra più uno scarto del portale alfemminile, ma sto giro oltre che di parlare del disco avevo voglia di parlare un po’ di me e, davvero, mi è sembrato normale fondere i due contenuti.
Il disco completo lo si può ascoltare in streaming su youtube.
La coppia “Ticking time and string” / “Footsteps in the distance” spero chiarisca la misura di questo pezzo.
Se non fosse così è perché non avete un figlio.
O, più probabilmente, perchè siete persone equilibrate.

Mr. Robot

Quale altro blog vi propone l’analisi di una serie TV dieci giorni dopo la sua conclusione?
Ecco, infatti.
In termini di “internet time” un articolo scritto con dieci giorni di ritardo è come uscisse un’era geologica dopo. Nessuno è più in grado di mantenere vivo il proprio interesse così a lungo, come soffrissimo di una variante autoinflitta di ADD che ci porta a consumare vagonate di informazioni immediate per poi cancellare la cache del cervello* da tutto quel che abbiamo acquisito e presentarla vergine al next big thing.
Per forza di cose quindi mi ritrovo a scrivere riflessioni che potreste aver già letto in altri articoli a tema, ma in fin dei conti, visto il prodotto di cui si parla, questa circostanza rende il mio pezzo terribilmente “meta”.
Mr.Robot é la serie più bella che può capitarvi di vedere in questo 2015, ma in fin dei conti é anche la roba più derivativa e meno originale che si possa immaginare.

Qui è dove di solito vi metto in guardia dagli SPOILER che potrebbero seguire, ma essendo passati dieci giorni ed essendo voi arrivati fino a qui nella lettura, desumo non abbiate nulla da temere: o siete sul pezzo e quindi immuni alle sorprese, o non sapete di che si parla e di conseguenza anche la più cruciale rivelazione, letta nella completa ignoranza e fuori contesto, dovrebbe lasciarvi indifferenti e con ogni probabilità non fissarsi nella vostra memoria a sufficienza da guastare un’eventuale visione futura.
[SPOILER] Questa cosa potrebbe non essere vera. [/SPOILER]
Dicevamo, Mr.Robot. Il riferimento più ovvio che viene in mente già dal primo episodio è senza dubbio il “Project Mayhem” di Fight Club: la spinta anarchica ad una riorganizzazione del mondo basata sulla cancellazione del debito e di conseguenza della società come la intendiamo noi. In un’epoca in cui il denaro è perlopiù virtuale, un’ipotetica legione di hacker adeguatamente preparata e motivata potrebbe gettare un colpo di spugna sulla realtà. Non proprio lo script più innovativo ogni tempo, direi, ma è pur sempre roba che tendenzialmente su di me ha buona presa.
Noi viviamo le vicende dalla testa di Elliot**, sociopatico anaffettivo con chiari disturbi mentali che di notte hackera i cattivi e di giorno lavora in una società che offre sicurezza informatica. In sostanza il Dexter Morgan dei computer e, per essere sicuri che non vi possa sfuggire l’analogia con il serial killer dei serial killer, Elliot colleziona cd-r su cui salva i dati dei cattivi che hackera, esattamente come Dexter collezionava i suoi vetrini.
Non vi basta? La chicca é certamente la Fsociety, ovvero Anonymous/Occupy Wall Street. Siamo al cospetto di un fumetto da cui viene tratto un film, a cui si ispira apertamente un movimento politico REALE, che viene a questo punto inserito in una fiction costituendone però non più la parte fantastica, ma il rimando alla realtà. Se avete capito cosa intendo, é un loop straordinario.
Proseguiamo con la dissezione e troviamo Tyrell, assetato di potere e sposato con una bellissima e algida donna che lo asseconda e lo supporta nel suo arrivismo estremo salvo poi scaricarlo quando si presenta all’orizzonte l’ipotesi dell’insuccesso. Come a dire: ma House of Cards non ce lo mettiamo? Come no!
Prendete tutto questo e aggiungeteci una buona dose di complotto: avete chiesto i poteri forti, la minoranza che governa il mondo, l’elite così marcatamente e schifosamente cattiva e senza scrupoli da incarnare il male assoluto? Check.
Mr.Robot é come quando da piccolo prendevi tutti i tuoi giocattoli preferiti e li mettevi insieme in una mega avventura in cui He-Man e i pirati del Lego lottavano per sconfiggere l’esercito dei peluches. Più importante, Mr.Robot é la dimostrazione (ennesima) che usare bene le idee altrui e riproporre quanto già fatto da altri può comunque portare ad un risultato di altissimo livello. Gli autori sono così convinti di questa cosa che ne fanno proprio un elemento d’orgoglio: chi guarda deve capire a cosa si sono riferiti, quali siano le ispirazioni, a costo di fermarsi ed esplicitarle. Giro una scena UGUALE a quella di un altro film? Io ci metto pure la stessa colonna sonora. E vinco tutto.
Davvero, mr.Robot vince tutto e lo fa mettendoci pure una confezione perfetta fatta di regia, fotografia e musica sempre a fuoco.
Per me davvero un gioiellino.

