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Ricordi

Once upon a time #4

Ci sono cose la cui grandezza è determinata dal fatto di essere spartiacque.
Ci pensi e puoi immediatamente definire un prima e un dopo che in condizioni “normali” sarebbero separati da un lungo percorso di evoluzione e che invece hanno in mezzo solo una scintilla, un piccolo evento capace da solo di stravolgere lo stato delle cose e innescare un cambiamento radicale.
Il cambiamento può non essere duraturo, la svolta può venire riassorbita negli anni, ma non sarà mai possibile dimenticare quando c’è stata e cosa ha comportato.
I Video Music Awards di MTV sono stati lo show musicale più rilevante nel mondo per almeno dieci anni. La musica come spettacolo celebrata attraverso la massima espressione del concetto, ovvero i premi ai videoclip.
Fino a quando è durata (non ho idea se esistano ancora, per dire, ma scommetterei sul no) sono stati un costante tentativo di fare le cose in modo sempre più grosso e spettacolare, senza omettere quella voglia tutta americana di “dare scandalo” con provocazioni all’acqua di rose che però infilate nel gigantesco megafono dell’evento riuscivano a far parlare i giornali per giorni.
Da Madonna che “bacia” Britney Spears e Christina Aguilera (ref.) fino a Miley Cyrus e Robin Thicke (ref.) tutta roba abbastanza innocua, buona giusto a far venire il prurito ai ragazzini e a far parlare l’america conservatrice.
Nel 2009 un artista riuscì a ribaltarne i paradigmi e simultaneamente mettere un punto fermo alla questione, arrivando dove nessuno prima di lei e ponendo l’asticella ad un’altezza irraggiungibile per tutto quello che sarebbe stato dopo, compresa se stessa (ref.).

Once upon a time nasce come rubrica di manq.it che racconta momenti che hanno fatto la storia della musica. O forse la storia in generale.
L’uscita di Once upon a time #5 è da considerarsi una missione, perchè lo scopo di questa rubrica ormai è proseguire fino a quando finalmente troverò il video di Madaski al Roxy Bar.

You break my heart into a thousand pieces and you say it’s because I deserve better?

Dicono che internet sia un posto giovane, ma in realtà non lo é più di quanto lo sia Gessate. Come nella “vita vera” alla fine tendi a circondarti di tuoi simili, al più sgrammato di alcuni dei paletti dettati dalla quotidianità, finendo a leggere e frequentare posti da quarantenne conscio che i giovani veri, grazie a Dio, stiano da altre parti a mangiare le pastiglie della lavastoviglie.
Con questo bias gigante sulla schiena ti trovi, anno domini 2018, a constatare che cose come la morte della cantante dei Cranberries o il ventennale di Dawson’s Creek abbiano una rilevanza reale nel tuo intorno digitale e per qualche secondo il tuo subconscio ti sinsiga con pensieri tipo: “Hai visto? Avevamo ragione noi! Il mondo lo ha capito!”. E tu, ovviamente, lì per lì ci credi.
#Einvece il mondo non ha capito proprio un bel niente, siamo solo noi (cit.) che proviamo a darci man forte gli uni con gli altri nel tentativo di dimostrare qualcosa di non richiesto e non necessario, esattamente come fosse il 1998.
Come in tutte le cose, il punto non è mai avere ragione, ma solo quanto si tenga al fatto che altri lo riconoscano. Nel mio caso, in media, tantissimo.

Le operazioni nostalgia sono da sempre una roba che fa presa, sul sottoscritto. Di solito quando iniziano è perché hai scollinato i migliori anni, ma per quel che mi riguarda posso tranquillamente dire di essere stato nostalgico da sempre. E di non essere il solo. Due esempi.
1) Una delle band che ho amato di più al liceo aveva nel demo un pezzo intitolato “13“. Gente di neanche vent’anni che rimpiangeva i bei tempi in cui ne aveva 13. Giuro. Pezzo incredibile, tra l’altro.
2) In compagnia da me tra i sedici e i diciotto anni il pezzo singalong che metteva sistematicamente tutti d’accordo era “Gli Anni”, del sommo poeta col nome di una moto.
La nostalgia è un vortice e ci siamo dentro tutti, grandi e piccini, ognuno coi propri riferimenti. Scrivere di anniversari su un blog è solo un altro tentativo di dar sfogo a questa necessità. Per qualcuno magari è una moda, per me forse la roba più naturale da fare quando apro la pagina di wordpress e decido di scriverci dentro.
Quindi adesso butto giù un pezzo su Dawson’s Creek.

