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Ricordi

Io non sono come Mendez

Entriamo nel locale sul presto.
Non si capisce mai quando i concerti inizino davvero nei locali milanesi. Ogni tanto arrivi che i gruppi stanno ancora facendo il check mentre altre volte entri che son già a metà set.
Per non rischiare, questa volta siamo arrivati presto. Sul palco c’è un tizio che non ho mai visto. Strimpella due note in croce col basso prima di dire al fonico che è ok e passare al setup del suo microfono. Un calvario. E’ troppo alto, troppo basso, c’è troppo eco, va alzato in spia, no meglio riabbassarlo, così fischia, togli l’eco, era meglio prima. Il fonico impazzisce a stargli appresso per almeno dieci/quindici minuti, ma alla fine il tutto sembra soddisfare il tizio sul palco, che da il suo ok e mette fine al check.
Il locale si riempie, io e i miei amici ci beviamo una birretta e si fa l’ora dell’inizio del concerto.
Il gruppo sale sul palco ed il tizio del check imbraccia di nuovo il basso. Attaccano il primo pezzo e quello che si rivela essere il bassista tira immediatamente il microfono, con tutta l’asta, sul pubblico. Glielo recupererà a fatica uno dello staff, ma per tutta la restante parte del concerto il tipo lo userà solo ed esclusivamente tra un pezzo e l’altro per insultare i presenti.
Il locale è il Rainbow club di Milano, il gruppo sono i Derozer e il bassista in questione si chiama Mendez. L’anno è probabilmente il 1998 o giù di lì.
Via all’RVM.

Venerdì sera al Live di Trezzo son tornati i Derozer per la prima data di un nuovo reunion tour. Ci sono andato. Mendez invece è stato a casa sua perchè a questa reunion non ha intenzione di partecipare, almeno stando a quello che ha scritto sulla sua pagina facebook:

Ciao a tutti,
in questi giorni mi hanno contattato molte persone per avere notizie sul ritorno dei Derozer.
Ci tengo a precisare che per quanto mi riguarda NON PARTECIPERO’ a questo “Reunion Tour”.
Il gruppo non esiste più già da molto tempo e purtroppo non ho voglia di condividere NULLA con personaggi con cui non ho più NIENTE in comune.
Buona fortuna!!!

Il comunicato è nello stile del personaggio, quindi la situazione potrebbe essere molto meno compromessa di come viene fuori, ma non necessariamente. A sostituirlo l’altra sera c’era Paletta, per il resto del tour ci penserà il bassista dei Duracel. Seby a fine concerto ha comunicato che Mendez non ci sarà per sua scelta, che nessuno lo ha cacciato e che se vorrà potrà tornare quando e come vuole perchè loro “hanno ritirato la maglia come ha fatto il Milan con Baresi”. Il comunicato citato qui sopra però non mi pare altrettanto possibilista.
La domanda ora é: come sono i Derozer senza Mendez?
Boh.
Come ho già detto altre volte, per me ci sono canzoni che ha sempre e comunque senso andare a sentire dal vivo e almeno un paio di queste sono dei Derozer. Cantarle a un metro dal palco col dito alzato vale il rientrare alle due e mezza consci di doversi alzare alle sette, vale lo stare circondato di ragazzini puzzolenti a torso nudo, vale farsi schiacciare i piedi e farsi piantare i gomiti nel costato a quasi 35 anni, vale bere una birra di merda e vale pure sorbirsi playlist di sottofondo con gli Ska-p. Vale grossomodo tutto e quindi, io, mi sono divertito. E’ però innegabile che non sentire nessuno gridare alla folla “Diskotecari di merda” o “Astemi” ad ogni pausa, in costante rissa verbale col pubblico di fronte, lima e non di poco la portata della cosa. Un concerto dei Derozer senza Mendez quindi è davvero un’altra roba, al netto dei pezzi. La sua è stata una presenza iconica per cui fatico a trovare un corrispettivo in termini di impatto sul pubblico / peso specifico nel suono del gruppo. Non c’è nulla di diverso in come suonano, ma li vai a vedere e sono un’altra band.
Cosa si sia incrinato (se si è incrinato davvero qualcosa) non è dato saperlo e conta il giusto. Uno come me, che ha sempre cantato convinto “Alla nostra età” senza averci mai avuto troppo a che fare, prima anagraficamente e poi concettualmente, fatica un po’ a comprendere un certo tipo di coerenza, quella che fa dire “basta” o “no” ad operazioni della risma di questo secondo reunion tour. Di mio quando sento Seby dire: “Avevamo voglia di andare in giro a suonare questi pezzi e ci sembrava giusto farlo, senza obbligare nessuno e senza farci condizionare da nessuno”, boh, lo capisco. E si trattasse solo di alzare qualche euro lo capirei lo stesso anche se, non so perché, credo nel caso specifico questo possa essere magari uno dei fattori, ma non quello portante.
Di conseguenza si va avanti, ognuno con la propria strada. La prossima volta che suoneranno in zona probabilmente andrò meno volentieri di Venerdì scorso, o forse passeranno ancora quattro anni e avrà comunque senso presenziare per sentire quel paio di pezzi che avranno sempre il potere di trascinarmi fuori casa o farmi pentire di non averlo fatto.
Già che ci sono uno di questi lo butto qui sotto, perché parla tutto quello che ho provato a scrivere io in questo post, ma lo fa meglio di quanto abbia fatto io.