“So this is what a revolution looks like, people in expensive clothing running around.”

Eh, a quanto pare si.

* Ho parlato di cache del cervello in un pezzo su mr.Robot come fossi uno che sa il fatto suo, ma in realtà è una frase che mi è uscita per caso e di cui ho notato il collegamento col tema del pezzo solo a posteriori. Hashtag stimarsi.

** SPOILER: lo spettatore in effetti è una persona immaginaria che solo Eliott vede e che per il resto del mondo non esiste QUINDI lo spettatore é Mr.Robot e siccome Mr.Robot é Eliott, tu che guardi sei Eliott. Tu che guardi puoi cambiare il mondo e rivoluzionare la società. Non è una metafora sottilissima, ma onestamente é figa dai…

La volta che sono stato all’Expo

Alla fine sono andato all’Expo.
Ci ho messo un po’ a decidermi, non per chissà quali questioni ideologiche, quanto perché non avevo davvero molta idea di cosa fosse. Grossi padiglioni in cui le varie nazioni presentano la loro cultura gastronomica in relazione alla biodiversità territoriale e alle tecnologie agroalimentari per la sostenibilità nutrizionale. Figo eh, ma a me interessava più che altro mangiare robe strane. Immaginavo Expo come una sorta di mercato con le bancarelle di design, insomma, e tutto sommato non è che sbagliassi di molto, anche se dopo esserci stato la sensazione è più quella di un grosso parco divertimenti a tema cibo, con tanto di parata delle mascotte e spettacoli i vari. Come Gardaland, ma senza le giostre.
In una giornata piena, circa 12 ore, sono riuscito a visitare 13 padiglioni: Nepal, Thailandia, Cile, Cina, Giappone, Messico, Marocco, Austria, Kazakistan, Emirati Arabi, Azerbaijan, Cuba e UK. Avendo con me un bimbo di neanche 3 mesi ho saltato qualunque coda, quindi ho visto molto più di quanto avrei potuto in condizioni normali (certi padiglioni arrivano fino ad un’ora di attesa, senza contare le interminabili file all’ingresso dell’area Expo), il che significa che per vedere tutta la fiera senza “favoritismi” è presumibile siano necessari almeno tre giorni pieni, se non quattro. Dei padiglioni che ho visitato, col senno del poi trovo evitabilissimi UK (che ho scelto solo nella speranza, vana, di beccare una buona birra), Cuba (che è un bar di 3x3m che serve mojito a 8 euro), Azerbaijan e forse Messico. Menzione speciale in positivo alla Thailandia e al Giappone, che sono senza dubbio i migliori tra quelli che ho visitato. Volendo fare un podio metto al terzo posto il Marocco.
Un discorso particolare andrebbe fatto per il padiglione degli Emirati. Come dicevo all’inizio ho cercato di sorvolare sulle questioni ideologiche legate all’evento, però è difficile stare a sentire un pippone di 20′ sugli sprechi d’acqua nello stand di chi costruisce piste da sci nel deserto. Tutto il percorso del padiglione (disegnato da Foster, giusto per non farsi mancare nulla) è incentrato su un video il cui messaggio che ho colto è: se sei ricco vale la pena mobilitare elicotteri per trasportare una palma del cazzo dal cantiere dell’ennesimo grattacielo fino al giardino della reggia di tua nonna, sprecando 1000 volte più risorse di quante quella Palma di merda riuscirà mai a produrre. Qui il video, se ci trovate un messaggio diverso fatemelo sapere.
Cosa rimane da dire? Beh, in primo luogo che se uno ci va per mangiare robe strane e assaggiare prodotti del mondo, è facile rimanga deluso. Tolto il latte di cavalla fermentato offerto dallo stand Kazako con l’evidente scopo di trollare i visitatori (“Ehi, nello stand mostriamo storioni un po’ ovunque, ma la nostra chicca non è il caviale, è questa merda qui. Assaggia!”) e la frittellina al miele offerta dagli emiri (che tanto loro possono), per il resto nulla da segnalare. Mi sono fatto sapientemente inculare dai colombiani, che per 20 euro mi hanno rifilato due empanadas meno significative di un sofficino findus, e mi sono fatto ingolosire dal foodtruck americano, come il tipo che va nel birrificio artigianale e prende una nastro azzurro (cit.).
Ho evitato con estrema accortezza tutti gli stand “sponsor” ad eccezione di Chicco, che se hai un bambino di tre mesi con te risulta l’azienda con le istallazioni migliori, e il duo Moretti/Poretti perchè in 12 ore di caldo una birretta te la devi anche bere e piuttosto che spendere 5 euro per una birra colombiana il duo di casa nostra resta la soluzione migliore. Lo stand Poretti, anche noto come 50 sfumature di luppoli, presenta settecento alternative, lo stand Moretti ha SOLO il baffo d’oro (io le cose alla frutta non le conto, che non è birra). Il baffo d’oro, ovviamente, piscia in testa a tutte e settecento le alternative Poretti dimostrando, in Expo come nella vita, che il baffo è e sarà sempre il TOP.
Il mio giudizio finale in sostanza è questo: riuscendo ad avere un biglietto a prezzi ridotti (io ne ho avuto uno in omaggio da Sky, per dire, quindi ho speso 39 euro per due persone) ed un infante per saltare le code, l’esperienza Expo è piacevole e vale la visita. Non imparerete molto sul futuro del pianeta, ma vi verrà voglia di visitare posti in cui non siete stati. Se un certo tipo di architettura vi diverte, vedere gli stand è sicuramente piacevole. Oltre a questo, onestamente, non credo si possa andare.
Come detto all’inizio ho cercato di tenermi fuori dalle questioni ideologiche, ma se proprio volete un mio parere veloce e superficiale anche su quello, cito da un blog che dovreste leggere:

