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Riflessioni

Dalla parte giusta del populismo

Io ho lavorato nella ricerca scientifica dal settembre 2005 al gennaio 2014. Ho fatto gran parte del percorso accademico: tesi sperimentale, borsa di studio, dottorato di ricerca, post-doc; quasi nove anni di cui sette nel nostro amatissimo Paese.

Ancora oggi, quando parlo con alcuni colleghi, mi dicono frasi tipo: “Beh, io non sono rimasto in università. Io ho iniziato a lavorare subito.” e sul momento vengo sempre avvolto da quell’insana voglia di farmi esplodere in ufficio. Non è un discorso relativo solo alla mia azienda, ma generalmente diffuso nell’ambito extra-accademico quando si parla di “lavoro di ricerca”.
Io non sono mai stato Stachanov, ho sempre avuto la grossissima fortuna di avere interesse nella mia vita fuori dal lavoro e, soprattutto, non sono mai stato affascinato dal poserismo da straordinario che prende moltissimi giovani ricercatori.
– Sai, io lavoro fino alle dieci di sera.
– Ah, non me lo dire, ieri notte ho dovuto correre un esperimento che finisce giusto giusto sabato pomeriggio. Poi domenica analizzo i dati.
Tutte seghe.
La mia esperienza personale rispetto a chi fa turni di 12-15 ore in laboratorio sette giorni su sette è che sia spinto da un mix di, appunto, autocompiacimento e disorganizzazione. Lavorare libero da orari permette di impiegare 12 ore a fare una cosa che si farebbe in 8 solo perchè nessuno ti fucila se stai la notte al bancone, che tanto sei fuori casa/città/Paese, conosci poche persone e non hai una beneamata minchia da fare. Fermarsi fino a tardi può capitare in tutti i lavori. Se ti capita sempre, il problema sei tu. Fact.
Detto questo, io mi sono sempre fatto un discreto mazzo al lavoro e credo per una volta i risultati siano lì a disposizione degli scettici. Ho sempre vissuto in realtà produttive, dove pubblicare i risultati era importante, dove produrre dati era importante, quindi sentirmi costantemente associato all’idea piuttosto stereotipata del laboratorio come luogo di fancazzismo, lontano anni luce dal concetto di lavoro, mi irrita anche ad anni di distanza.

Il mio “nuovo” lavoro tuttavia mi mette a contatto con tutte le realtà italiane che si occupano di ricerca scientifica: da quelle dove si lavora tanto e bene a quelle dove, oggettivamente, vengono buttati via soldi pubblici.
Di nuovo, non ne faccio una questione di orario di lavoro. Posto che lavorare a progetto abbia l’indiscusso vantaggio di lasciare grandissima flessibilità nella gestione del tempo, io non mi incazzo con i ricercatori borsisti che lavorano sistematicamente dalle 10 alle 16. Prendono uno stipendio da fame con contratti rinnovati ogni sei mesi tra mille patemi d’animo ed imprevisti quindi, sapete cosa, fanno bene. Il problema è se in quelle sei ore (colazione, caffè, sigarette e pausa pranzo comprese) non si è professionali.
Mi capita di prendere aerei o treni per presentarmi ad appuntamenti fissati in largo anticipo e, arrivato sul posto, sentirmi dire “No, oggi non posso / La dr.ssa non c’è / Avevamo un appuntamento?”. Da questa situazione ho capito una cosa: non è un problema di educazione. Non solo, almeno.
Chi da un valore al proprio tempo, chi sa cosa significhi lavorare, impara immediatamente a non sprecarlo e diventa, contestualmente, sensibile al non voler sprecare neanche quello altrui. Chi al contrario non contempla ci sia un investimento di risorse dietro al lavoro degli altri è solo chi  in primis non valuta prezioso il proprio tempo. Quindi chi ne ha da perdere.
E’ una statistica che non teme smentite, fatta su un campione molto vasto. Al netto dell’inconveniente che capita a tutti e dello stronzo che lo fa apposta perchè in qualche modo si sente in diritto di mancarti di rispetto, il resto rientra nella casistica dei nullafacenti col camice. E sono tanti, troppi per un Paese che di fondi ne ha così pochi.

Come si è arrivati a questo?
Io non ho una risposta che giustifichi la totalità del fenomeno, ma ho certamente una spiegazione a parte del problema. In Italia fare ricerca è diventato un hobby.
Torniamo al sottoscritto. Io sono rimasto in laboratorio fino a 33 anni. Ero già sposato, quando ho mollato. Avevo già un mutuo (sebbene più piccolo di quello attuale), quando ho mollato.
Non avrei potuto farlo se non avessi alle spalle una famiglia che mi ha permesso di arrivare a quel punto, aiutandomi economicamente ad emanciparmi. Sono stato fortunato quindi, ma comunque non avrei potuto permettermi di restare in laboratorio ancora, certamente non oggi che ho due figli. Anche perchè in casa eravamo in due a fare ricerca.
Una prima selezione quindi la fa la possibilità economica di continuare ad investire ad oltranza in un sogno privo di prospettive tangibili.
La seconda selezione la fa il merito, ma in negativo. Siamo uno dei Paesi in cui il lavoro di ricerca è pagato meno, ma viviamo in un contesto globale in cui i propri dati ed il proprio CV sono disponibili ovunque nel mondo. Chi vale e riesce a dimostrarlo con i risultati ha mercato e, ovunque provi ad andare, trova gratificazioni economiche che in Italia non avrebbe. Quindi, 7 volte su 10, parte.
Non starò a fare pipponi sulla fuga di cervelli, ma questa è la situazione. La ricerca Italiana seleziona chi può permettersi di campare con 1000 euro al mese  (se va bene) e simultaneamente non ha la possibilità di andarsene via, per scelta di vita o perchè non è bravo abbastanza.
Non è un problema unicamente di fondi, è un problema di risorse umane che certamente ha avuto origine dalla mancanza di fondi, ma che ora è parte integrante del degrado. Gente che da vent’anni sta i laboratorio senza una minima spinta produttiva o professionale, che ha scelto questa carriera perchè offre orari comodi per andare a prendere i figli a scuola (non sono necessariamente donne, pare stupido precisarlo, ma ecco.). Non ho nulla contro queste persone, contro la loro scelta di vita e nemmeno contro il loro concetto di lavoro, se questo non fosse in un ambito finanziato coi soldi di tutti e, soprattutto, in costante mancanza di risorse economiche.