Accento Svedese ha classificato gli anni ’90 come il periodo che va dalla cerimonia di apertura delle olimpiadi del ’92 fino al tragicamente noto undici settembre 2001 (ref.). Ovviamente ha ragione lui, ma nella mia testa più che di un decennio vero e proprio si parla del periodo a cavallo del Millennium Bug, da qualche anno prima a qualche anno dopo. Per la precisione, gli anni in cui è andato in onda Dawson’s Creek.
Coincidenze?
Beh, sì. Però è un fatto, gli anni prima e gli anni dopo non riesco ad associarli alla stessa epoca. DC ha scandito lo scorrere dei miei anni novanta senza necessariamente raccontarli, semplicemente coincidendoci.
Leggendo in giro dell’anniversario ho pensato di riguardarmi il pilota come puro atto celebrativo. Ora sono al quarto settimo episodio e non ho minimamente intenzione di smetterla. C’è qualcosa di difficilmente spiegabile in DC, parte la sigla (che nella prima stagione non è I don’t want to wait) e SBAM, sono a casa. Senza un senso, tra l’altro. Non ci può essere empatia per finti ragazzini che parlano di vela e Spielberg, per un contesto in cui il figo che arriva in città rapisce il cuore delle giovani suonando un cazzo di violino sul molo al chiarore della luna. È una roba ai limiti del fantasy. È come pretendere di avere Il Signore degli Anelli come proprio romanzo di formazione generazionale. Io non ricordo come fosse Beverly Hills 90210, ero davvero troppo piccolo per trovarci qualcosa più che i primi scossoni ormonali innescati da Kelly Taylor e la sua ciuffa improponibile, però dubito avesse dialoghi come quelli di DC. Nel terzo episodio Dawson dice a Jen una roba tipo “Rendiamo magica un’ora” per invitarla a beccarsi dopo scuola. La soglia del ridicolo superata in Fosbury.

Ci sono tantissime robe che da ragazzo ti appassionano, ma che riprese in mano da adulti si mostrano appunto ridicole. Ad alcune ripensi con imbarazzo, tipo lo ska, altre le rimuovi. Ognuno poi ha quei due o tre scheletri che preferisce lasciare sepolti nella memoria e che ha paura di andare a ripescare per evitare di farci i conti. Io, per dire, ho avuto questo rapporto con Jack Frusciante è uscito dal gruppo, salvo poi prendere il coraggio a due mani e constatare fosse una paranoia inutile.
Questo discorso non vale per DC.
Ho il ricordo nitido del fatto che lo guardassimo per riderne anche allora. Nessuno prendeva sul serio le storie di Capeside, ma non ne perdevamo mezza. Facevamo addirittura sporadici gruppi di ascolto ed era una roba così distante da ognuno di noi da essere paradossalmente iper inclusiva, diventando iconica.
Ho in testa questo speciale sui No Doubt andato in onda su TMC2 in cui Gwen Stefani diceva avessero proposto alla band di suonare in un episodio di Beverly Hills 90210 e loro avessero detto no, per ragioni che parafrasate avevano a che fare col concetto di sputtanarsi. Grossomodo dieci anni dopo un concerto dei No Doubt finisce al centro di uno degli episodi di Dawson’s Creek. Possiamo certamente dire che a quel punto per Gwen e soci sputtanarsi non fosse più un problema, ma in fondo credo c’entri di più il fatto che DC avesse anche per loro un peso specifico diverso e quindi avesse senso esserci, anche solo per fare dei distinguo.