… Dovete sapere che l’Expo è un’esperienza che permette selfie praticamente a ogni passo, ed estremamente twittabile, quindi a noi giovani piace molto, esclusi naturalmente i giovani noExpo, secondo i quali un altro mondo è possibile.
Secondo me, no.
Eh. Spiace.

Alla fine speravo ci fosse una maglietta con la scritta “I went to Expo Milano 2015 and all I’ve got is this stupid t-shirt”, ma no.

(P)Dico la mia

Il Partito Democratico ha avuto una bella idea.
Ha creato un portale online in cui i cittadini possano collegarsi ed esprimere la loro opinione in merito a questioni su cui il partito stesso è chiamato a prendere una decisione. Lo spazio si propone lo scopo di informare in merito al tema in discussione e raccogliere opinioni sullo stesso, in modo da colmare il buco che c’è tra la base e gli eletti e portare avanti quelle che possono essere davvero le posizioni di chi compone il partito e non solo di chi è chiamato a rappresentarlo nelle varie sedi.
E’ chiaramente solo una roba di immagine volta a dare questo aspetto giovane, social e 2.0 al partito, ma tutto sommato resta una bella idea, anche solo di marketing.
Hanno chiamato il sito PDlatua.
Ok, se lo chiedete a me il nome basta da solo per togliere al progetto qualsiasi ambizione giovane, social e 2.0, ma non sono qui con l’intento di fare la punta al cazzo quindi sorvolo sulla scelta e passo a dire cosa davvero non funziona del progetto, in qualsiasi ottica lo si voglia guardare.
Il primo tema in elenco sono le unioni civili.
Il Partito Democratico reputa che nel 2015 sia ancora il caso di chiedere alla base cosa ne pensa delle unioni civili. Io leggo la cosa e penso che, boh, magari vogliono anche sapere cosa ne penso rispetto alla schiavitù o al suffragio universale.
Davvero, vi sembra il caso?
Se ci penso a me vengono in mente solo due possibilità.
La prima è che il PD voglia davvero legittimazione della base per muoversi in quest’ambito. Delle due è quella meno plausibile perchè è talmente macroscopico lo sbaglio con cui hanno approcciato la questione, da rendere inconcepibile qualsiasi buona fede, ma insomma, è anche vero che non è proprio il partito delle faine (più dei giaguari, se ricrodo bene). La seconda è che sia il trucco vecchio come il mondo di non ha le palle per schierarsi apertamente e quindi tira in mezzo altri perchè lo facciano al posto suo. Capita di continuo in ogni compagnia, quando ti trovi, proponi un posto è c’è sempre quello che dice: “Vediamo se anche a tizio va bene” unicamente perchè non ci vuole andare lui. Gran classico.
Se dio vuole questo non problema smetterà di essere dibattuto in meno di una generazione, indipendentemente da quanto farà il PD o qualsiasi altro partito Nazionale nel breve. E’ triste però che proprio il PD rimanga schiavo di questo immobilismo democristiano su una questione come quella delle unioni civili. E non è certo qualcosa di imputabile alla gestione Renzi (primo indiziato quando si parla di democristianicità), perchè Da Bersani a scendere non ricordo un segretario con una posizione ferma e sicura sull’argomento. Va beh dai, il tempo avrà la meglio anche su di loro.
Resta il fatto che questo portale giovane, social e 2.0 si dimostri emblema del vecchiume e della staticità di un partito come il PD.
Il secondo punto in discussione è la legalizzazione della cannabis.
Dai.
Fate i seri.