Per questo spesso dico che io non voglio che la ricerca nel nostro Paese riceva più fondi. Io voglio che venga riformata. Gli stessi soldi, distribuiti meglio e in base al reale merito invece che poco a tutti, farebbero già fare un salto di qualità al sistema.
Il dramma vero è che la ricerca ed i suoi finanziamenti, così come temo la scuola (realtà che trovo assimilabile pur non conoscendola da dentro) sono diventati unicamente un simbolo da brandire ai comizi, vuoto, un po’ come “prima gli italiani” o “basta tasse”. Fatichiamo ad accorgercene perchè a gridarlo siamo spesso noi che quegli slogan li critichiamo.
Noi che siamo dalla parte giusta del populismo.

La macchina nello spazio

Ultimamente non è che mi venga facilissimo avere fiducia nell’umanità. Tra fascisti che sparano per strada, leader mondiali che parlano ogni due per tre di arsenale atomico e idioti che vorrebbero farci tornare all’epoca buia delle epidemie diventa davvero difficile pensare positivo.
Eppure ieri per qualche ora sono rimasto a guardare affascinato l’ultima dimostrazione di quanto l’uomo possa essere capace di grandi imprese. E’ stata una bella pera di fiducia nella nostra specie, che ha avuto il suo culmine grossomodo in questo momento:

Ieri è stato lanciato il Falcon Heavy, il razzo progettato da SpaceX che punta a rivoluzionare le missioni spaziali future, sia in termini di capacità di carico, che di destinazione, che sopratutto di costi visto che il grosso del progetto sta nel rendere il vettore “riutilizzabile”.

Io non so dire se Elon Musk sia un genio, certamente è una persona fuori dal comune con una visione fuori dal comune. Una visione che, a voler ben guardare, io probabilmente non capisco visto che si parla di salvare il pianeta.
Non credo di essere una persona particolarmente egoista, eppure questa cosa del benessere della Terra non riesco proprio a farmela piacere. Io sono per il benessere degli uomini nel presente, con una prospettiva a lungo raggio che può arrivare al massimo a 100, 150 anni da oggi (solo perchè ho dei figli e spero di avere dei nipoti). Trovo giusto fare tutto il possibile, anche e soprattutto ridefinendo il concetto stesso di possibile, per migliorare le condizioni di vita attuali. Per ogni singolo essere umano, ovviamente, il che è un traguardo già abbastanza utopistico, senza necessariamente proiettarlo in avanti di migliaia di anni.
Se eliminare la malnutrizione nel mondo OGGI accorciasse di un milione di anni la stima di vita sul pianeta (che pare stia intorno al miliardo e mezzo di anni) e la scelta dipendesse da me firmerei senza alcuna riserva.
Non so se sia una prospettiva miope la mia, probabilmente è così, ma credo che l’intervento dell’uomo stia compromettendo il futuro del pianeta con uno scopo condivisibile, ovvero l’aumento della qualità della vita. Non dico che il metodo sia perfetto: non c’è egualità nell’accesso alle risorse che creiamo, e il processo è viziato da interessi che nulla hanno a che fare con il benessere di tutti, ma al netto di queste situazioni il progresso c’è ed è costante. Forse è più lento di quel che potrebbe essere, certamente è meno “giusto” di quanto dovrebbe essere, ma c’è.

Ok, m’è scivolato il pippone, il post è nato per celebrare una roba figa fatta da gente figa che non è solo brava in quel che fa, ma lo è ancora di più nel comunicare quel che fa. Perchè se vuoi cambiare il mondo, saper parlare ai sette miliardi di persone che lo popolano credo sia utile.

Quindi, tirando le somme, l’uomo ha lanciato un’automobile nello spazio.
Lo ha fatto unicamente come mossa di marketing a supporto di un test per una tecnologia missilistica che vuole cambiare il modo di pensare i viaggi nello spazio e che, se quel che abbiamo visto ieri è solo un antipasto, è probabile ci riesca pure.
Guardando la diretta è stato bello sentire la gente che applaude, che fa insieme il count down, perchè piccola o grande che sia parliamo di una conquista dell’uomo e queste conquiste hanno il dovere di unirci e ricordarci che sappiamo fare anche qualcosa di buono.

You break my heart into a thousand pieces and you say it’s because I deserve better?

Dicono che internet sia un posto giovane, ma in realtà non lo é più di quanto lo sia Gessate. Come nella “vita vera” alla fine tendi a circondarti di tuoi simili, al più sgrammato di alcuni dei paletti dettati dalla quotidianità, finendo a leggere e frequentare posti da quarantenne conscio che i giovani veri, grazie a Dio, stiano da altre parti a mangiare le pastiglie della lavastoviglie.
Con questo bias gigante sulla schiena ti trovi, anno domini 2018, a constatare che cose come la morte della cantante dei Cranberries o il ventennale di Dawson’s Creek abbiano una rilevanza reale nel tuo intorno digitale e per qualche secondo il tuo subconscio ti sinsiga con pensieri tipo: “Hai visto? Avevamo ragione noi! Il mondo lo ha capito!”. E tu, ovviamente, lì per lì ci credi.
#Einvece il mondo non ha capito proprio un bel niente, siamo solo noi (cit.) che proviamo a darci man forte gli uni con gli altri nel tentativo di dimostrare qualcosa di non richiesto e non necessario, esattamente come fosse il 1998.
Come in tutte le cose, il punto non è mai avere ragione, ma solo quanto si tenga al fatto che altri lo riconoscano. Nel mio caso, in media, tantissimo.

Le operazioni nostalgia sono da sempre una roba che fa presa, sul sottoscritto. Di solito quando iniziano è perché hai scollinato i migliori anni, ma per quel che mi riguarda posso tranquillamente dire di essere stato nostalgico da sempre. E di non essere il solo. Due esempi.
1) Una delle band che ho amato di più al liceo aveva nel demo un pezzo intitolato “13“. Gente di neanche vent’anni che rimpiangeva i bei tempi in cui ne aveva 13. Giuro. Pezzo incredibile, tra l’altro.
2) In compagnia da me tra i sedici e i diciotto anni il pezzo singalong che metteva sistematicamente tutti d’accordo era “Gli Anni”, del sommo poeta col nome di una moto.
La nostalgia è un vortice e ci siamo dentro tutti, grandi e piccini, ognuno coi propri riferimenti. Scrivere di anniversari su un blog è solo un altro tentativo di dar sfogo a questa necessità. Per qualcuno magari è una moda, per me forse la roba più naturale da fare quando apro la pagina di wordpress e decido di scriverci dentro.
Quindi adesso butto giù un pezzo su Dawson’s Creek.