La domanda ora è: cosa resta oggi di Dawson’s Creek?
Basta guardare i primi quaranta minuti per restare nuovamente folgorati e capire come lo show abbia ribaltato in toto il linguaggio con cui la TV si prefiggeva di parlare ai giovani. I concetti erano gli stessi di sempre, ma esposti in modo completamente nuovo. Qualche tempo fa mi sono ascoltato la puntata dedicata ai Teen Drama di Pilota, un podcast sulle serie TV fatto da gente che ne capisce certamente più di me. Non ricordo i contenuti nello specifico, ma ho chiaro in mente di aver pensato stessero affrontando l’argomento senza rendere i dovuti meriti, credo solo perché DC non ha mai avuto la fama di Beverly Hills né l’hipsterismo ante litteram di OC (potrei risentire per essere più preciso, ma ho un problema serio con i podcast e dopo pochi minuti la sensazione di origliare discussioni altrui mi diventa intollerabile).
Parlando di me invece, superata l’eccitazione del rivedere le camicie di Pacey, i personaggi con le t-shirt oversize e la bellezza abbacinante di Katie Holmes, restano le vicende di un gruppo di persone a cui sono rimasto legato come mi è successo per pochissime altre serie TV, anche qualitativamente molto superiori.
Le storie di Capeside, come quelle di Scrubs e recentemente di Weeds, mi hanno lasciato un piccolo buco nel cuore.
Poi c’è la colonna sonora, perfetta sempre nel suo essere completamente anonima. Tonnellate di rock radiofonico senza identità che però cementano la storia nel suo tempo. Ciò nonostante, ci sono almeno due momenti musicali di Dawson’s Creek impressi nella mia testa, “That I would be good” di Alanis Morrisette e “Baba O’Riley“degli Who. Una bella botta di pelle d’oca anche solo a ricercarle su youtube.

Chiudo il pezzo rimarcando il proposito di proseguire il mio rewatch quindi, in attesa dei momenti migliori, che poi son tutti legati al personaggio di Joshua Jackson: dalla storia con Andie (stagione 2) all’ascesa (stagione 3) e caduta (stagione 4) del suo rapporto con Joey.
Il titolo del pezzo è preso da un dialogo tra Pacey e Joey, quando lui decide di lasciarla appena prima del ballo dell’ultimo anno.
Un irripetibile manifesto emo.

PS: non ho resistito e ho fatto una ricerca sul blog. A tema Dawson’s Creek ci sono un paio di pezzi datati 2005 e 2006.
Non li rileggo manco se mi ammazzate.

Once upon a time #3

Nel 2001 a Sanremo è stato ospite Eminem.
Il controverso Eminem, l’irriverente Eminem, il provocatorio Eminem. Un mese buono di corsa all’evento in cui tutti parlavano di Eminem, di quanto pericoloso potesse essere ospitarlo senza censure e senza limiti sul palco del festival. Come farà la Carrà a contenerlo? Cosa dirà? E’ giusto far passare un rapper dai testi violenti e crudi in prima serata, nello show più importante del Paese e con milioni di italiani davanti allo schermo? Un dibattito accesissimo e ricchissimo di polemiche di cui, a memoria, si occupò anche la politica.
Eminem alla fine fece una performance timidissima, ma per fortuna non fu l’unico ospite internazionale.

Once upon a time nasce come rubrica di manq.it che racconta momenti che hanno fatto la storia della musica. O forse la storia in generale.
L’uscita di Once upon a time #4 è da considerarsi una missione, perchè lo scopo di questa rubrica ormai è proseguire fino a quando finalmente troverò il video di Madaski al Roxy Bar.

Once upon a time #2

Il 5 settembre 1999 una televisione nazionale mandava in onda la registrazione integrale di un festival alternativo alla sua prima edizione.
Il concerto, registrato il giorno prima dall’Arena Parco Nord di Bologna, vedeva alternarsi sul palco Tre Allegri Ragazzi Morti, Verdena, Punkreas, Lit, Hepcat, Silverchair, Joe Strummer e Offspring, che però furono gli unici a non concedere i diritti per la ritrasmissione del concerto in TV.
Per quanto tutta la replica televisiva sia rilevante ai fini di questa rubrica, il culmine furono certamente i 40 minuti del video qui sotto.