Il Martini-Vodka col dry fa abbastanza cagare

Tra i sedici ed i diciotto anni non è che leggessi tantissimo. Qualche libro d’estate, tipo Wilbur Smith o i gialli di mia madre, ma niente di più. Il motivo era essenzialmente legato al fatto che i libri che mi assegnavano da leggere i proff. del liceo li snobbavo a prescindere sulla scia di un paio di tentativi fatti in buona fede e finiti nella mestizia. Non leggevo nemmeno riviste. In casa mia non ne giravano e a scuola l’unica che circolava (o quantomeno l’unica che vedevo circolare) era Metal Hammer, materiale con cui ero sicuro di non voler entrare in contatto. Leggevo PK e Topolino, a volte qualche articolo sull’inserto del Corriere che compravano i miei, ma era roba estemporanea. Di solito la pubblicazione in questione mi finiva in mano sul cesso e la prima passata era sempre volta ad individuare servizi fotografici di vallette in cerca di visibilità. L’analisi dei contenuti arrivava solo in assenza di servizi dedicati alla strappona di turno e, quindi, abbastanza di rado. L’argomento lettura non era nemmeno fonte di dialogo con gli amici o i compagni di classe. Ci si passava dischi e videogiochi, a volte videocassette, ma non riesco a ricordare una discussione del tipo “oh, devi troppo leggere questo libro perché è fighissimo” fatta in quegli anni.
E infatti, al libro probabilmente più importante della mia adolescenza, ci sono arrivato perché un pomeriggio con gli amici siamo andati al cinema. C’era questo film con protagonista uno sconosciuto Stefano Accorsi ed una sconosciuta Violante Placido. Niente di che, il film, ma il fatto che parlasse (anche) di un gruppo di liceali punk-rocker wannabe era stato sufficiente a tenere viva l’attenzione e parlarne poi a scuola, il lunedì. Così viene fuori che qualcuno ha addirittura letto il libro da cui era tratto, questo “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, e gira persino voce sia (cito a memoria): “tutto diverso dal film perché, alla fine, nel libro Alex mica se la scopa, Aidi!”. C’è curiosità, così passo in biblioteca, ne ritiro una copia e me la leggo.
SBAM.
Libro della vita.
Non ha molto senso che io stia qui a snocciolare i motivi per cui, intorno ai sedici anni, un libro come quello potesse colpire al cuore uno come me. Sono piuttosto ovvi, in verità. Quel che mi andava di scrivere è che da quel momento io quel libro non l’ho più ripreso in mano, essenzialmente per paura. Una cosa che hai letto a sedici anni e ha contribuito in maniera sensibile a cambiarti la vita non è facile da riaffrontare una volta cresciuti perchè, insomma, c’è da mettere in conto la possibilità di essersi fatti formare da un libro stupido, infantile o, peggio di tutto, brutto. Essere disposti a verificare una cosa del genere non è facile come scriverlo. Io, infatti, ho deciso di prendermi il rischio ben oltre i trenta, con una moglie ed un figlio a referto e quindi solo una volta raggiunto il centro pulsante della mia comfort zone.
Ho riletto “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” e, signori, resta un gran libro.
Non è come ascoltare un pezzo degli Ska-P e sentirsi completamente idioti perchè una volta addirittura si pagava per andare a vederli dal vivo. In un ipotetico incontro tra il me di oggi ed il me del 1996, il primo darebbe al secondo una pacca sulla spalla e gli direbbe qualcosa come: “Bravo, ne sai.”, magari formulata meglio, ma forse nemmeno troppo.
C’è chi dice sia un libro derivativo, ma come mi accade quando si parla di musica è una critica che non capisco. Per me è come andare da Bolt e dirgli: “Sì ok, bravo, però l’ Homo Erectus…”. Una volta parlavo di Brizzi e mi rispondevano subito “…ma l’hai letto Salinger?” e io sucavo perchè no, non l’avevo letto, quindi non mi potevo permettere di far presente fosse un ragionamento del cazzo sminuire un’opera semplicemente sulla base del fatto che ce ne fosse una simile antecedente. D’altra parte è pieno di gente che reputa inammissibile mi piacciano i Finch, ma non i Deftones.
Long story short: ho riletto Brizzi a 34 anni, mi è piaciuto ancora un botto e continuo a ritenerlo il romanzo della mia generazione. L’ho pure comprato, perchè una copia fisica in casa non ce l’ho mai avuta. Un domani potrei farlo leggere a mio figlio, non perchè lui debba ritrovarcisi (spero di no, anzi, che si viva il suo di tempo), ma perchè mi piacerebbe sapesse come sono cresciuto e cosa avessi in testa quando ero adolescente. Perchè quel libro parla essenzialmente di quello.
Il titolo del post deriva dal fatto che nel film il vecchio Alex e Martino ad un certo punto ordinano due Martini-Vodka, chiedendoli espressamente: “col dry”. Una volta l’ho fatto anche io e credo sia la cosa più disgustosa mi sia capitato di bere, il che nel mio caso è statisticamente rilevante. Pensandoci, il Martini-Vodka col dry è la versione primordiale, punk e drammaticamente fallimentare del recente e fortunato “Se vuoi fare il figo, usa lo scalogno”.