Accento Svedese ha classificato gli anni ’90 come il periodo che va dalla cerimonia di apertura delle olimpiadi del ’92 fino al tragicamente noto undici settembre 2001 (ref.). Ovviamente ha ragione lui, ma nella mia testa più che di un decennio vero e proprio si parla del periodo a cavallo del Millennium Bug, da qualche anno prima a qualche anno dopo. Per la precisione, gli anni in cui è andato in onda Dawson’s Creek.
Coincidenze?
Beh, sì. Però è un fatto, gli anni prima e gli anni dopo non riesco ad associarli alla stessa epoca. DC ha scandito lo scorrere dei miei anni novanta senza necessariamente raccontarli, semplicemente coincidendoci.
Leggendo in giro dell’anniversario ho pensato di riguardarmi il pilota come puro atto celebrativo. Ora sono al quarto settimo episodio e non ho minimamente intenzione di smetterla. C’è qualcosa di difficilmente spiegabile in DC, parte la sigla (che nella prima stagione non è I don’t want to wait) e SBAM, sono a casa. Senza un senso, tra l’altro. Non ci può essere empatia per finti ragazzini che parlano di vela e Spielberg, per un contesto in cui il figo che arriva in città rapisce il cuore delle giovani suonando un cazzo di violino sul molo al chiarore della luna. È una roba ai limiti del fantasy. È come pretendere di avere Il Signore degli Anelli come proprio romanzo di formazione generazionale. Io non ricordo come fosse Beverly Hills 90210, ero davvero troppo piccolo per trovarci qualcosa più che i primi scossoni ormonali innescati da Kelly Taylor e la sua ciuffa improponibile, però dubito avesse dialoghi come quelli di DC. Nel terzo episodio Dawson dice a Jen una roba tipo “Rendiamo magica un’ora” per invitarla a beccarsi dopo scuola. La soglia del ridicolo superata in Fosbury.

Ci sono tantissime robe che da ragazzo ti appassionano, ma che riprese in mano da adulti si mostrano appunto ridicole. Ad alcune ripensi con imbarazzo, tipo lo ska, altre le rimuovi. Ognuno poi ha quei due o tre scheletri che preferisce lasciare sepolti nella memoria e che ha paura di andare a ripescare per evitare di farci i conti. Io, per dire, ho avuto questo rapporto con Jack Frusciante è uscito dal gruppo, salvo poi prendere il coraggio a due mani e constatare fosse una paranoia inutile.
Questo discorso non vale per DC.
Ho il ricordo nitido del fatto che lo guardassimo per riderne anche allora. Nessuno prendeva sul serio le storie di Capeside, ma non ne perdevamo mezza. Facevamo addirittura sporadici gruppi di ascolto ed era una roba così distante da ognuno di noi da essere paradossalmente iper inclusiva, diventando iconica.
Ho in testa questo speciale sui No Doubt andato in onda su TMC2 in cui Gwen Stefani diceva avessero proposto alla band di suonare in un episodio di Beverly Hills 90210 e loro avessero detto no, per ragioni che parafrasate avevano a che fare col concetto di sputtanarsi. Grossomodo dieci anni dopo un concerto dei No Doubt finisce al centro di uno degli episodi di Dawson’s Creek. Possiamo certamente dire che a quel punto per Gwen e soci sputtanarsi non fosse più un problema, ma in fondo credo c’entri di più il fatto che DC avesse anche per loro un peso specifico diverso e quindi avesse senso esserci, anche solo per fare dei distinguo.

La domanda ora è: cosa resta oggi di Dawson’s Creek?
Basta guardare i primi quaranta minuti per restare nuovamente folgorati e capire come lo show abbia ribaltato in toto il linguaggio con cui la TV si prefiggeva di parlare ai giovani. I concetti erano gli stessi di sempre, ma esposti in modo completamente nuovo. Qualche tempo fa mi sono ascoltato la puntata dedicata ai Teen Drama di Pilota, un podcast sulle serie TV fatto da gente che ne capisce certamente più di me. Non ricordo i contenuti nello specifico, ma ho chiaro in mente di aver pensato stessero affrontando l’argomento senza rendere i dovuti meriti, credo solo perché DC non ha mai avuto la fama di Beverly Hills né l’hipsterismo ante litteram di OC (potrei risentire per essere più preciso, ma ho un problema serio con i podcast e dopo pochi minuti la sensazione di origliare discussioni altrui mi diventa intollerabile).
Parlando di me invece, superata l’eccitazione del rivedere le camicie di Pacey, i personaggi con le t-shirt oversize e la bellezza abbacinante di Katie Holmes, restano le vicende di un gruppo di persone a cui sono rimasto legato come mi è successo per pochissime altre serie TV, anche qualitativamente molto superiori.
Le storie di Capeside, come quelle di Scrubs e recentemente di Weeds, mi hanno lasciato un piccolo buco nel cuore.
Poi c’è la colonna sonora, perfetta sempre nel suo essere completamente anonima. Tonnellate di rock radiofonico senza identità che però cementano la storia nel suo tempo. Ciò nonostante, ci sono almeno due momenti musicali di Dawson’s Creek impressi nella mia testa, “That I would be good” di Alanis Morrisette e “Baba O’Riley“degli Who. Una bella botta di pelle d’oca anche solo a ricercarle su youtube.

Chiudo il pezzo rimarcando il proposito di proseguire il mio rewatch quindi, in attesa dei momenti migliori, che poi son tutti legati al personaggio di Joshua Jackson: dalla storia con Andie (stagione 2) all’ascesa (stagione 3) e caduta (stagione 4) del suo rapporto con Joey.
Il titolo del pezzo è preso da un dialogo tra Pacey e Joey, quando lui decide di lasciarla appena prima del ballo dell’ultimo anno.
Un irripetibile manifesto emo.

PS: non ho resistito e ho fatto una ricerca sul blog. A tema Dawson’s Creek ci sono un paio di pezzi datati 2005 e 2006.
Non li rileggo manco se mi ammazzate.