I vent’anni di Heavy Petting Zoo

“Heavy Petting Zoo” è il secondo disco punk-rock che ho comprato in vita mia. L’ho ordinato a Pick Up, il negozio che allora mi vendeva i CD, e c’erano volute delle settimane prima che mi arrivasse. Giovanni, il padrone, non aveva idea di che roba fosse e ricordo che, quando me lo consegnò, guardando la copertina fece un mezzo sorriso.
Mia madre non reagì allo stesso modo.
Da un figlio adolescente ti aspetti prima o poi delle preoccupazioni e quindi se un giorno ti torna a casa brandendo un disco con in copertina un tizio che molesta una pecora, credo sia legittima un po’ di perplessità. Sono i primi anni del liceo, hai appena smesso di essere uno studente modello per abbracciare il culto della sufficienza risicata e ora te ne esci con questa cosa del punk-rock. Da lì a drogarsi è un attimo. Sbaglierò, ma ad una certa i miei erano convinti mi drogassi.
Ho iniziato ad ascoltare un certo tipo di musica perchè suonava veloce e carico. Accendevo il walkman e mi andava in circolo l’adrenalina. Non era il messaggio, non c’era volontà di ribellione. Nichilismo, rabbia, emarginazione? Zero. I testi di quelle canzoni avrebbero potuto dire qualsiasi cosa, non lo capivo e non mi importava. Il processo era del tutto irrazionale, emotivo, e convogliava l’energia propria dell’adolescenza. Per dirla con una famosa citazione sentivo “una forza dentro di me che neanche io so spiegare come“.
E mi prendeva bene.
La musica aveva soprattutto lo scopo di farmi stare bene. Non è sempre stato così, ma lo è spesso e lo era sicuramente in quegli anni lì. Quando ti infili dentro la musica, quando ascoltare un disco non è il sottofondo a quel che fai, ma quel che fai e basta, è come quando bevi. Ti tira fuori quel che sei davvero e fa venire a galla le emozioni che quotidianamente filtri sotto tonnellate di sovrastrutture comportamentali. Credo sia la ragione principale per cui, su di me, il metal o il grunge non hanno grossomodo mai funzionato: io puntavo stare bene.
La prima volta che ho ascoltato HPZ, ovviamente da una cassetta duplicatami non saprei nemmeno bene ricordare da chi, per me fu una sorta di illuminazione. Bastarono 3’58” per definire con chiarezza che quello era ciò che avrei voluto ascoltare a ripetizione per i prossimi giorni, che diventarono poi mesi ed anni. Hobophobic parte drittissima e ti centra come una sberla. Schiacci PLAY e nei primi, boh, 10 secondi ti arrivano in faccia i Nofx, tutti insieme. Il basso, la batteria velocissima, la voce di Mike, le chitarre e quei cori armonici (?) così diversi dagli uo-oh da singalong puro che avevo conosciuto con gli Offspring. Un manifesto completo ed esaustivo in 10 secondi ad aprire un pezzo che prosegue senza sosta, senza pause, con quei colpi di tom pesantissimi e quelle rullate messe apposta per impedirti di riprendere fiato. Non hai letteralmente il tempo per capire cosa stia succedendo perchè quando pensi di aver preso le misure, di iniziare a orientarti, dopo 48 secondi convulsi, è tutto finito. Di botto. Come qualcuno avesse premuto un interruttore. Te ne resti lì come dopo uno di quei flash che quando ti capitano nella vita non sei sicuro di averli visti o sentiti davvero.
Ed è a quel punto che arriva lo xilofono.
Un jingle stupidissimo di xilofono è l’ultima cosa che mi sarei mai potuto aspettare dopo una partenza così ed è su quel primo “Bleah” che credo di essere definitivamente capitolato. Bandiera bianca e resa incondizionata. Fate di me ciò che volete, avete vinto voi. Vi amo. Ho passato mesi a consumare quel disco e ogni volta che lo ascoltavo lo trovavo semplicemente perfetto in ogni aspetto.
Oggi invece sono diversi anni che non lo ascolto, anche rispetto ad altri dischi dei Nofx. Quando ho deciso di buttar giù questo post ho provato ad andare a memoria e mi sono sorpreso di quanto fosse annebbiato il ricordo che ne ho in testa. Mentre scrivo non ho la minima idea di che pezzo sia “What’s The Matter With Kids Today?”. Non me la ricordo proprio e la cosa mi infastidisce a diversi livelli. Quindi mi prendo una pausa e mi riascolto il disco.

Madonna, che bomba di disco.
Alla fine non mi ricordavo davvero un mucchio di cose, ma quella che forse mi ha colpito di più è la voce di Mike. Non saprei dire, ma ho sempre avuto l’impressione che la sua voce su questo disco fosse diversa, in qualche modo, da quella presente in tutti gli altri. La prima volta che ho ascoltato “Punk in Drublic”, dopo mesi di monoteismo devoto a HPZ, l’ho fatto da una cassetta che sul lato B aveva i Rancid (Credo “Let’s go” [uno dei dischi invecchiati peggio tra quelli che ho in casa. L’ho messo in macchina un paio di anni fa e ci son rimasto malissimo. Radio sempre clamorosa però.].). Ricordo che al primo ascolto del nastro avevo il dubbio su quale dei due dischi fosse quello dei Nofx perchè in nessuno dei due riconoscevo la voce. Oggi mi sembra inconcepibile poterli confondere, ma fu così.
Io credo ancora che HPZ sia uno dei migliori dischi che i Nofx abbiano mai pubblicato. Probabilmente per una band che incide da più di vent’anni sempre lo stesso album sul gradimento personale pesa molto l’ordine cronologico con cui li si approccia, ma è pur vero che il disco con gli abusi sessuali alle pecore è diffusamente ritenuto un loro mezzo passo falso. A torto, ovviamente.
Nel booklet di “So long… and thanks for all the shoes” c’è una sorta di sezione FAQ in cui i nostri sostengono di aver registrato HPZ con l’idea di farlo piacere ad MTV. La cosa fa ovviamente sorridere, ma potrebbe non essere così lontana dalla verità. Ho sempre pensato che il “non avercela fatta” a finire nel turbine del punk-rock da televisione degli anni ’90 sia stato meno voluto di quanto i Nofx abbiano sempre cercato di sbandierare, almeno fino a questo disco qui. I soldi poi sono arrivati comunque e l’immagine di band integra che non si piega ai giganti della discografia ha contribuito molto nel farli arrivare, ma non scommetterei fosse quello il piano di partenza.
Resta il fatto che questo disco, additato da molti se non come il loro tentativo di vendersi, certamente come un disco troppo lento per piacere, contenga in realtà alcuni pezzi che non potrei mai togliere dalla (lunga) lista i miei preferiti in assoluto: “The Black and White” con la sua ritmica incredibile, “Bleeding Heart Disease”, “Hot Dog In A Hallway” (che è un titolo oltre il geniale) e la conclusiva “Drop the world”, con quella tromba che quando entra, ogni volta, mi mette addosso una pelle d’oca spessa un centimetro. Nel 1996 le mie preferite erano “Love story” e “Release the hostages” (che resta sempre un gran pezzo).

Questo disco oggi compie vent’anni.
I Nofx nel 2016 sono sempre gli stessi, solo più vecchi. Ho visto recentemente alcuni inediti della prima stagione di “Backstage passport” e, per quanto possa essere triste, vederli fare certe cose oggi mi mette addosso il malessere. Le ultime volte che li ho visti suonare (ormai anni fa) mi han dato l’idea di non reggere più il tiro della loro stessa musica, oltre che il peso delle sostanze che assumono prima di suonarla. Qualche mese mi è capitata sott’occhio un’intervista di Mike per i 25 anni della Fat Wreck e ascoltandolo non puoi fare a meno di pensare sia ancora un tipo tutto sommato stimabile, ma che forse i neuroni abbiano iniziato ad abbandonare la nave. E poi c’è la storia del calcione al fan sul palco, che probabilmente non ho mai digerito del tutto.
Eppure ancora oggi i Nofx sono quella band di cui nessuno parla né scrive su internet per sbrodolare dei bei tempi andati (presenti esclusi), ma che quando passa a suonare raccoglie un consenso ed una partecipazione trasversali. Come al liceo sapevano mettere insieme chiunque, dallo skater wannabe al fissato coi sex pistols, oggi richiamano sotto il palco un pubblico assolutamente eterogeneo. Ragazzini e quarantenni, gente che ha smesso di ascoltare questa roba da lustri e gente che ha iniziato ieri, oltre a chi, ovviamente, ci crede oggi come ci credeva nel 1996. Se pensate all’inossidabile ed invariabile scaletta che da vent’anni viene suonata nelle cosiddette “Discoteche Rock”, i Nofx sono l’unica band presente che non passasse anche per radio o in TV e qualcosa questo vorrà pur dire.