Nota: questa è tipo la terza volta che riscrivo da capo questo post. Non è una cosa comune, almeno per me, perché di solito se un post non mi esce di getto come lo vorrei lo cancello e finisce lì. Ho insistito perchè è una cosa a cui tengo e, come sempre accade, quando ho delle aspettative su un pezzo non mi esce MAI come l’avrei voluto.

#LoveWins

Se lo chiedete a me, la monogamia non è la scelta più intelligente che l’uomo, inteso come specie, possa fare. Non è nemmeno la scelta più lungimirante in ottica evolutiva, ma a me interessa proprio “criticarne” gli aspetti più legati all’esistenza del singolo individuo. Nell’arco di una vita che fino a prova contraria è unica e certamente irripetibile, accettare per convenzione ci possa essere un’unica persona con cui volerne condividere ampia parte è tarparsi le ali.
Se lo chiedete a me, una società strutturata sul porre un limite alle possibilità di essere felici è una società che non vuole il bene degli individui che la compongono. Ci sono delle ragioni all’origine di tutto questo e sono probabilmente legate al fatto che un’esistenza triste renda più appetibile la promessa di un regno dei cieli sfavillante di felicità, ma non vorrei fermarmi sul concetto e divagare ulteriormente.
Io sono sposato.
Vista la premessa è lecito pensare che abbia fatto questo passo senza curarmene troppo, “che tanto se serve si divorzia”, ma non è così. Quanto scritto sopra mi pone ad un livello di valutazione che rende, per me, la scelta del matrimonio qualcosa di ancora più forte e radicale. Un conto è sposarsi perché è normale, un conto è farlo perché si vuole, nonostante non ci si senta in dovere di e non la si consideri nemmeno una scelta sempre vincente.
Lasciamo per un attimo da parte le questioni di riconoscimento della coppia di fatto da un punto di vista squisitamente legale, giusto per non ribadire l’ovvio, e focalizziamoci invece sul concetto di matrimonio inteso come scelta di vita. Ci sono persone che hanno avuto la fortuna di trovare il/la compagno/a con cui intendono passare il resto della propria esistenza e, soprattutto, che hanno avuto il coraggio di non lasciarsi sconfortare dal fatto che questi fosse del loro stesso sesso. Uomini e donne che vogliono poter compiere una scelta radicale che, oltretutto, nel ghetto della società dove noi altri proviamo quotidianamente a rinchiuderli non sarebbe manco culturalmente dovuta.
Questa cosa è di una bellezza disarmante.
Per questo, oggi, io sono felice per i cittadini degli Stati Uniti. Essere felici per qualcun altro è una cosa che, purtroppo, le persone che quotidianamente si battono per limitare le possibilità altrui non possono capire. Le sentinelle in piedi, il family day e le altre libere ed altrettanto deprecabili manifestazioni di pensiero unico conservatore si basano su un approccio alla vita che è quello del tuo collega che si incazza perché a te danno l’aumento. Se sei gay e ti batti per i diritti dei gay sei disprezzabile, se sei etero e ti batti per togliere o non estendere i diritti dei gay sei nel giusto. Se sei etero e ti batti per i diritti dei gay sei incomprensibile (o forse gay. Si, devi essere un gay represso).
Eh va beh, ce ne faremo una ragione.
La speranza adesso è che anche nel mio Paese si vada nella stessa direzione, perché essere felici per gli altri è bello, ma se gli altri si conoscono personalmente lo è ancora di più.
Nell’attesa, Obama ridefinisce il concetto di VINCERE TUTTO.

Vincere tutto

Game of Thrones è meglio dei libri

In questo pezzo si parla di Game of Thrones e dei libri da cui è tratto dando per scontati tutti gli avvenimenti pubblicati/trasmessi fino ad ora. Prima di dare dettagli della trama scriverò in ogni caso SPOILER, ma se siete in pari andate tranquilli.