2017

Ho palesemente tergiversato fino ad ora perché in un post di fine anno non sapevo proprio cosa scrivere. Ho sentito una manciata di dischi e visto diversi film, ma credo non ci sia materiale a sufficienza per fare una top cinque in entrambe le categorie senza finire per infilarci roba che con la parola TOP ha poco a che vedere.
Pensavo di non scrivere nulla, anche perchè il post di fine anno migliore possibile l’avevano già scritto altri, ma alla fine mi tirava il culo saltare in toto l’appunamento, quindi pubblico un video preso dal disco che ho ascoltato di piú nell’ultimo mese.
É un bel pezzo, secondo me.

Sono grossomodo le 20 del 31 dicembre e sono giá in pigiama. Il fatto che non sia per forza di cose una roba triste é immagine perfetta del 2017.
Ci sentiamo l’anno prossimo.

Olivia

Alla domanda “Tu li vuoi dei figli?” io ho sempre risposto con un sì convinto. Faceva parte del progetto di vita che mi sentivo di costruire, a cui tendevo.
Mettere su famiglia.
Son quelle cose di cui magari non tutte le coppie discutono prima, molti se la vivono per come viene, ma io la mania del controllo e della pianificazione ce l’ho sempre avuta e fortunatamente mi son trovato una moglie con lo stesso disturbo. Entrambi volevamo dei figli ed entrambi ne volevamo due. E’ un po’ la risposta standard, no? Se parli di volere o meno dei figli prima di averne, di solito 2 è il magic number che viene fuori.
Il primo è nato due anni e mezzo fa, si chiama Giorgio e oggi è la prima cosa che mi viene in mente se penso ai motivi per cui dovrei alzarmi dal letto e vivere la mia vita. Mentre aspettavo che nascesse ero convinto che diventare papà sarebbe stata la più grande rivoluzione nella mia vita, ma non in chissà quale senso filosofico e astratto, io pensavo proprio alla mia vita di tutti i giorni. Basta uscire, basta viaggiare, basta dormire. Rinunce a cui ero disposto perchè fare un figlio era ciò che volevo di più.
Rinunce che però non ho mai fatto.
E’ ovvio i miei ritmi siano cambiati, anche se credo in questo pesi di più l’andare per i quaranta che non avere un figlio a casa, ma la realtà è che nonostante i presagi di sventura che mi ero disegnato in testa essere papà ha solo arricchito la mia vita. Ho continuato a dormire (ok, quello è culo), uscire e viaggiare.

All’inizio di questo 2017 Paola mi ha detto che poteva essere un buon momento per provare a fare un secondo figlio e io le ho detto sì. Il timing per la gestione dei due bimbi sarebbe stato ok e averli non troppo distanti di età era un’idea sensata.
Il giorno del mio compleanno Paola ha fatto il test ed era positivo.
Siamo in bagno e mi fa: “Sono incinta.”.
Io la guardo e rispondo: “Che cazzo dici?”.

Ho panicato.
Ho iniziato a pensare che tutto sommato in tre ce la stavamo cavando egregiamente e che perturbare la comfort zone che avevamo creato era a conti fatti un’idea del cazzo.
Ok, economicamente salvo disgrazie il secondo figlio non avrebbe impattato in maniera drastica, ma l’idea di dover rinunciare anche solo a qualcosina mi é parsa di botto inaccettabile.
Poi c’é Giorgio, che é un amore. E se la nascita di una sorellina lo sconvolge? Se me lo rovina?
Oltretutto io non posso non dormire. Dopo anni d’insonnia non ce la farei a tornare indietro. Giorgio non mi ha fatto perdere una notte, potrà mai andare così bene di nuovo?
Mi sono sentito come uno che ha vinto la lotteria e ha buttato via il biglietto fortunato.
Nove mesi di panico e agitazione covati sotto pelle, in silenzio.

Poi questa notte alla 1:17 è successo questo.

Ciao Olivia.
Tuo padre è un coglione, tocca che ci fai l’abitudine. Non è cattivo, ma tende a fare di cazzate problemi insormontabili e ci si rode dentro fino a che si rivelano, guarda un po’, delle cazzate. Si fa dei film assurdi il ragazzo, ma era sicuro che l’unico modo per superare il panico e le paure sarebbe stato vederti e abbracciarti.
E così è stato.

Da questa mattina, come per magia, ho due motivi per alzarmi dal letto.
Ed è bellissimo.

The Place spiegato bene

Se porti a casa un successo di critica e pubblico come quello di Perfetti Sconosciuti probabilmente hai la chance di fare il tuo prossimo film esattamente come pare a te. Senza compromessi.
Per Paolo Genovese questo vuol dire fare un film ambientato al tavolino di un bar e dove in 105 minuti non si ride mai. E’ talmente convinto a giocarsi questa opportunità fino in fondo che non ci incolla nemmeno due battutine da usare nel trailer, di quelle che con l’adeguata musichetta in sottofondo portano al cinema le persone*. Zero.
The Place, l’ultimo film scritto e diretto da Paolo Genovese, è una roba ambiziosa, drittissima e priva di mezze misure.
L’ho visto domenica sera e per me è probabilmente il suo film più bello.
Metto qui il trailer, così chi non sa di cosa sto parlando si fa un’idea e magari va a vederselo, mentre chi lo sa ha comunque una barriera che lo separi dai miei commenti sul finale, ovvero GLI SPOILER.

Scherzavo.
Ho passato un’oretta nel tentativo di buttare giù una sorta di spiega, ma alla fine ho realizzato che non è per nulla necessaria.
E’ tutto chiarissimo, dovete solo andare a vederlo.

* Il trailer di Perfetti Sconosciuti, per esempio, barava.

Same ginepraio, more cazzimma

Giorni fa, a seguito della faccenda Weinstein ho scritto un post. Ci ho messo tanto perchè volevo essere sicuro di non dire cose fraintendibili o che potessero in qualche modo prestare il fianco ad accuse di maschilismo o misoginia.
Ne è uscita una roba di cui ovviamente condivido anche le virgole, ma che glissava  (o forse non si soffermava a sufficienza) su certi aspetti che reputo comunque chiave nella questione.
Lo scandalo però non si è fermato ed ha coinvolto altri personaggi. Uno è Louis CK, un altro è Jesse Lacey. Sul secondo la mia lucidità è andata completamente affanculo, quindi ecco una sorta di remix del post precedente.

Partiamo da Louis CK.
Dopo le accuse, il comico ha pubblicato una dichiarazione in cui conferma la veridicità delle testimonianze e si assume le responsabilità delle sue azioni. Una parte di questa dichiarazione secondo me è piuttosto interessante. Cito:

At the time, I said to myself that what I did was O.K. because I never showed a woman my dick without asking first, which is also true. But what I learned later in life, too late, is that when you have power over another person, asking them to look at your dick isn’t a question. It’s a predicament for them. The power I had over these women is that they admired me. And I wielded that power irresponsibly.