Io non ascolto più i Nofx da tantissimo tempo, ma ogni volta che mi capitano in mano i dischi vecchi mi sento davvero un fesso ad averli mollati a prendere polvere su una mensola. 
In ogni caso, quando mi arriva un messaggio o una notifica di qualche tipo sul telefono, parte un jingle stupidissimo suonato con lo xilofono.

MTV Generation

Disclaimer: il titolo di questo post va pronunciato come foste Fred Durst.

Ieri su twitter è partito un fenomeno di revisionismo storico a tema MTV, il canale musicale che ha fatto da sfondo ai pomeriggi di moltissimi ex-ragazzi che oggi navigano nell’intorno dei 35 anni. Alla base di questa ondata di ricordi c’è la notizia vera o presunta dell’imminente ribrendizzazione (che bella parola, soprattutto scritta così, scevra di qualsiasi riferimento anglofono) di quello che oggi è il canale in chiaro di MTV, ovvero MTV8.
Premesse d’obbligo:
– Non ho idea se la notizia sia, appunto, vera o presunta.
– Non ho idea se MTV8 sia davvero un canale esistente oggi sul digitale terrestre, nè se questo sia davvero il discendente di MTV.
– In generale se ci fosse un decimo del fact checking sbandierato per sta vicenda in una qualsiasi delle situazioni della vita che richiederebbero davvero un fact checking, si starebbe tutti meglio.

Il punto è che al grido di #AddioMTV molti di noi si sono sentiti in diritto ti ripescare a piene mani dalla memoria per tirare fuori aneddoti e ricordi appartenuti ad un tempo in cui si stava tutti meglio. E quando ce la lasciamo scappare un’occasione per scivolare nella dolce malinconia dei giorni che furono? Io personalmente mai. Credo di aver iniziato con questa attitudine che ero ancora minorenne. Una vita proiettata costantemente indietro, che ha come faro il nume tutelare del “quando eravamo giovani”: Max Pezzali.
Così via libera a citazioni, immagini e ripescaggi improbabili. Certo, ogni cinque twit in argomento toccava leggere l’immancabile intervento di quello che “Eh, MTV è morta da dieci anni e ve ne accorgete solo ora” che ci sta nella misura in cui il mondo è evidentemente sovrappopolato, ma tutto sommato seguendo l’hashtag di cui sopra saltavano fuori robine di un certo spessore.

E quindi eccomi qui, col pensiero che forse due parole su MTV sarebbe anche carino scriverle.
Io MTV l’ho guardata tanto, davvero tanto, dai primi anni novanta fino ad un punto imprecisato in mezzo agli anni zero. Scrivo sforzandomi di non usare google per ricordare come andò, ma se la memoria non mi inganna è possibile la guardassi prima che nascesse ufficialmente come MTV Italia, cosa a quanto pare successa nel 1997 (sì, ok, ho usato google alla prima frase dopo aver detto che non l’avrei fatto. That’s me.).
Negli anni novanta tenere sotto controllo i canali musicali era di vitale importanza, perchè delineavano la linea netta ed incontrovertibile che separa il bene dal male. Tutto ciò che passava su MTV era commerciale e la roba commerciale andava disprezzata. Un manifesto chiaro, preciso ed inappuntabile.
Ai tempi della dicotomia MTV / TMC2 era al più lecito seguire la seconda, almeno per quanto riguarda la mia etica personale, ma ancora una volta unicamente sulla spinta dell’antagonismo radicale verso i VJs, TRL e compagnia. Che poi, se MTV Italia è nata nel 1997 e TMC2 è morta tipo nel 2000 (sto giro non googolo, ricordo di aver seguito l’ultimo giorno di trasmissioni su TMC2 con un forte dispiacere e di averne parlato alla mia morosa di allora che, giustamente, pensava fossi scemo a dare tutto sto peso alla cosa.), la battle of the brands (mi escono così) è stata molto più breve di quel che ricordassi.
Dicevamo, MTV come parametro di riferimento per dare una faccia al nemico. D’altra parte, lo dicevano pure i NOFX nel booklet di Heavy Petting Zoo: “No Thanks to: MTV” e siccome il nemico dei miei idoli era il mio nemico, discussione chiusa.
Col tempo però mi sono ammorbidito un tot nei confronti del canale musicale per antonomasia e ho iniziato a trovarci del buono. Tipo:

Ecco, lei era buona.
Mi ricordo ancora quando una sera partì un programma in diretta da Roma e condotto da Mao, non saprei dire il titolo, e Valeria, da sempre bionda, si presentò in studio mora, spiegandomi nel dettaglio il concetto di amore.
E’ un peccato che tra noi le cose non abbiano funzionato e lei si sia ostinata ad ignorare la mia esistenza negli anni in cui ero single (non proprio 2 su 34 eh, carina, avresti avuto margine cazzo…). C’est la vie.
Tornando ai lati positivi di MTV, il primo ed inarrivabile è l’avermi permesso di vedere Scrubs. Non so se vi ricordate la campagna mediatica con cui MTV aveva spinto il lancio della serie. Ne parlavano sempre, a tutte le ore ed in ogni contesto. Clip a sorpresa ogni 15′. Un martello. Quell’anno facevo già l’università e uscivo tutte le sere. Andavo con gli amici nel parcheggio di fronte a casa eh, non proprio nella movida milanese, ma ero fuori sempre. Tranne il giovedì, perchè c’era Scrubs. Le prime due stagioni di Scrubs sono la cosa migliore mai uscita da un televisore. Poi è diventato “solo” una roba oltremodo divertente, ma le prime due stagioni CAPOLAVORO, col caps lock.
Se lo chiedete a me MTV ha sempre dato soddisfazione soprattutto quando non trasmetteva musica.

Non solo però. Ad un certo punto, ad anni zero ormai inoltrati, la sera mi guardavo Brand: New e Sgrang! (si chiamava così il programma wannabe musica pesa? EDIT: No. Accentosvedese mi ricorda che il programma “peso” di MTV era Superrock. Sgrang! Stava su TMC2.). Ore di sciroppamento di musica alternativa comunque fastidiosa per beccare una tantum un video capace di svoltarti l’esistenza. Tipo. Ma anche. Va riconosciuto che quantomeno quello di Coppola fosse un bel programma. L’unico che ricordi, a conti fatti.