Ho appena finito di vedere il season finale della quinta stagione di Game of Thrones. Da un po’ volevo mettermi lì a dire due parole su questo quinto capitolo dello show, ma mi ero imposto di aspettare la conclusione per poterne parlare in modo completo.
Per una volta, il mio potrebbe essere un punto di vista piuttosto atipico e, voglio spingermi tantissimo, addirittura interessante. Statistica vuole che il pubblico di questa opera si divida in due macro tronconi:
1) chi ha letto i libri. Nerd della prima ora o ultimi arrivati, la differenza è nulla quando si tratta snocciolare tutti i fantastiliardi di motivi per cui “sono meglio i libri”, eufemismo che apre quasi subito all’elenco dei supposti danni fatti in fase di sceneggiatura dal team di HBO.
2) chi guarda solo la serie e la apprezza in quanto tale. Gente a posto che, suo malgrado, si trova a dover odiare la categoria 1 in quanto saccente, foriera di SPOILER e, soprattutto, cagacazzo.
Io mi colloco in mezzo tra i due gruppi. Sono un lettore da ben prima nascesse lo show televisivo e sono stato per anni un fan hardcore del Martin delle Cronache, ma posso dire senza alcun dubbio che la serie, ormai, per quanto mi riguarda è tra le due l’opera che merita maggiore attenzione, l’unica che mi prema seguire assiduamente e di cui ormai mi interessi davvero conoscere la conclusione.
Segue quindi l’opinione non comune di un lettore per cui “è meglio la serie TV”.
tuun-tun-turutun-tun-turutuuun (turutuntun-turutuntun)
Manq, non è che dici così perché ti sei rotto il cazzo di aspettare che Martin pubblichi i suoi dannatissimi libri?
No. È innegabile che se i libri fossero usciti tutti in un lasso di tempo ragionevole e la saga letteraria fosse già conclusa forse ne avrei una percezione differente, ma così non è. Cosa offrono quindi i libri in più, rispetto alla serie? Certamente un livello spaventosamente maggiore di dettaglio: più personaggi, più trame, più avvenimenti. Vero, ma è davvero possibile apprezzare queste cose quando in 10 anni esce un solo libro? Certamente è pieno il web di gente che conosce l’opera a memoria e che ogni tot mesi la rilegge da capo per stare sul pezzo e avere tutto l’affresco sempre chiaro in mente. Io però un lavoro già ce l’ho e quindi uso le vicende di Westeros per intrattenermi. Ho letto i libri quando sono usciti e, onestamente, di tutto il materiale non tradotto on screen ricordo davvero poco. Potrei addirittura faticare a seguirne gli sviluppi cartacei futuri, perdendo moltissimo del coinvolgimento semplicemente perché non so più a che punto stiamo le cose.
Non bastasse, è opinione largamente condivisa che Martin con la sua scrittura sia in fase calante. Non entrerò nel merito delle speculazioni sul perché di questa involuzione letteraria, fatto sta che gli ultimi due volumi (5 nella versione italiana, perché noi non vogliamo i matrimoni gay, ma evidentemente amiamo prenderlo in culo) succedono solo cose di cui non frega niente a nessuno, colpi di scena telefonati e bluff evidenti a cui, onestamente, nessun lettore dovrebbe più abboccare.
Da tutto questo la serie ha tratto enorme giovamento, perché ha potuto tagliare il marcio e l’inutile e tenere solo il buono (reale o potenziale).
Quindi la serie è meglio perché è un riassunto?
No. Escludendo la prima stagione, dove il materiale letterario è stato trasposto egregiamente senza necessità di tagli o reimpasti, fino alla copertura dei primi tre volumi lo show ha molto sofferto in confronto ai romanzi ed il motivo era proprio il tentativo degli sceneggiatori di riassumere tutto senza tralasciare nulla. La ragione per cui la serie oggi è meglio dei libri è che ha finalmente deciso di smettere di riassumere facendo delle scelte e prendendosi delle licenze. Tagliando e riscrivendo. In alcuni casi i risultati sono stati egregi (Sansa a Grande Inverno), in altri discutibili (Dorne), ma questa nuova attitudine ha certamente migliorato un prodotto ormai da troppo tempo vittima della sindrome “dove cazzo vado a parare?” di cui Martin è preda.
Ma George R.R. Martin sa da sempre come finiran…
Ma smettila. Martin aveva certamente un’idea, ma l’ha stravolta e cambiata Dio solo sa quante volte negli anni. È evidente leggendo i suoi libri e se non è sfuggito a me che li ho letti una volta sola, non può certo esserselo perso chi li studia come fossero sacre scritture. Un esempio che provi questa mia ultima frase utilizzando uno SPOILER gigante da “A Dance with Dragons”?