Non importa che le donne in questione fossero consenzienti, il consenso derivava da un rapporto di potere che le stesse avrebbero percepito come forzatura. Louis CK quindi avrebbe dovuto valutare la cosa e scegliere per loro. “So che per te è ok che io ti mostri il cazzo, ma tu non lo vuoi davvero. Pensi di volerlo e sta a me che sono l’uomo capirlo e decidere al posto tuo che non è il caso.”
Il messaggio da portare a casa da tutta la vicenda quindi è che le donne non sono in grado di prendere decisioni in autonomia. Quella riportata qui sopra, per me,  è la cosa più maschilista di tutta questa faccenda. Accolta come l’ammissione di colpa accettabile per un comportamento inaccettabile, è in realtà una dichiarazione offensiva a giustificazione non necessaria di un comportamento magari non condivisibile, ma certamente non molesto.
Io non c’ero, quindi quello che è successo non lo so. So quel che ho letto, e per me vale la regola che mi ha insegnato mia nonna: “Chiedere è lecito, rispondere è cortesia.”, fatto salvo ovviamente che
1) la richiesta sia reale e non retorica
2) la risposta sia accolta e rispettata, senza conseguenze
Questi episodi invece hanno una montagna di non detti, di implicazioni presunte o potenziali su cui è facile costruire qualsiasi tesi, ma che di fatto non sono buone per nulla che non sia una bufera mediatica sui social. Il motivo per cui Louis CK probabilmente non lavorerà più (o comunque avrà problemi in tal senso), ma non avrà problemi legali. Almeno a quanto ne so.
A me resta sempre difficile pensare che un uomo che decide di fare “avances inappropriate” lo faccia sempre calcolando l’esatto rapporto di forza in essere in quel momento e non, più semplicemente, perchè non riesce ad ossigenare simultaneamente cervello e corpi cavernosi. Non è questione banale. Siamo davvero sicuri Louis CK in quelle circostanze ci abbia provato perchè conscio di giocare la parte del leone e non, più semplicemente, perchè è uno che se vede una bella donna non riesce a fare a meno di volerla portare a letto? Non è che il secondo scenario non sia grave o problematico, ma son davvero due piani  di esistenza completamente diversi. Soprattutto, non è che i due scenari siano mutualmente esclusivi. Il fatto che Weinstein caschi nel primo caso, non vuol dire ci caschino tutti o che il secondo non possa esistere. Facciamo dei distinguo, se è il caso.

Passiamo alla questione Jesse Lacey.
Mi trovo a dover commentare questa cosa partendo dal fatto che nella mia top 3 personale delle canzoni dei Brand New c’è “Me vs. Maradona vs. Elvis” e adesso cliccate sul link e ve la ascoltate leggendo quel cazzo di testo.
Non ha un significato diverso, oggi. E’ lo stesso identico autoritratto crudo e cinico che è sempre voluta essere e chi pensava fosse una sorta di inno al “bomberismo” probabilmente ascoltava i Brand New per i colori delle copertine dei dischi.
In una dichiarazione pubblicata oggi dallo stesso, Jesse ammette di essere stato a lungo in uno stato di dipendenza da sesso, cosa per cui si è già curato e da cui è già uscito. A costo di passare per fanboy miope, ci vedo una montagna di differenza tra chi allo scoppiare dello scandalo decide di andare in rehab (tipo Kevin Spacey) e chi lo ha fatto ben prima di finire sotto accusa.
Ora arriva la parte difficile da scrivere.
La ragazza che lo accusa parla di richieste di foto intime e situazioni avvenute via chat/skype. Non ce la faccio a percepirla come una situazione di cui si può avere paura, non riesco proprio. Quello che vedo e comprendo è il risentimento derivante dalla delusione di chi aveva dei sentimenti e se li è visti calpestare. Non è una cosa da poco, ovviamente, ma non è ammissibile trasformarla nella base per accuse di molestia. Creerebbe un precedente pericolosissimo, in questa dannata società plasmata dai preti. Provo a spiegarmi meglio.
Si parla tanto di “educare” gli uomini alla sessualità e ai rapporti con l’altro sesso. E’ davvero qualcosa di fondamentale, per me. Quel di cui non si parla mai però è di educare le donne, che ne avrebbero altrettanto bisogno.
Cresciamo le donne (non io, se dovessi farlo con mia figlia SPARATEMI) con l’idea che il sesso, anzi, che “darla via” sia una colpa senza appello, attenuata al massimo dal fatto che lui sia il vero amore, quello giusto, il ragazzo perfetto. Che ci si debba pensare bene prima di farlo, che si debba essere sicure. Questo perchè è una cosa di cui dover rendere conto.
Si parla di “pressioni psicologiche” subite dalle ragazze che accettano di andare a letto con un uomo, ma mai della pressione psicologica che le stesse hanno a dover ammettere sia stata anche una loro decisione. Il giudizio costante a cui sono sottoposte. In questo clima, davvero può bastare un “Eh, ma non volevo”  che sa più di giustificazione che di accusa, per mettere alla gogna una persona?
NON STO DICENDO CHE LE MOLESTIE NON ESISTANO.
Sto dicendo che la situazione è complessa e che affrontarla come viene affrontata ora è sbagliato. Non è una caccia alle streghe, quella in atto. E’ un rigurgito di mille situazioni diverse, in cui si deve iniziare a fare distinguo tra caso e caso. Weinstein non è Spacey, Louis CK non è Jesse Lacey e via dicendo. E invece stanno tutti finendo alla gogna nello stesso identico modo.

Lo so, c’è un elefante nella stanza. La ragazza aveva quindici anni e Jesse ventiquattro. Ovviamente è una cosa sbagliata. Moralmente, eticamente. Non c’è dubbio.
Per me la pedofilia però è un’altra cosa e credo ci sia un motivo se personaggi come Ian Watkins la stiano pagando in galera e non su twitter. Magari poi JL finirà sotto processo e verrà condannato. Magari quel che è venuto fuori è solo la punta di un iceberg che comprende fatti ben più gravi. Se così fosse, è giusto venga chiamato a rispondere delle sue azioni come sta succedendo a Steve Klein. Fino ad allora però, facciamo dei benedetti distinguo.