La fascia pomeridiana è sempre stata il peggio, anche una volta conclusa la mia parentesi di antagonismo a priori. Total Request Live. I danni che ha prodotto TRL sono incalcolabili. Erano gli anni del boom dei Blink 182 e Giorgia Surina, che sta alla musica quanto io sto a lei, li accostava a qualunque cosa avesse delle chitarre e/o velleità simpa. “Una cosa alla Blink” passava da elogio a dura critica ogni santo giorno in cui ella volesse spingersi al commento tecnico/tattico su uno dei pezzi passati nel programma. I riferimenti musicali di Giorgia Surina credo si componessero unicamente di U2 e dei tre singoli di Enema of the State. Fine. In coppia con Maccarini e poi con Cattelan riuscì nel non difficile compito di criminalizzare la parola EMO, regalandoci fenomeni come i LOST. Se la morte delle tv musicali implica non dover più assistere a cose tipo questa, è davvero avvenuta troppo tardi. Maccarini l’ho incontrato al Milano Whisky Festival un paio di mesi fa. Chi si sconvolge leggendo che i nati nel ’98 quest’anno diventano maggiorenni (cit.) dovrebbe incontrare per caso Maccarini nel 2016 e dare un senso reale al proprio sconvolgimento.

Una volta sono stato ad un programma di MTV, Supersonic o forse solo Sonic, conduceva Silvestrin. Enri lo usava palesemente per tirar dentro a suonare gruppi che piacevano a lui. La sera in cui ho presenziato io c’erano in cartello gli Undeclinable e Max Gazzè. Ricordo che avevo scritto in redazione chiedendo di poter partecipare per vedere i primi e mi invitarono. Forse perché l’unico (non è vero dai, c’era un altro tipo li per loro e mi aveva tirato un pippone sul dramma della cancellazione della prima data italiana dei New Found Glory.). Andai con Ciccio, che per l’occasione si era preso un paio di adidas che a detta sua avevano solo lui e un qualche personaggio di spicco dell’alternative mondiale. Silvestrin aveva la maglietta dei The Get Up Kids. Io ero probabilmente vestito come al solito. Fu bello, tutto sommato, ed è un peccato non ci siano tracce di quella puntata su youtube. La cosa mi suggerisce che forse non fu mai trasmessa. Ci starebbe.

In qualunque modo la si metta, MTV è stata un pezzo importante della formazione della mia generazione. Non so se fosse il caso di ingigantire una notizia o inventarsi un ipotetica ribrendizzazione (volevo riscriverlo, scusate) per parlarne. Certo è che una paginetta a tema su questo blog ci sta e, senza questa circostanza, probabilmente non sarebbe mai uscita. E forse per una volta sarebbe un peccato perché pur non avendo riletto ho l’idea mi sia uscita benino.

Il non ventennale di un non disco.

La prima volta che ho visto suonare le GAMBEdiBURRO dev’essere stata nel 1998. Ho delle immagini in testa di quella sera: un oratorio, delle bancarelle, delle finestre, un seminterrato, mio padre che mi ci porta e io che scendo dalla macchina vestito come un coglione. No, davvero, ci ripenso oggi e sento crescere dentro un imbarazzo che associo a pochissime altre situazioni. Doveva essere primavera, o autunno, perchè avevo addosso dei pantaloni corti che mia moglie oggi fatica ad accettare usi in casa come pigiama estivo, ma al contempo non doveva fare proprio caldo perchè ci avevo abbinato una giacchetta violacea comprata usata in un mercatino di Monza noto ai più come “le vecchie”. Dio mio.
Ricordo anche che Robi Burro aveva il cappellino e una maglietta a righe, che con me c’era Orifizio e che lui conosceva Raffaele. Hanno attaccato con “Irene” e io ho avuto immediatamente la sensazione fossero il gruppo più importante e imprescindibile di sempre.
Questi ricordi potrebbero non essere del tutto reali. Col tempo potrei aver fuso insieme immagini da situazioni diverse, riassemblato le mie memorie all’interno di un quadro che mi risulta coerente, ma che potrebbe non esserlo per niente. Forse non era nemmeno il 1998. Che rimasi folgorato invece è un fatto.

Il primo demo delle GAMBEdiBURRO è uscito in cassetta nel 1997. La mia copia in origine era di Gerry, un tipo di Monza che girava col Wrangler della Jeep, saltando via le rotonde e uscendo dai parcheggi scavalcando i marciapiedi. A me però l’aveva regalata Azzurra. Avevo conosciuto entrambi in vacanza con l’oratorio, nel periodo in cui realizzavo la mia parrocchia fosse un avamposto CLino e iniziavo a prenderne le distanze più per le persone di cui era composta che non per un reale problema nei confronti di Dio. Gerry e Azzurra erano a posto peró. Lui era più grande di me, lei più piccola. Una di quelle ragazze che quando ci uscivi insieme speravi di incontrare amici e parenti per darti un tono, cosa che probabilmente sarebbe stato più furbo dirle nel ’97 piuttosto che scriverlo qui sopra oggi.
Non saprei dire che fine abbiano fatto, nessuno dei due,  ma resta il fatto che circondato di piccoli apprendisti del punk-rock nella quotidianità scolastica, il demo delle GAMBEdiBURRO a me è arrivato in mano da una fighetta, amica di un tamarro, sul finire della mia militanza passiva tra le schiere di Don Giussani. Fact, again.

Il demo si intitola BABBAZBABBAZBABBAZ e inizia con “La maglietta dei los Ramones”. No. Inizia con un estratto da un qualche B movie italiano feat. Bombolo che non saprei neanche collocare. Io quella roba non l’ho mai guardata, né quando funzionava nel giro del punk-rock monzese, né quando ha iniziato a funzionare in generale sulla scia di rivalutazioni tarantiniane prese un po’ alla buona.
Mentre scrivo non mi ricordo con precisione chirurgica l’ordine delle tracce nel demo e forse potrei anche sbagliare qualche titolo. Per esempio il secondo pezzo potrebbe essere “Diplomato ritardato” oppure “Marziano”, che a sua volta potrebbe in realtà intitolarsi “Ho un marziano per amico”. Di certo il pezzo numero 3 è “La ragazza che io amo”, che è anche il mio preferito di tutto il demo.
“Oggi appena sveglio ho chiuso nel
Cassetto un altro di quei sogni che
Io faccio sempre assieme a lei che
È UN CHIODO FISSO NEL MIO CUORE”