Il canale si chiamava TMC2 e il concerto era l’Independent Days Festival. L’esperimento non fu mai più ripetuto.

Once upon a time nasce come rubrica di manq.it che racconta momenti che hanno fatto la storia della musica. O forse la storia in generale.
L’uscita di Once upon a time #3 è da considerarsi altamente improbabile.

Cose che non succederanno

I gironi.
Gli accoppiamenti.
Tanto usciamo subito.
L’Italia va in finale ogni 12 anni: 1970, 1982, 1994, 2006 e 2018.
Controllare gli orari delle partite.
Prendere permessi al lavoro.
Speriamo porti Balotelli.
Speriamo non porti Balotelli.
Come cazzo si fa a non capire che il modulo perfetto è il 433?
In Italia siamo tutti allenatori.
Dell’Inter non gioca nessuno perchè ha solo stranieri.
Ci voleva Lippi.
E’ la nazionale più scarsa di sempre.
Non seguo i mondiali perchè il calcio è per gli idioti.
Boicotto i mondiali perchè Putin.
La maglia più bella comunque è quella del Brasile.
Messi vince solo nel Barcellona.
Messi è sopravvalutato.
Quest’anno lo vince l’Olanda.
E’ l’anno del calcio africano.
Io tifo Inghilterra perchè l’Italia è un paese ridicolo e voto 5 stelle.
Dove la vediamo?
Beh prima della partita grigliatina.
Robi viene? Boh, forse passa per il secondo tempo.
Il caldo tremendo.
I bambini che piangono.
I bambini che ridono.
L’inno.
Noi siamo gli azzurri o i bianchi?
I vaffanculo alle morose, alle mogli, alle amiche.
Zero a zero con l’Azerbaijan.
Si ma non li fa i cambi?
Ci vogliono giocatori con esperienza internazionale, mica questi qui.
Siamo una squadra vecchia.
Doveva portare Cutrone.
La classifica avulsa.
Se noi vinciamo due a uno e il Portogallo pareggia con reti passiamo per secondi.
I gol.
Le esultanze.
I clacson.
Conti nuovo Grosso.
Verratti meglio di Pirlo.
Cento milioni per Belotti e poi la vince Gabbiadini.
Il passaggio del turno.
Gli scontri diretti.
La Russia è favorita perchè gioca in casa.
Speriamo di non beccare la Francia.
Speriamo di non beccare la Spagna.
Speriamo di non beccare la Germania.
Tanto con la Germania passiamo sempre noi.
Il fischio di inizio.
Esci Gigi, cazzo!
Giochiamo male.
Giochiamo bene.
Avanti così prima o poi segniamo.
Gol sbagliato, gol subito.
Non era fuorigioco?
Non era fuorigioco!
Giocano bene solo quelli della Juve.
I supplementari.
C’è ancora il golden gol?
Altri vaffanculo.
Son finiti i minuti regolamentari.
Son finite le birre.
I rigori.
Buffon non ne ha mai parato mezzo.
Metti Donnarumma.
PARATO!
Buffon pallone d’oro.
Speriamo Insigne non faccia il cucchiaio.
ALTO!
Le bestemmie.
Le lacrime.
Gli abbracci.

Mancano sette mesi all’estate del 2018 e fa già pesantemente schifo.

Once upon a time #1

Once upon a time nasce come rubrica di manq.it che racconta momenti che hanno fatto la storia della musica. O forse la storia in generale.

L’uscita di Once upon a time #2 è da considerarsi altamente improbabile.

Presa male (Ultimo Atto)

25 Maggio 2017

Nel tentativo semi-disperato di trovare ragioni che giustificassero l’andare all’I-days di Monza, mi sono riascoltato Hybrid Theory su Spotify.
I Linkin Park sono una band di cui non sento nessuno parlare bene da almeno 14 anni. In realtà non sento proprio nessuno parlarne in generale, salvo poi scoprire che possono fare 90K persone a Monza. Stando alla mole di foto e video che ho visto condividere il giorno del concerto, molti sono miei amici su Facebook.
Non mi metto a fare riflessioni sul fatto che i Linkin Park possano o meno aver avuto un senso come band in generale, ma Hybrid Theory è uscito nel 2000 ed ha tirato sotto me che stavo nel mio periodo elitarista punk/HC come il mio testimone di nozze che nella sua vita ha avuto 3 capisaldi musicali: Max Pezzali, GG D’Agostino e Pitbull. Per me questo significa qualcosa ed è qualcosa di positivo.
Ad ogni modo ho risentito il disco è ho commentato così:

Ancora tiene.
Sembra una roba da poco, ma ai tempi io avevo preso bene anche il disco dopo che però non ce l’ha questa fortuna. Meteora ascoltato oggi non supera la terza traccia, poi mi tocca spegnere. HT invece riesce ancora a colpirmi negli stessi punti di allora, suscitandomi le stesse sensazioni di allora.
Hybrid Theory è una bomba di disco non perchè è uscito quando ero ragazzino, non perchè ho dei ricordi particolari collegati ai pezzi, ma perchè suona giusto e funziona alla perfezione.

17 Giugno 2017

Ovviamente alla fine all’I-Days ci vado. Ci trovo tutto quello di cui si è detto male in merito all’evento: le code, la disorganizzazione, i token per l’acqua da 15 euro minimo (#vaffanculo), le transenne e circa ottantacinquemila persone più di quante sarebbe stato bello presenziassero per poter godere dell’evento invece che venirne sopraffatti. Il set dei Sum 41 lo vivo malissimo, cercando mantenere in vita tre ragazzine spaesate e spaventate, quello dei Blink mi fa girare oltremodo il cazzo per troppi motivi. Sono sotto il sole da sei ore senza un cappello e respiro polvere da almeno tre. Ho un mal di testa che mi sta letteralmente spaccando in due.
Ai LP mancano 50 minuti.
Parlo con Max e ha il mio stesso feeling. Decidiamo di andarcene. Avendo parcheggiato a distanza siderale dall’autodromo ed avendo completamente perso cognizione di dove fosse la macchina vaghiamo per un tempo non precisabile, con il set dei LP in sottofondo. Non pare malaccio.

19 Giugno 2017

Cazzeggiando al PC scopro che qualcuno ha messo online tutto il live dei LP in qualità ottima, con riprese professionali eccetera. Butto un occhio alla scaletta ed è dignitosissima, così mi guardo il set. Suonano davvero troppo sgonfi per poterli apprezzare sul video di un PC, ma tutto sommato forse restare poteva avere un senso. Scrivo a Max su skype.
Manq: “Oh, ho visto il set dei LP su youtube, non è male.”
Max: “Eh, cazzo, ho visto. Ho un po’ il rimpianto, potevamo restare.”
Manq: “Già… va beh dai, la prossima volta che passano NON in un festival ci andiamo.”

20 Luglio 2017

Chester Bennington si impicca a quarantun’anni per ragioni che non è necessario conoscere. Evidentemente non stava bene.
I LP non sono stati mai una band centrale nella mia vita, il ruolo più importante che hanno avuto era quello di essere qualcosa che potevi mettere in macchina quando uscivi con gli amici o ci andavi in vacanza, senza scatenare insurrezioni o mostrare il fianco a filippiche sulla musica di merda che ascolto. Probabilmente il grosso della botta che ho avuto tra ieri e oggi deriva dalla storia che ho raccontato qui sopra, questa sorta di senso di colpa nell’averlo snobbato nell’ultima occasione che ho avuto per vederlo stare su un palco.
Questa mattina ho ascoltato di nuovo Hybrid Theory e forse il dispiacere più grande, a conti fatti, è che servano sempre pretesti del cazzo per metterlo in cuffia e venire a patti col fatto che è un bel disco.

I vent’anni del disco dei miei vent’anni

Onestamente è difficile per me capire da dove iniziare a raccontare questa storia.
La prima immagine che mi viene in testa è di un ragazzino in macchina che canta più forte che può, ma il volume a cui suona la cassetta è così alto che nessuno potrebbe sentirlo. Sta tornando a casa frustando i cavalli della sua Y10 pervinca, in preda ad un euforia tutta giovanile che potrebbe essere correlata ad una certa ragazza.
Oggi quella cassetta si è persa chissà dove, la macchina è stata venduta, la casa a cui faceva ritorno non è più casa sua e la ragazza ha smesso da moltissimo di essere il fulcro della sua euforia.
In realtà anche quel ragazzino, oggi, non esiste più.