A differenza dell’altro post, questo l’ho scritto abbastanza di getto. Se sia o meno un bene non lo so. Mi piacerebbe che chi leggendo pensasse abbia scritto una montagna di cazzate poi me lo dicesse anche, perchè credo davvero parlare della cosa sia un bene assoluto. Molto del problema è culturale e credo che solo parlandone possa davvero venire a galla cosa c’è di sbagliato in quel che diamo per assodato sia normale.
Boh, magari sto giro succede davvero.

Ginepraio

Quando ho letto della faccenda Weinstein e delle accuse di Asia Argento avrei voluto scrivere due righe sul blog. Non che avessi chissà quale nuova prospettiva da illustrare, più che altro perchè avere un blog è sostanzialmente pubblicare opinioni personali non per forza necessarie e io, in merito, un’opinione ce l’ho. Alla fine invece ho lasciato andare senza dire nulla. Mi ci sono sforzato eh, a non scrivere. Il motivo? Quando si parla di molestie e sessismo si inasprisce ancora di più il meccanismo per cui le opinioni debbano sempre essere nette ed assolute, mentre io probabilmente ho bisogno di sfumature. Queste sfumature in una discussione finiscono sempre per venir stravolte, estrapolate a cazzo e usate per definirti come il peggiore degli stronzi. Dici “Weinstein è una bestia, ma…”* e se ti dice bene ti prendi del femminicida.
Mi succede da anni, quando si va in argomento. Tutto considerato è possibile io sia davvero il peggiore degli stronzi, ma resta il fatto che discutere di questo argomento è muoversi in un ginepraio. Sono alla terza quarta stesura del pezzo e ancora non so come uscirà. Scrivendo alcuni pensieri mi sono reso conto fossero cazzate e questo mi porta a pensare che non scriverne subito sia stato uno sbaglio. Mi conosco e so che mettermi al PC e stendere un post è il modo migliore che ho per riorganizzare le idee, eppure avevo (leggi: ho) davvero fastidio ad espormi.
In questi giorni però è venuta fuori la storia di Kevin Spacey e, mentre scrivo, quella di Dustin Hoffman. A sto punto parliamone, affrontiamo il ginepraio e usciamone nell’unico modo possibile.

Andiamo per punti, va.

  1. Kevin Spacey potrebbe essere un pedofilo, un molestatore seriale o semplicemente uno che una volta, ubriaco, si è trovato un ragazzino in camera e ha ipotizzato che questo ragazzino si fosse messo lì per provarci col grande attore. Ognuno di noi può farsi l’idea che vuole in base a quale racconto preferisca ascoltare, ma chi gli da da lavorare dovrebbe basarsi su qualcosa di più concreto e comprovato prima di rivedere le proprie posizioni. A meno che loro sappiano, ma a quel punto perchè fino a ieri non era un problema?

  2. Molti sottolineano il fatto che lui non neghi, ma quel comunicato a me da più l’idea di essere stato formulato su consiglio di qualche legale/manager che sperava pagasse la politica della “sincerità” con tanto di coming out finale a spostare l’attenzione.
    Così non fosse, il suo dire “non ricordo, ma se è successo mi scuso” presuppone che la situazione descritta da Rapp per Spacey sia plausibile. Il che non gioca a suo favore, ovviamente. Di nuovo, ognuno può farsi l’idea che vuole fino a che tutto resta nell’ambito delle disquisizioni da social.

  3. Il coming out. Ho letto di larga parte della comunità gay risentita perchè “facendo coming out tira in mezzo tutti gli omosessuali nelle sue porcherie”. Mi pare un’analisi incomprensibile.

  4. Si è innescato un domino. Forse è stato scoperchiato il vaso di pandora o forse il momento è così caldo mediaticamente che tutti i giornali e le riviste impieghino tantissime risorse alla ricerca di una nuova storia per cavalcare l’onda. Il fatto che in quell’ambiente non venga fuori nulla di meno recente del 1986, almeno per il momento, è strano, se l’obbiettivo è rompere il silenzio e cambiare le cose per davvero.

  5. Weinstein è una bestia

  6. Ma della vicenda Weinstein alcune cose andrebbero chiarite, alcune domande andrebbero fatte, senza dover passare per forza per quelli che danno addosso alle vittime. Asia Argento lo ha accusato dopo anni di silenzio perchè finalmente ha trovato la forza di parlarne. Brava. Poi fa riferimento ad altri episodi, ben più gravi e con diversi carnefici, ma di questi non fa i nomi. Credo sia legittimo chiedersi perchè. Non sto dicendo non sia vero, ma senza fare i nomi alla fine resta solo il gossip pruriginoso del “ce ne sono anche altri, chissà chi sono…”, buono per le discussioni dal parrucchiere.

  7. Ma assodato che nessuna attrice dovrebbe essere messa nelle condizioni di scegliere tra carriera e dignità personale, una volta che la scelta si pone è giusto che chi ha scelto carriera sia messa di fronte alle proprie responsabilità. Ancora, non si tratta di incolpare le vittime, ma di fare distinguo. Nell’ambito della ricerca da cui vengo io è prassi proporre a gente altamente specializzata ed istruita di lavorare gratis. Chi accetta di farlo, magari sulla base del fatto che se lo può permettere, alimenta un problema pur non essendone la causa.  Deresponsabilizzare in toto queste tipologie di scelta solo perchè “vittime” di un sistema marcio pre-esistente non aiuta a risolvere il problema.
    Attrici che non avendo accettato di farsi scopare da Weinstein non sono finite a ringraziarlo con in mano l’oscar immagino siano d’accordo con me.

  8. Ma credo che avere una posizione di potere in quell’ambiente ti porti ad essere costantemente circondato da donne bellissime che vogliono dartela e, ad una certa, immagino possa succedere di pensare che TUTTE le donne bellissime vogliano dartela, per finire a credere che TUTTE le donne bellissime DEBBANO dartela. Non è una giustificazione, ma credo sia importante capire cosa c’è alla base di un certo comportamento. Ho appena visto la prima stagione di Mindhunter.

  9. La cultura machista di cui la nostra società è pregna è un problema, ma lo sono anche i retaggi che ci portano a vedere il sesso come una cosa turpe, sporca e verso cui siamo completamente a disagio. Perchè posto nessuno dovrebbe permettersi avances inappropriate verso il prossimo, è altrettanto vero che se fossimo a nostro agio daremmo alla cosa un peso ben diverso. Una volta un tipo in discoteca mi ha strizzato il culo e messo le braccia al collo. Ho declinato l’offerta ridendo e lui ridendo se n’è andato. Ovvio che non ne avesse il diritto, ma se questa cosa fosse bastata a turbarmi psicologicamente credo sarebbe stato importante chiedersi perchè e non credo che interrogarsi sulle proprie reazioni implichi in nessun modo negare l’inadeguatezza del gesto subito.