Aegon Targaryen. La storia del bambino che era morto ed invece morto non è, figlio di Raeghar, erede al trono legittimo e bla bla bla? Tutta roba uscita dal nulla, è più che evidente. FINE SPOILER.
Dicevo che ormai Martin è perso nella sua stessa trama e più si muove per uscirne, più tende a fare cazzate. La serie ha quindi avuto la grossa occasione per fare il salto e staccarsi del tutto, buttando nuova linfa creativa nell’opera. E ci ha provato in questa stagione, anche con ottimi risultati. Una semplificazione mai frettolosa, un lavoro egregio di selezione delle vicende da narrare e qualche passo nei territori inesplorati dell’inedito. Tutto davvero molto bello, almeno fino a questo finale di stagione.
Non ti è piaciuto?
No, e il motivo è proprio il ritorno a seguire pedissequamente i libri, anche nelle scelte che per tanti motivi non funzionano. Faccio qualche esempio (intendo SPOILER). La scena del quasi affogamento di Tyrion, nella serie, è stata resa benissimo perché privata di quella connotazione “cliffanger” che invece gli si voleva conferire nel libro. Nessuno, a quel punto e in quel modo, può credere che il nano sia annegato eppure Martin ci prova a far spaventare il lettore, incrementando quell’effetto di “al lupo al lupo” che ormai chi ha letto i libri ha abbondantemente in noia. Questo tipo di accortezza per me gli showrunner avrebbero dovuto dedicarla anche alla fine di Stannis, che invece torna ad essere gestita come farebbe George, con un bluff a cui difficilmente si può abboccare. Stannis è vivo e lotta insieme a noi, per quanto mi riguarda. FINE SPOILER.
Questo apre forzatamente ad un’analisi della questione “morti”, che nella mia personale scala di valori conta moltissimo nell’attribuzione della preferenza alla serie piuttosto che ai romanzi. Martin mi ha conquistato ammazzando i protagonisti come mosche. La trovavo una scelta coraggiosa, ma soprattutto un buon espediente per mantenere viva la suspance: nessuno è intoccabile e tutto può succedere. A conti fatti, invece, un’analisi lucida dimostra che Martin ha avuto un briciolo di palle solo in due circostanze, mentre in moltissime altre ha semplicemente barato. Ancora qualche SPOILER (ma cazzo, mettetevi in pari). Prendiamo la lista delle morti illustri di cui frega qualcosa al lettore e che non generano semplicemente esultanza (hey Joffrey, guess who?). Catelyn? Risorta. Brienne? Falso allarme. Davos? Falso allarme. Due volte. Il mastino? Falso allarme. Theon? Falso allarme. Mance Ryder? Falso allarme. Probabilmente scordo pure qualcuno. E ora, alla fine dell’ultimo libro, vuole farmi credere la morte di Stannis e Jon? Dubitarne è quantomeno legittimo. I miei due centesimi li punto su Stannis sopravvissuto e Jon riportato in vita da Melisandre, ma non divaghiamo.
La serie, al contrario, ha dimostrato di avere più fegato (leggi anche meno propensione a sbracare). Cat pare sia morta e resti tale, un tot di comprimari importanti sono stati sacrificati senza battere ciglio in nome della semplificazione, pure il mastino non sembrerebbe avere altro ruolo dal cibo per i vermi, almeno stando a quanto visto. Gli sceneggiatori non hanno ancora millantato decessi fasulli. Per questo temo che questo finale sia preoccupante, perché credo questa scelta sia destinata a cambiare. E ci può stare farlo una volta dopo 5 stagioni con il personaggio più amato dal grande pubblico, ovvero Jon, ma usare la stessa scelta anche per Stannis farebbe traboccare il vaso. FINE SPOILER.
Hanno avuto tutti i mezzi per migliorare i libri e per larga parte sembravano davvero intenzionati a mantenere la promessa, ma questo finale mi spaventa un po’. Ciò nonostante, eliminando supposizioni e congetture, la serie al momento è un prodotto largamente meglio strutturato dell’opera a cui si ispira.
Hai finito con ste cazzate?
Quasi. Chiudo con l’ultima analisi. Con la fine di questa stagione televisiva siamo arrivati ad uno snodo interessante: serie e libri sono in pari e non c’è più materiale a cui attingere. È ormai legittimo pensare che la prossima stagione uscirà prima del prossimo libro e che le trame da ora in avanti divergeranno largamente. E se Martin volesse regolare nuovamente il suo progetto in relazione a come verranno accolti i futuri sviluppi della questione Jon nello show? Assurdo? C’è chi sostiene l’abbia già fatto in passato quando tra i lettori si è diffusa la teoria sulle origini dello stesso Jon Snow…