Well, I guess this is growing up.

Dude Ranch esce il 17 giugno del 1997, ma io lo sento per la prima volta nella primavera del 2000, in un negozio di dischi di Monaco di Baviera.
Sto dietro ai Blink dall’autunno del 1999, quando What’s my age again inizia a girare per radio e in tele, ma ancora sono un po’ scettico a riguardo. Orifizio mi passa la cassetta di Enema of the State dicendomi: “Questi sono tipo i Lit.” e io dentro ci trovo alcune cose che sì ed altre che proprio no, quindi sono perplesso.
Nel 1999 il mio gusto musicale fonda su un unico canone stilistico: quanto va veloce la batteria. Ascolto un disco e decido se approfondire o no unicamente in base a quanto spinge(1). Ho dovuto recuperare a posteriori un sacco di roba a causa di quel criterio di selezione, ma non è il caso di parlarne adesso.
Il punto è che Enema of the State non mi forniva garanzie sufficienti a determinare se questi Blinkcentottantadue fossero o meno gente giusta. Facevano video divertenti(2) e i singoli si incollavano in testa, ma stiamo pur sempre parlando del 1999, quando l’integralismo era TUTTO e un gruppo che passava in radio o TV semplicemente non mi doveva piacere(3). Nel giro che frequentavo io c’era questo parere ultra condiviso: “i dischi prima erano fighi e velocissimi, ma poi si sono venduti” e io mi ci aggrappavo abbastanza forte per poter andare avanti a capirne di più.
Il problema è che questi fantomatici dischi prima non li aveva nessuno, o quantomeno nessuno che potesse passarmeli.

Arriviamo quindi a questa benedetta primavera ’00.
Io e Ciccio suggelliamo la nostra supremazia come rappresentanti di classe organizzando la prima gita vera della nostra storia liceale. Cinque giorni a Monaco di Baviera, insieme ad una 4° nota a tutti come “la classe delle fighe” (#truestory). Il primo giorno in loco abbiamo qualche ora libera per le vie del centro ed entriamo in un negozio di dischi, che era più un megastore tipo la Ricordi a voler essere onesti.
La cosa fighissima è che in questo posto potevi prendere un disco qualsiasi dallo scaffale, portarlo in cassa ed ascoltartelo in cuffia per tutto il tempo necessario a farti un’idea. Senza impegno. Io sono arrivato in cassa con due CD: Dude Ranch e un disco orrendo dei Vandals (mi pare).
Ho consegnato Dude Ranch al cassiere, ho messo le cuffie ed è successo questo:

Don’t pull me down, this is where I belong
I think I’m different, but I’m the same and I’m wrong

I Blink per me sono questa cosa qui.
Tom che pensa ai riff unicamente sulla base del fatto che debbano essere velocissimi, senza curarsi se sarà mai in grado di suonarli dal vivo (SPOILER: no), Scott che fa filare via la batteria drittissima e le due voci che si intrecciano e si completano, diverse ed immediatamente identificabili. Non so come vi approcciate all’acquisto di un disco voi altri, a me è bastato arrivare al primo ritornello di questo pezzo qui e la decisione era presa ed irrevocabile.
Il disco però me lo sono sentito tutto lo stesso, lì in cassa, perchè con me in gita avevo solo il mio vecchio walkman a cassette e ci sarebbe stato il rischio di non poterlo fare fino al rientro a casa. Io non ho capacità di aspettare. Zero proprio. Se compro un disco, lo devo sentire subito, se compro un videogame ci devo giocare subito, se compro qualcosa da mangiare spinto dalla gola, devo mangiarla subito. E’ brutto, fidatevi, i miei picchi di entusiasmo sono altissimi, ma hanno un’emivita brevissima.

Did you hear he fucked her?