  10. La cosa davvero brutta, è che tutta questa storia finirà in niente. Gente come Weinstein si godrà i miliardi scopando esattamente quanto prima e con le stesse premesse di prima. E noi finiremo a parlare d’altro.


* la storia del “se c’è il ‘ma’ sei un razzista/omofobo/whatever” è una puttanata che va bene FORSE a sedici anni. Cosa c’è dopo il ma fa tutta la differenza del mondo.

Ciao Elia, stammi bene

Sabato sono andato al Circolo Arci Ohibò di Milano per il live dei The Singer Is Dead, che presentavano il disco di cui vi ho parlato qui e che confermo essere gran bello, soprattutto ascoltato live.
Ho scoperto che la tessera ARCI ora scade a fine settembre, quindi l’ho fatta nuova. Il prezzo è ancora variabile da circolo a circolo, da che leggo online, e l’Ohibò la fa pagare 13 euro. Sono 3 euro in più di quanto la fa pagare il Magnolia, locale dove mi capita di andare molto più spesso, ma tutto sommato non è questo gran dramma per una tessera che mi permette di accedere a moltissimi concerti durante l’anno. Perchè ormai davvero tanti concerti medio piccoli passano dai circoli ARCI, quindi volente o nolente la tessera ti tocca farla ogni anno, se vuoi andare a sentir qualcuno suonare dalle mie parti.
Leggendo in giro su diversi siti non sono riuscito a farmi un’idea di dove finiscano i soldi della tessera, se ci sia una gestione centralizzata o se tutte le quote iscrizione restino in mano al locale che le fa sottoscrivere. Da quanto ho capito io si tiene tutto il locale, che si riserva il diritto di scegliere quanto farla pagare.
Oltre alla tessera mi hanno chiesto 5 euro di ingresso.
In tutta onestà la sera in cui fai la tessera l’ingresso potrebbero anche evitare di fartelo pagare, visto che statisticamente ci saranno un tot di persone che si iscrivono in un certo circolo per poi magari non andarci più per tutto l’anno. Paghi la tessera ed entri, la volta dopo paghi l’ingresso. Non mi pare sia una proposta folle, ma vabbè.
In soldoni il concerto mi è costato 18 euro.
Conosco un tizio piuttosto fissato col concetto di pagare la musica e quando scrive di queste cose fa i conti in modo preciso. Io non ne ho voglia, posso solo dire che 18 euro per una serata come quella di sabato sono fuori dalla mia comprensione, seppur riconosca che gran parte della spesa in realtà non è per il concerto in sé, ma per garantirmi la possibilità di andare a dei concerti futuri, se e quando li faranno (che scritta così è raccapricciante in ogni caso).
Ho chiesto a Luca se li hanno pagati per suonare e mi ha risposto di sì, quindi quantomeno spero dietro ci sia una sorta di etica sul retribuire equamente band non professioniste che ti portano introiti.
Al netto di tutto questo, chiedermi 6 euro per una IPA media che faceva oggettivamente schifo al cazzo e servita male in un bicchiere di plastica non ha nessuna giustificazione plausibile.
Uscito dal locale ho provato per 15 minuti a smanettare con Instagram e fare una IGStory come i rapper, dissando il circolo Ohibò e tutta sta storia dei prezzi, ma ho realizzato di non essere manco capace di fare le IGStories.

Ad ogni modo, la cosa bella di tutta questa storia (e il reale motivo per cui mi son messo a scrivere questo post) è che dopo i The Singer is Dead hanno suonato i Malkovic e mi sono piaciuti una cifra.
Soprattutto un pezzo, che mi ha proprio preso benissimo.
Dopo il concerto sono andato al banchetto e ho comprato l’EP di 4 tracce che avevano lì e che è l’unica cosa che hanno registrato fino ad ora.
Manco a dirlo, il pezzo che mi ha conquistato sull’EP non c’è.
Ho comunque fatto due chiacchiere con il cantante al banchetto e poi via messaggio su Facebook e ho scoperto che la canzone che cercavo si chiama “Colossus” e uscirà nel 2018 insieme ad un video e forse un disco.
Forse perchè la situazione al momento è che quello di sabato è stato l’ultimo concerto di Elia, il loro batterista, e adesso dovranno cercare un sostituto.
Grazie, Elia.

Nel dischetto dei Malkovic ci sono quattro tracce. Su youtube si trova il video di Carlo e quello di Ufo, che dal vivo mi è piaciuta tanto tanto.
Il mio pezzo preferito però è questo qui e si chiama Tre.

Un pippone sui concorsi

Diciamo che sei un PI, alias Principal Investigator, e dirigi un tuo gruppo  di ricerca nell’ambito life science (1) in Italia.
Diciamo che sei bravo: lavori in maniera accurata, pubblichi risultati rilevanti su riviste peer reviewed (2)  e porti avanti una linea di ricerca utilizzando grant (3) che con ogni probabilità ti sei dovuto procurare da solo. Per stare ad un buon livello infatti, soprattutto nel nostro Paese, procurarsi fondi non statali da associazioni ed organizzazioni varie è vitale perchè i contributi ministeriali sono pochi e mal distribuiti.
Hai i tuoi soldi, quindi, ma difficilmente lavori nel tuo soggiorno. Spesso sei “ospite” di spazi statali, ospedalieri o universitari, dove puoi usufruire di locali idonei e, se ti va di lusso, di strumentazione comune. Questa cosa ha un prezzo, ovviamente, che spesso comporta tra le altre cose il rimandare all’amministrazione della struttura la gestione dei tuoi fondi. Se interessa (4), questa cosa può essere analizzata da tanti punti di vista, ma quello che credo sia importante alla luce delle tante discussioni di cui leggiamo in questi giorni è il risvolto legato ai contratti dei collaboratori: assegni di ricerca, borse per dottorati e via dicendo.
Torniamo al nostro amico PI.
Per lavorare ai livelli di cui sopra è essenziale che si circondi di un team di persone valide e degne di fiducia che possano aiutarlo. Menti brillanti che portino idee e risultati alla causa, ma anche mani precise che si occupino dell’esecuzione pratica degli esperimenti, lasciando a lui il tempo di scrivere progetti e articoli volti a raccogliere nuovi fondi. Siccome stiamo ragionando per ipotesi, questo PI vuole addirittura pagare i collaboratori (!!!) usando la porzione di finanziamento appositamente allocata per i salari (5).
Ora prendiamo un laureando, costretto ad almeno 12 mesi (6) di lavoro in laboratorio continuativo e non retribuito per costruire la propria tesi sperimentale. Questa tesi, il cui contenuto è deciso ovviamente dal PI, può costituire parte di un progetto già in essere dove un po’ di manovalanza gratuita fa sempre comodo, ma può anche essere usata per generare dati preliminari volti a gettare le basi per la stesura di un progetto più ampio.
Quindi, riassumendo: il laureato lavora gratis in lab per più di un anno producendo i dati necessari a strutturare un progetto ed il PI usa quegli stessi dati per farselo finanziare in termini di materiale consumabile, eventuale strumentazione e personale. E ce la fa, ottiene i soldi.
A questo punto sarebbe facile no? Il PI ha in casa una risorsa che:
– conosce il progetto e ne ha gettate le basi
– è ormai perfettamente integrata nell’ambiente lavorativo
– gode della sua fiducia e si è dimostrata elemento valido
– cerca una borsa come fosse ossigeno per iniziare in qualche modo a pagarsi la vita.
Perfetto, peccato che IL CONCORSO.