La vita immortale di Henrietta Lacks

Ho letto un libro.
Si intitola “La vita immortale di Henrietta Lacks” e l’ha scritto Rebecca Skloot. Contrariamente a quanto starete pensando, non è l’ennesimo thriller scandinavo, ma una ricerca accurata e appassionata in merito ad una vicenda che, negli anni ’50, ha cambiato radicalmente la scienza aprendo a milioni di possibilità e simultaneamente a tantissime questioni etiche di cui, ovviamente, non avete manco una vaga idea.
È un libro che dovreste leggere tutti.
La storia ve la posso anticipare, perché conoscerla non impatta sulla portata del libro, anzi credo aiuti. In estrema sintesi: negli anni ’50 una donna di colore di nome Henrietta Lacks si è ammalata di una forma molto aggressiva di cancro e ci è morta poco tempo dopo. Tra i due eventi, non poi così eccezionali, è successo che un medico riuscisse a prelevare dal tumore alcune cellule che furono messe in coltura e, grazie a caratteristiche estremamente peculiari, resistono tutt’oggi vive, vegete ed in perfetta espansione.
Questo è il nucleo della questione, il libro mette in fila i dettagli fornendo un quadro non solo di quanto è accaduto ad Henrietta, ma anche di cosa è successo alla scienza da un lato ed alla famiglia della donna dall’altro in seguito a quella vicenda.
È scritto come un romanzo perché l’autrice tiene a raccontare il percorso tortuoso che le è servito a mettere insieme tutti i pezzi e, soprattutto, ad instaurare una relazione con la famiglia Lacks, non proprio composta da persone facili. Questo da un lato aiuta lo scorrere della lettura anche di chi non è ferrato in biologia, ma dall’altro ovviamente allunga un po’ il brodo con vicende interessanti fino ad un certo punto. Quello che conta è che gli snodi scientifici ed etici cruciali ci sono tutti e sono spiegati in maniera chiara e dettagliata, con tanto di ampissima sezione bibliografica a corredo per chi volesse approfondire.
E ora veniamo alle ragioni per cui dovreste leggerlo.
Il motivo principale è che vi vedo costantemente impegnati sul fronte di battaglie etico/cospirazioniste dal vago retrogusto di scienza. Dalle scie chimiche alla salvaguardia della nutria, è palese che la bioetica vi stuzzichi, solo che non capendone un cazzo vi buttate sulla prima cagata che vi capita sotto mano e ci costruite sopra crociate assurde esponendovi al ridicolo.
In questo libro si parla, tra le altre cose, di esperimenti scientifici su persone non consapevoli, di brevetti su materiale biologico ottenuto magari senza consenso, di commercializzazione di tessuti altrui senza che il donatore ci ricavi nulla. Problematiche nate nel 1950, alcune pure prima, ma oggi tutt’altro che risolte. Ci sono più spunti di riflessione nelle note di questo libro che in qualunque cazzo di blog utilizziate per “””informarvi”””.
Lo so. Darvi in mano una roba del genere è rischioso visto l’approccio cospirazionista e sensazionalista con cui affrontate qualsiasi argomento, ma io un po’ ci voglio credere comunque. Questo libro può davvero farvi capire come ci si rapporti ad un dilemma etico. Il dibattito viene riportato per intero, fornendo entrambe le posizioni (non è INCREDIBILE???) e contrapponendo le diverse argomentazioni punto per punto. Alla fine propendere per una delle due parti è possibile, ma non è più così facile, specie se si prende atto di un contesto sociale ed economico che poco ha a che fare con questi interrogativi, ma che non può non condizionarli. Cito un passaggio, in esempio:

The debate over the commercialization of human biological materials always comes back to one fundamental point: like it or not, we live in a market-driven society, and science is part of that market. Baruch Blumberg, the Nobel Prize-winning researcher who used Ted Slavin’s antibodies for hepatitis B research, told me, “Whether you think the commercialization of medical research is good or bad depends on how into capitalism you are.” On the whole, Blumberg said, commercialization is good; how else would we get the drugs and diagnostic tests we need? Still, he sees a downside. “I think it’s fair to say it’s interfered with science,” he said. “It’s changed the spirit.” Now there are patents and proprietary information where there once was free information flow. “Researchers have become entrepreneurs. That’s boomed our economy and created incentives to do research. But it’s also brought problems, like secrecy and arguments over who owns what.”
Slavin and Blumberg never used consent forms or ownership-transfer agreements; Slavin just held up his arm and gave samples. “We lived in a different ethical and commercial age,” Blumberg said. He imagines patients might be less likely to donate now: “They probably want to maximize their commercial possibilities just like everyone else.”

Vi avviso, potrebbe essere una lettura destabilizzante, quindi se avete bisogno di certezze non è materiale per voi. Per le verità incontestabili ci sono i siti anti vivisezione, o alla peggio potete andare in chiesa.
Immagino che il tono con cui è scritto questo post vi stia dando sui nervi. Lo capisco, darebbe sui nervi anche a me perchè vi sto trattando non solo da ignoranti, ma anche da persone non particolarmente sveglie. Capita. Ora avete tre possibilità:
1) Ignorate questo post, i suoi riferimenti, chi l’ha scritto e continuate ad occuparvi di bioetica condividendo post scritti da chissà chi su Facebook. Bravi voi. Però ecco, se non doveste tornare sul mio blog a me sta benissimo.
2) Usate le quattro nozioni in croce che ho infilato in questa pagina, magari incrociandole con una veloce ricerca in google (se sovrastimo la vostra intraprendenza scusatemi) per fare gli spessi con gente che sta ancora più indietro di voi e che, purtroppo, esiste. Buona scelta anche questa, però se proprio volete percorrerla vi chiederei di NON citarmi come possibile fonte.
3) Vi leggete questo libro. A quel punto avrete probabilmente voglia di saperne qualcosa in più e leggerete altri libri o articoli. Magari avrete solo la tentazione di venire qui a dirmi che di questo libro io non ho capito niente, che è scritto in modo sbagliato o che affronta la questione in modo sbagliato, oppure non vedrete l’ora di parlarne, ma non con me. Sarebbe bello comunque.
Se me lo chiedete, non saprei dire quante persone conosco che sceglierebbero l’opzione 3.
Per quanto mi riguarda, mi piace pensare che il blog di uno qualsiasi possa essere lo stimolo ad approfondire un argomento. Nulla di più.