E via di ritornello, come da titolo del pezzo. Io non ce l’avevo manco per sbaglio, ai tempi, una “ragazza che io amo”, ma era bello pensare che le cose sarebbero cambiate e avrei presto potuto gridarle in faccia quelle strofe, alzando il dito come facevo sotto il palco ogni volta che andavo a sentire le Gambe. Un’adolescenza costruita su pochi capisaldi tra cui troneggiava l’idea di morosa, un concept in continua evoluzione, ma sempre ben chiaro in testa. Su questa cosa anni dopo le stesse GAMBEdiBURRO avrebbero scritto uno dei loro pezzi più fighi e l’avrei trovato divertente e molto calzante con la mia teen-age. Nel 1997 però non c’era proprio niente da riderci su.
Su BABBAZBABBAZBABBAZ c’é anche “Astronave” con il suo perentorio onetwothreefourfivesixseveneight. Un pezzo che parla di emarginazione, disagio giovanile, critica alla società in cui viviamo e voglia di riscatto. O forse solo di un tipo che vuole tornare sul suo pianeta (oh yeah). Non credo il messaggio debba essere per forza di cose la chiave di lettura di un disco. Eppure giravano storie sui testi di questo demo. Ricordo che qualcuno, probabilmente Orifizio, mi raccontò che dietro “Diplomato ritardato” c’era il fatto che uno dei quattro membri fosse stato riformato a militare sulla base del test psicoattitudinale. Non credo sia vero, ma mi piace pensare di sì.
Nel 1997 io e i miei amici morivamo dal ridere ogni volta che sentivamo “Iena”. Ogni volta. Quel “Sei simpatico sai” ci ammazzava. E poi era un altro pezzo che non potevi non cantare, sempre gridando, sempre puntando il dito. Se mi fermo a pensarci non ricordo se la suonassero ai concerti. Magari non negli ultimi, ma forse sul principio si. Di sicuro noi la cantavamo in ogni possibile contesto: in macchina, in casa, alle grigliate, in vacanza. Ogni volta che ci si trovava e si ascoltava musica insieme.
“Lui adesso non può più
Mangiare la marmellata
Alle ciliege perché…”

E poi l’attacco. I salti. Il casino. Ci si divertiva un tot, ai tempi, con queste cose. Non che ora meno, si è solo più composti o forse meno propensi ad esternarlo.
Ricordi legati a questo demo ne ho davvero una camionata. “Sarah cialda croccante” è un capodanno surreale, Bazzu, dei mandaranci e una tipa di Besana. “GODSIGMA” è il liceo, le elezioni per i rappresentanti di istituto, l’autogestione. E potrei continuare, tra le prime vacanze con gli amici, l’Arengario e le serate all’Arci di Arcore. Tutte storie connesse in qualche modo a BABBAZBABBAZBABBAZ.

Oggi le GAMBEdiBURRO non esistono più. Da un lato la cosa è comprensibile, dall’altro non lo è per niente. A quanto mi risulta ognuno dei membri ancora suona in un qualche gruppo punk-rock, nella maggior parte dei casi roba che non ho praticamente mai sentito. Ho questa convinzione non sia più la mia cosa. Una sorta di blocco psicologico. Dopo il demo le GAMBEdiBURRO hanno pubblicato un 7 pollici intitolato “SUPERBABBAZ” e un disco vero, “Senza via di scampo”. Tutti capolavori, anche se il miglior pezzo di sempre l’hanno registrato (male) per una qualche compilation di fine millennio scorso di cui non ricordo il titolo. L’ultima volta che li ho visti suonare fu per la reunion del 2007 al Bloom, ad oggi nella mia personale top 3 dei concerti della vita. Ci ho preso una maglietta bianca con scritto GAMBEdiBURRO che metto ancora regolarmente, mentre la t-shirt che avevano stampato nel ’99 mi si era letteralmente sciolta addosso una sera d’estate mentre giocavo a calcetto nel parcheggio davanti casa con alcuni amici. La cassetta di BABBAZBABBAZBABBAZ ce l’ho ancora, come più o meno tutti i demo di cui mi ero riempito la camera in quegli anni. Senza una motivazione precisa l’altro giorno ci sono rifinito sotto pesantemente. La misura di questo blog sta nel fatto che, nel pieno delle celebrazioni ai ventennali dei dischi, io scrivo di un demo che ha diciotto anni e mezzo.

Il Martini-Vodka col dry fa abbastanza cagare

Tra i sedici ed i diciotto anni non è che leggessi tantissimo. Qualche libro d’estate, tipo Wilbur Smith o i gialli di mia madre, ma niente di più. Il motivo era essenzialmente legato al fatto che i libri che mi assegnavano da leggere i proff. del liceo li snobbavo a prescindere sulla scia di un paio di tentativi fatti in buona fede e finiti nella mestizia. Non leggevo nemmeno riviste. In casa mia non ne giravano e a scuola l’unica che circolava (o quantomeno l’unica che vedevo circolare) era Metal Hammer, materiale con cui ero sicuro di non voler entrare in contatto. Leggevo PK e Topolino, a volte qualche articolo sull’inserto del Corriere che compravano i miei, ma era roba estemporanea. Di solito la pubblicazione in questione mi finiva in mano sul cesso e la prima passata era sempre volta ad individuare servizi fotografici di vallette in cerca di visibilità. L’analisi dei contenuti arrivava solo in assenza di servizi dedicati alla strappona di turno e, quindi, abbastanza di rado. L’argomento lettura non era nemmeno fonte di dialogo con gli amici o i compagni di classe. Ci si passava dischi e videogiochi, a volte videocassette, ma non riesco a ricordare una discussione del tipo “oh, devi troppo leggere questo libro perché è fighissimo” fatta in quegli anni.
E infatti, al libro probabilmente più importante della mia adolescenza, ci sono arrivato perché un pomeriggio con gli amici siamo andati al cinema. C’era questo film con protagonista uno sconosciuto Stefano Accorsi ed una sconosciuta Violante Placido. Niente di che, il film, ma il fatto che parlasse (anche) di un gruppo di liceali punk-rocker wannabe era stato sufficiente a tenere viva l’attenzione e parlarne poi a scuola, il lunedì. Così viene fuori che qualcuno ha addirittura letto il libro da cui era tratto, questo “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, e gira persino voce sia (cito a memoria): “tutto diverso dal film perché, alla fine, nel libro Alex mica se la scopa, Aidi!”. C’è curiosità, così passo in biblioteca, ne ritiro una copia e me la leggo.
SBAM.
Libro della vita.
Non ha molto senso che io stia qui a snocciolare i motivi per cui, intorno ai sedici anni, un libro come quello potesse colpire al cuore uno come me. Sono piuttosto ovvi, in verità. Quel che mi andava di scrivere è che da quel momento io quel libro non l’ho più ripreso in mano, essenzialmente per paura. Una cosa che hai letto a sedici anni e ha contribuito in maniera sensibile a cambiarti la vita non è facile da riaffrontare una volta cresciuti perchè, insomma, c’è da mettere in conto la possibilità di essersi fatti formare da un libro stupido, infantile o, peggio di tutto, brutto. Essere disposti a verificare una cosa del genere non è facile come scriverlo. Io, infatti, ho deciso di prendermi il rischio ben oltre i trenta, con una moglie ed un figlio a referto e quindi solo una volta raggiunto il centro pulsante della mia comfort zone.
Ho riletto “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” e, signori, resta un gran libro.
Non è come ascoltare un pezzo degli Ska-P e sentirsi completamente idioti perchè una volta addirittura si pagava per andare a vederli dal vivo. In un ipotetico incontro tra il me di oggi ed il me del 1996, il primo darebbe al secondo una pacca sulla spalla e gli direbbe qualcosa come: “Bravo, ne sai.”, magari formulata meglio, ma forse nemmeno troppo.
C’è chi dice sia un libro derivativo, ma come mi accade quando si parla di musica è una critica che non capisco. Per me è come andare da Bolt e dirgli: “Sì ok, bravo, però l’ Homo Erectus…”. Una volta parlavo di Brizzi e mi rispondevano subito “…ma l’hai letto Salinger?” e io sucavo perchè no, non l’avevo letto, quindi non mi potevo permettere di far presente fosse un ragionamento del cazzo sminuire un’opera semplicemente sulla base del fatto che ce ne fosse una simile antecedente. D’altra parte è pieno di gente che reputa inammissibile mi piacciano i Finch, ma non i Deftones.
Long story short: ho riletto Brizzi a 34 anni, mi è piaciuto ancora un botto e continuo a ritenerlo il romanzo della mia generazione. L’ho pure comprato, perchè una copia fisica in casa non ce l’ho mai avuta. Un domani potrei farlo leggere a mio figlio, non perchè lui debba ritrovarcisi (spero di no, anzi, che si viva il suo di tempo), ma perchè mi piacerebbe sapesse come sono cresciuto e cosa avessi in testa quando ero adolescente. Perchè quel libro parla essenzialmente di quello.
Il titolo del post deriva dal fatto che nel film il vecchio Alex e Martino ad un certo punto ordinano due Martini-Vodka, chiedendoli espressamente: “col dry”. Una volta l’ho fatto anche io e credo sia la cosa più disgustosa mi sia capitato di bere, il che nel mio caso è statisticamente rilevante. Pensandoci, il Martini-Vodka col dry è la versione primordiale, punk e drammaticamente fallimentare del recente e fortunato “Se vuoi fare il figo, usa lo scalogno”.