Nei dieci anni in cui ho militato nella ricerca accademica, a diversi livelli, sono stato pagato sempre (7) ed in moltissimi modi diversi.
Sono rientrato dalla Germania vincendo il concorso per una borsa ministeriale volta all’inserimento in azienda: due anni di assegno di ricerca pagato dall’università per farmi entrare in azienda e portare avanti un progetto accademico. A win-win-win (8) situation, per dirla in inglese. L’università vince perchè usufruisce della struttura e dei mezzi di un’azienda per un proprio progetto, l’azienda vince perchè ha una persona pagata da altri che all’atto pratico viene fatta lavorare anche (in realtà soprattutto) su progetti propri e il ricercatore vince perchè alla fine dei due anni l’azienda avrebbe grossi sgravi fiscali nell’assumerlo e stabilizzarlo.
Io ho vinto quel concorso in modo ultra trasparente: non conoscevo nè la professoressa che lo ha indetto nè l’azienda in cui sarei finito a lavorare. Gli altri candidati erano per la maggior parte neo-laureati o comunque non avevano un CV che potesse competere.
Avrei comunque potuto perderlo, venire dalla Germania apposta per farmi passare avanti da qualcuno che magari ricalcava il profilo descritto qui in alto. Sarebbe stato giusto? Ovvio che no, ma la mancanza di rispetto sarebbe stata più che altro nel farmi perdere tempo (e nello specifico i soldi del viaggio).
Anche per entrare in dottorato mi sono sparato un maxi concorso (9) e anche in quel caso per me fu tutto regolare, infatti entrai per miracolo.
Concorsi “pilotati” però ne ho visti fare tanti. Tutti, senza eccezione, volti a fare in modo che il PI potesse dare i suoi soldi al collaboratore da lui scelto come fa qualunque capo in qualunque realtà non statale, sempre nell’ottica di fare il meglio per il proprio gruppo e la propria linea di ricerca.
Come per altro funziona in larghissima parte delle altre realtà scientifiche mondiali.

Sto descrivendo scenari, non sto ad entrare troppo nel dettaglio o a discutere obbiezioni idiote tipo: “Se il candidato è tanto bravo perchè non vince il concorso?”, la questione è complessa ed il pezzo già abbastanza noioso.
Il punto è che un capo dovrebbe poter scegliere i suoi collaboratori come meglio crede, soprattutto se i soldi con cui intende pagarli sono “suoi”. Forse è proprio questa la questione su cui riflettere: perchè un capo laboratorio dovrebbe mai infilare un raccomandato, magari incapace, nel suo team?
Non sto dicendo che non succeda, ben inteso, sto dicendo che il problema è da spostare a monte del concorso e delle assegnazioni, sta piuttosto nel fatto che per molti professori italiani essere competitivi scientificamente, pubblicare e perpetrare il modello virtuoso di cui ho scritto, non è necessario.
Una delle prime cose da fare quindi sarebbe chiedersi: “Come mai?”.
E rimediare.


(1Avrei potuto scrivere Capo Laboratorio e Scienze della Vita, ma tradurre forzatamente termini tecnici che nell’ambito sono di comune utilizzo non ha senso, quindi ti becchi le note e alla peggio impari qualcosa.
(2Si tratta di riviste scientifiche a cui si spedisce il proprio lavoro e questo viene valutato da un organo di revisione esterno, composto da altri scienziati estremamente competenti nel campo in cui il lavoro si colloca e provenienti da tutto il mondo. Chi manda il lavoro non sa da chi verrà valutato, ma le opinioni del comitato saranno poi inviate all’autore a corredo della decisione di pubblicazione o non pubblicazione dell’articolo presa dall’editore. Se ci sono i presupposti, l’autore può rispondere ai dubbi sollevati dal comitato fornendo ulteriori dati e portare quindi l’editore a rivedere un’eventuale risposta negativa. Non è un sistema infallibile ed esente da problematiche, ma diciamo che è più facile far peggio che meglio.
(3Qui potevo tranquillamente scrivere fondi, mi son fatto prendere la mano.
(4LOL
(5Quando si scrive un progetto e lo si presenta perchè venga finanziato si chiedono fondi per il personale che sono distinti da quelli per l’acquisto del materiale o della strumentazione. Per quello spesso ricercatori pagati con fondi privati o esteri che non passano per la gestione statale possono avere salari più alti.
(6Di solito sono ben più di 12 mesi, io ad esempio ne ho fatti 17.
(7Non è merito mio ed è una roba piuttosto peculiare nell’ambito. In ricerca non pagare chi lavora è pratica talmente diffusa che nessuno si mette nemmeno a trovare giustificazioni idiote tipo “pago in visibilità”.
(8Lo so, di solito si dice win-win situation e probabilmente c’è una ragione reale perchè anche in quel caso finì per essere una win-win situation, ma non sto a spoilerare quale dei tre win venne meno. Col senno di poi, una delle migliori cose che mi siano successe è stato vedersi negare quel win.
(9) La storia l’ho raccontata qui e qui dieci anni fa. #FeelOldNow