Nota: questa è tipo la terza volta che riscrivo da capo questo post. Non è una cosa comune, almeno per me, perché di solito se un post non mi esce di getto come lo vorrei lo cancello e finisce lì. Ho insistito perchè è una cosa a cui tengo e, come sempre accade, quando ho delle aspettative su un pezzo non mi esce MAI come l’avrei voluto.

La famiglia

Il 31 luglio del 2012 Tony Sly aveva suonato da qualche parte in Europa prima di rientrare in hotel e non svegliarsi mai più. Io non lo conoscevo, ma questa cosa su di me ha avuto un certo impatto. Da quando celebrare il lutto è diventata una pratica social, ogni volta che qualche personaggio pubblico lascia questa terra io mi ritrovo con metà dei miei contatti intenti a celebrarne la scomparsa e l’altra metà a postare, ciclicamente, la stessa tavola di Zerocalcare. Io non me la sento di dire quale delle due fazioni sia nel giusto, non lo so, ma posso certamente dire che di Tony Sly a me importava più di quanto mi importi di metà abbondante dei miei amici su Facebook e questo è un fatto. Ha influenzato la mia vita, ne ha fatto parte. Potremmo raccontarci che questo tipo di relazione sia unidirezionale, visto che solo uno dei due protagonisti della storia conosce effettivamente l’altro, ma non è così. Ogni volta che Tony Sly ha preso in mano una chitarra per dire qualcosa, l’obbiettivo era dirla a me. Non sapeva chi fossi, ma era certo (o forse si augurava soltanto) che da qualche parte ci fossi io pronto ad ascoltarlo. Ero la ragione che lo spingeva a fare quello che amava fare. Non so come funzioni per voi, ma nella mia vita le persone che mi spingono a fare ciò che faccio hanno una certa importanza. Quindi ecco, se lo chiedete a me, sentire il peso per quella scomparsa è del tutto normale. Sacrosanto, anzi.
Ad un anno dalla morte di Tony Sly è uscito un disco. E’ una raccolta di suoi pezzi, suonati da diverse persone della scena di cui ha fatto parte. E’ l’unico disco che io abbia mai pre-ordinato in vita mia. Quando mi è arrivato l’ho messo in macchina e l’ho ascoltato. L’ultima traccia è “International you day”, la suonano Joey Cape e gli Scorpios e si chiude con la dissolvenza del pubblico che grida “Tony”. Sentirla quel giorno mi ha annodato di nuovo la gola e inumidito gli occhi. Di quel disco oggi mi rimangono l’adesivo “Never forget Tony Sly” attaccato sullo stereo di casa e il ricordo di quel groppo in gola. Ditemi voi che senso potrebbe mai avere mettersi qui a scrivere del fatto che sia o meno un buon disco.

Poco fa sono uscito dal cinema dopo aver visto Fast & Furious 7. Domani ci saranno sicuramente un sacco di siti e blog che ve ne parleranno in maniera critica, analizzandolo da un punto di vista cinematografico. Sulle pagine che di solito leggo io immagino qualcuno ne parlerà bene perchè tutto sommato il ritmo è sempre alto, ci sono tante scene di combattimento e la ricerca dell’eccesso introdotta da Lin nella serie trova una certa continuità in questo settimo episodio. Credo ci sarà anche gente che ne parlerà male, sottolineando uno script talmente lacunoso da risultare offensivo, un uso della CGI completamente illegittimo e una totale mancanza di cura nella regia dei tanti combattimenti, inquadrati sempre da troppo vicino. Alcuni potrebbero spingersi in un’analisi sulla presenza o meno delle auto, che ormai a conti fatti sono il fulcro della saga solo per alcuni aficionados. Forse ci sarà anche chi proverà a collegare i limiti del film al peso che la scomparsa di uno dei protagonisti ha avuto sulla lavorazione dello stesso. Tutto giusto.
Come ogni volta che vado al cinema, anche questa sera ho pagato il biglietto in cerca di qualcosa. A spingermi è stato lo stesso bisogno che mi ha portato a pre-ordinare il disco di cui sopra. Sentivo il bisogno di un’ultima corsa con Brian O’Conner. Il primo Fast & Furious io l’ho visto quando è uscito, Arcadia di Melzo in Sala Energia. Ci ero andato insieme agli amici con cui, a casa, consumavo i joypad in sfide a Tokio Xtreme Racers ed eravamo ovviamente in sala per le macchine. Quando mi sono ritrovato di fronte un tizio in vans e pantaloni corti a fare il protagonista la folgorazione è stata immediata. A vent’anni non saprei dire se fosse più una cosa tipo: “Lui è uno come me” oppure “Voglio dannatamente essere come lui”, ma da quel momento per il sottoscritto Fast & Furious è sempre stato Brian. E le macchine. Guidavo (e guido tutt’ora) una Yaris, ma il sabato pomeriggio mi capitava di andare con gli amici in negozi specializzati in tuning. Compravo qualche cazzata tra le poche che potevo permettermi da studente e la montavo in macchina. Era una cosa giusta perchè il tuning non era pratica da zarri tipo elaborare il motorino. Brian aveva definito inequivocabilmente che era roba per gente a posto. In inglese dicono “role model”.
Questa sera ero all’Arcadia in Sala Energia. Con me c’erano gli stessi amici del 2001 tranne uno, impegnato a casa con il figlio di tre giorni. In più questo giro c’erano mogli e compagne, perchè la vita va avanti, continua e ci ha portati tutti a diventare adulti, nostro malgrado. Negli ultimi minuti sullo schermo è passato l’omaggio che tutti sapevamo ci sarebbe stato. Sento il groppo, mi si inumidiscono gli occhi. Dentro di me penso di passare per coglione a commuovermi per Fast & Furious. Guardo più volte la Polly come punto di riferimento perchè, cazzo, lei piange ogni volta che sullo schermo passa qualcosa di anche solo vagamente toccante, ma ovviamente questa volta niente e così io mi sento ancora di più fuori luogo. Dentro di me però so benissimo di essere andato al cinema per quello e, di conseguenza, sono contento.
Non so se usciranno altri Fast & Furious. Non so se li guarderò. Se lo farò sarà per vedere un film, quindi poi magari in seguito ne parlerò come si parla dei film, belli o brutti.
Oggi ero al cinema per omaggiare il tipo con le vans.
Ed è quello che ho fatto.

Mancherai tanto.

Un flame sulla reunion dei Mineral

C’è questa cosa che i Mineral tornano a suonare assieme.
Siccome in questi giorni BASTONATE fa la settimana grindcore, io penso che parlare della cosa sia un buon modo per infilarmci in mezzo a buffo e così scrivo giù due righe riassumibili con “La reunion dei Mineral è la cosa migliore che ci possa capitare in questo 2014”. Invio il pezzo a chi di dovere e il risultato è una lieve divergenza di opinioni.
Ci sta.
Su twitter però il verbo del potevano risparmiarselo si spande a macchia d’olio e siccome come dice AleBU a me internet fa male, inizio una sorta di crociata sul tema rispondendo più o meno a chiunque si discosti anche marginalmente dall’entusiasmo cieco. Non mi basta. Ero partito con l’idea di scriverci un post sopra e così ci scrivo un post sopra, sul mio blog, che ormai è praticamente l’ultima opzione che mi do quando decido di scrivere qualcosa.
Vi racconto una storia.
Anni fa si sono riuniti i Get Up Kids. Hanno suonato in giro per qualche mese, poi hanno inciso un disco di rara bruttezza e hanno chiuso il giro sciogliendosi di nuovo. In quella parentesi è capitato passassero da Bologna e così anche uno come me che dal vivo non li aveva mai visti ha potuto colmare la lacuna e spararsi un concerto che sicuramente nel 2000 sarebbe stato meglio, ma che mi ha lasciato in ogni caso senza voce e con un sorriso idiota stampato in faccia.
Oggi, quando penso ai Get Up Kids, per prima cosa mi viene in mente il disco della madonna che è Something to write home about e poi penso al concerto. Tristezza per il disco orrendo post reunion? Non pervenuta. L’unico punto negativo di tutta la faccenda è che dal vivo non avevan fatto “Forgive and forget”, per il resto la bilancia quasi si ribalta lato pro.
Per darvi un’idea.
Quindi ok, sarei potuto nascere in Texas e magari oggi non avrei da colmare il vuoto di non aver mai visto una band come i Mineral dal vivo. Forse oggi vivrei armato, farei il mandriano e non sentirei la FOTTA per questa reunion, ma anche senza entrare nel merito di quanto sarebbe effettivamente una figata questa cosa, io non capisco cosa cazzo possa esserci di negativo dall’avere una band figa in più da andare a sentire. Cristo santo, quando da ste parti esce mezzo disco che prova male a copiarli, i Mineral, non si contano le persone che sbroffano e gridano al miracolo. Però l’idea che quelli veri possano anche per sbaglio fare un disco nuovo getta il panico tra i presenti. Anche facesse schifo, non è che lo sovrainciderebbero sulla copia di TPOF che tutti dovreste avere a casa.
Ci sono tonnellate di band che non hanno mai smesso e che si trascinano disco brutto dopo disco brutto forti di un esordio che, in molti casi, non vale la metà di quello di cui stiamo parlando. I Mineral il loro bel disco inutile l’hanno già fatto. Dopo di quello hanno deciso di sollevarci dalla pena di una lunga carriera di paragoni infelici. Minchia GRAZIE. Anche solo per questo io un’altra chance gliela do volentieri.
Il problema vero è la paura e la paura ci castra.
Altra storia, vado a capo.
La ragazza più figa del tuo liceo ti incontra quindici anni dopo e muore dalla voglia di farti un pompino.
Puoi accettare.
Oppure puoi dirle che no, preferisci ripensare a quando era più giovane e senza quelle piccole rughe. Ammazzandoti di seghe.
Ecco, per me non c’è gara, pur conscio che scoparla a 18 anni sarebbe stato probabilmente meglio.

Stare bene

Sono in metro senza molto da fare e in queste situazioni internet diventa un pozzo senza fondo. Il cappello di un mago da cui è facile estrarre una serie di fazzoletti colorati legati l’uno all’altro. Ognuno tuo. E così tiri e tiri con la curiosità di vedere cosa uscirà dopo, conscio che una fine non c’è.
A volte emergono cose che non ricordavi connesse ad altre che non avevi notato, che avevi rimosso o che ti eri sforzato di non vedere. Per come sono fatto io, sprofondare nella malinconia è un attimo, a quel punto.
Ma oggi no.
Oggi fuori c’è il sole e così esco dalla metro con un disco nelle orecchie e un sorriso sulla faccia.
Perché a costo di dare torto al comandamento unico di Max Pezzali, ieri non è per forza di cose meglio di oggi o di domani. L’ultima volta che ho pensato una roba del genere non è stato molto tempo fa e non sono passate 24 ore prima che la vita venisse a mettere alla prova le mie certezze. Pesantemente. Ed è difficile scrivere qualcosa che possa sembrare ottimista per uno che, da sempre e ancora oggi, ha paura del futuro. Intorno vedi cose che, effertivamente, ti spaventano. La pressione sale, ti chiedi se e come ce la farai e non hai una risposta. Non puoi averla e non devi cercarla. Non è affatto detto che tutto debba andare bene.
Oggi però non vedo perché dovrebbe andare male e questa, per me, è una vittoria.

Alla fine questo resta a tutti gli effetti il mio diario ed è bello tornare per una volta ad usarlo come tale. Niente domande per favore, non mettetemi nella condizione di non rispondere.

I vent’anni di un disco fondamentale

Esattamente venti anni fa usciva questo disco.



Ultimamente pare non si possa proprio fare a meno di celebrare gli anniversari a tema musicale. A volte con iniziative belle, altre volte con iniziative brutte, troppo spesso con iniziative inutili e pretestuose. Dal 2011, ogni tre mesi parte il treno degli omaggi al ventennale di un passaggio a caso della vita di Kurt Cobain. Settimana scorsa l’ultimo della lista, celebrato worldwide con più adesioni del Natale. A proposito, per chi dovesse sentirsi perso all’idea che l’anniversario del suicidio di Kurt Nostro possa chiudere in qualche modo il ciclo, ricordo che a Giugno fa 25 anni Bleach.
Questo sproloquio iroso per dire che nonostante l’omaggio agli anniversari musicali sia a dir poco abusato nell’intorno temporale in cui ci troviamo, io mi prendo del tempo per celebrare il disco più importante della mia vita. Non il più bello, non quello che ho ascoltato di più, ma certamente il più significativo ed imprescindibile. E’ un omaggio che sentiremo e faremo in pochi. La cosa genera un po’ di quel senso d’orgoglio e appartenenza ridicolo, ma ci sta perchè con gli Offspring mi son fatto tutto il giro: pride a tredici anni, shame a ventitre, di nuovo pride passati i trenta.
Il 1994 è stato l’anno zero della musica e ha dato i natali a tre dischi fondamentali. Del primo si sarebbe dovuto parlare a Febbraio, ma per me è quello meno rilevante, mentre il terzo, il più bello, compirà vent’anni a Luglio.
In mezzo c’è, appunto, Smash e adesso lo racconto per come lo ricordo.
Il disco parte con il tipo che spiega con che approccio affrontare l’ascolto, ma io questo l’ho scoperto quando ho sentito il CD per la prima volta, ben oltre il 1994. Mi ero copiato la cassetta di Ciccio su un nastro da 90′ e, nel farlo, avevo anteposto il Side B al Side A. Avessi capito anche solo mezza parola di inglese, ai tempi, forse me ne sarei potuto accorgere. Non fu così. Il monologo di “Time to relax” oggi lo so a memoria, a differenza di quasi tutte le altre canzoni del disco di cui, a mente fredda, non saprei ricordare poi molto del messaggio. Non so se l’intento di attaccare un disco punk-rock suggerendo di mettersi comodi e rilassarsi fosse o meno ironico, l’esegesi del testo la lascio perdere volentieri. Fa sorridere che per me, ai tempi, era impossibile pensare di ascoltare una roba così senza saltare per casa rimbalzando contro i muri, mentre oggi sdraiarmi sul divano e ascoltare un disco è l’apoteosi del relax, quali che siano il disco ed il suono che ne esce.
Il primo pezzo vero è “Nitro” ed è, tutt’oggi, uno dei più fighi dell’intera discografia degli Offspring. Bello veloce, con una buona melodia e tutti gli Stop&Goes necessari a fare genere allora. E poi ci sono “Uooo-oohhh” a pioggia, che quando sei giovane e non sai l’inglese fanno comodo per sfogare la voglia di cantare. Una bomba.
La seconda traccia è “Bad Habit” e avrò già raccontato cento volte di come mi abbia iniziato al pogo, quindi non sto a riprendere il concetto. Sparo invece altri due aneddoti. Il primo è che sempre in virtù della cassetta di cui sopra, per me “Bad Habit” s’è intitolata “Nitro” per diversi anni. Il secondo è che anche un ignorante come me sapeva che alla fine c’erano un sacco di parolacce e, da bravo ribelle in erba, me le ero imparate.
“Gotta get away” non mi piaceva tanto perchè era un pezzo lento. Oltretutto c’era il video che girava su TMC2, quindi era commerciale.
Avanti con “Genocide”, capolavoro ineguagliabile. Tutt’ora il mio pezzo preferito degli Offspring nonostante quelle fucine creative di Noodles e Dexter ne abbiano usato il riff principale per tirar fuori almeno metà della loro discografia. Il bridge (?) con quelle martellate pesantissime mi distruggeva ogni volta e, ancora oggi, se capita di sentirlo mi gasa parecchio.
Il disco corre, ed è difficile la vita per un pezzo come “Something to believe in” che, a tutti gli effetti, serve solo a separare “Genocide” dal primo singolone di Smash. La soluzione scelta è infilare una sequela ineguagliabile di “Uoooh-oooh” e, come si può immaginare, vince facile.
Siamo a “Come out and play”. Non l’avessi sentita suonare praticamente in tutti i locali “rock” in cui sono stato in questi vent’anni e da tutte le band liceali più scarse e ingiustificabili con cui sono entrato in contatto, probabilmente mi piacerebbe ancora. La prima volta in vita mia in cui ho potuto mettere mano su una batteria, istintivamente, ho provato a rifare quell’attacco, picchiando un po’ ovunque non ci fossero le pelli. Per la cronaca, fu anche una delle ultime volte.
Di “Self esteem” non ci sarebbe neanche da dire nulla. Pezzo clamoroso anche questo. Il fun fact in merito è che pensavo si chiamasse SELF EXTREME e immaginavo parlasse di essere estremi. A volte mi chiedo se sia davvero necessario espormi così, gratuitamente, al pubblico ludibrio.
La canzone successiva si intitola “It’ll Be a Long Time” e mentre scrivo il pezzo non mi viene in mente come faccia, quella seguente è “Killboy Powerhead” che invece ricordo benissimo, ma scopro solo ora essere una cover. Dopo ancora c’è “What happened to you?”. Mi piacerebbe dire che è un pezzo che mi ha sempre fatto cagare come solo lo SKA può farmi cagare, ma sappiamo tutti che sarei un bugiardo. E se anche non lo sapessimo tutti, lo saprei io, quindi non si può proprio. Pezzo più debole del disco, certo, ma non così brutto. Specie per un gruppo capace di cose come “Why don’t you get a job?”.
Il finale è tutto un crescendo. “So Alone”, “Not the one” e “Smash”. Madonna, che bomba atomica che è la traccia che da il titolo al disco.
“I’m not trendy, asshole”.
Da sola, questa frase, mette in fila tutte le brillantissime bio di twitter con cui ci troviamo a convivere tutti i giorni.
Il disco finisce lì, anche se c’è spazio per una chiusa nuovamente a carico del tipo che parla e per un motivetto simpatico sul riff di “Genocide”. Mi pare di ricordare ci sia anche una ghost track con un secondo motivetto strumentale, derivato da “Come out and play”, ma non ci scommetterei. Di solito io riprendevo l’ascolto dall’inizio immediatamente dopo la fine di Smash.
Questo è il mio personale e sentitissimo omaggio al disco più importante della mia vita e l’ho scritto abbastanza di getto e senza troppe riletture, nonostante l’idea sia di pubblicarlo tra diverse ore, allo scattare dell’8 Aprile. Non so quanti percepiscano un disco in maniera così cruciale come io faccio con Smash. Un disco capace di generare, da solo, quel cambiamento radicale che innesca il processo di crescita e formazione tipico dell’adolescenza.
Spero in tantissimi, perchè è davvero una sensazione bellissima.

PS: nello stesso giorno in cui Smash fa vent’anni, Manq ne fa 33 ed è una di quelle coincidenze assurde che rendono la vita affascinante.