Dammit è la terza traccia del disco e la conoscete tutti. E’ il pop-punk per antonomasia. Ha la melodia giusta, il testo giusto e perfino il video giusto per essere il singolo perfetto, nel 1997. Infatti funziona e i Blink con Dammit fanno il primo vero botto della carriera.
Ora però provate a riascoltarla.
Ascoltate la voce di Mark e fate mente locale, non ci sono altri pezzi dei Blink in cui canta in quel modo, con quella voce graffiata e ruvida, con quel carico emotivo. C’è una certa urgenza nel far passare un concetto, dentro Dammit, una seconda chiave di lettura che ti porta a pensare non sia stata scritta per andare in radio o fare da sfondo a scenette buffe in un video e che forse sia diventata un singolo anche un po’ suo malgrado, con tutte le virgolette possibili. Ho sempre pensato che introdurla con This one song e infilarci in mezzo pezzi da tormentoni di teen idol a caso quando la suonavano dal vivo avesse da sempre la valenza di rimarcare questa cosa (allego indizio1 e indizio2 a supporto). Poi sono arrivati i singoli veri e tutto ha preso un’altra piega, ma Dammit resta diversa. Innegabilmente diversa.

Dicklips era uno dei pezzi che conoscevo prima di ascoltare il CD perchè c’era stato uno speciale su TMC2 dedicato ai Blink in cui era contenuto un estratto da un live tedesco(4) dove la suonavano. Me lo ricordo perchè ad una certa Mark canta un pezzo di ritornello sopra il bridge e Tom gli fa “NO” con la testa. A me quell’aggiunta è sempre piaciuta un botto e questo piccolo scorcio è se vogliamo un altro manifesto della questione.

I think you need some time alone
You say you want someone to call your own
Open your eyes, you can suck in your pride
You can live your life all on your own

Il testo di Waggy credo sia uno dei pochissimi che ho ritenuto rilevanti nella mia vita adolescenziale. Non ho mai badato più di tanto ai testi delle canzoni da ragazzino, un po’ per carenze linguistiche e un po’ perchè in molti casi non avevano davvero nulla da dirmi, ma qui iniziavo a viverla in un certo modo, ad avere un età per cui certe cose iniziavano a diventare importanti. Forse uno dei primi dischi di cui ho preso in mano i testi e ci ho trovato qualcosa che mi parlasse. Arrivavo da tutto un filone di punk-rock sociale, riottoso e se vogliamo “impegnato” che sì, ok, ci stava come messaggio di ribellione giovanile, ci credevo anche un bel po’ volendo, ma che sentivo comunque distante. La mia vita di tutti i giorni era più orientata agli amici e al tentativo di guarire da una forma cronica di figarepellenza, piuttosto che a salvare il pianeta. Questo disco parlava di quelle cose lì, di avere la mia età e di cercare di viversela al meglio, divertendosi, anche quando c’erano i problemi. I miei non saranno stati rilevanti come il buco nell’ozono o la guerra in medio oriente, ma a diciannove anni li sentivo certamente più incombenti.

Non posso raccontare tutto Dude Ranch traccia per traccia, perchè se no da questo post non ne esco più, però il blocco centrale resta un agglomerato di capolavori irripetuti (ed irripetibili) per la band di San Diego. Enthused, Untitled, Apple Shampo e Emo. Quattro pezzi monumentali, che per me non sono invecchiati di un minuto. Li sento oggi e mi danno la stessa manata di quando li ho sentiti la prima volta. Ovunque io sia, mi prendono e mi portano da un’altra parte, in un posto dove sto e starò bene sempre.
Dopo aver scritto la frase sopra ho realizzato che la traccia seguente è Josie e che dice esattamente quella cosa lì. Non è una citazione voluta, ma a pensare come sia venuta fuori involontaria sorrido molto.

She’s so smart and independent, I don’t think she needs me
Quite half as much as I know I need her
I wonder why there’s not another guy that she’d prefer

I miei vent’anni sono esattamente questa cosa qui sopra.
Gli amici come nucleo cui tutto attorno gira, definire se stessi come alternativa ad una massa che, a voler ben guardare, aveva fatto capire abbastanza chiaramente di non volermi al suo interno. Capelli colorati, pantaloni corti, piercing e tatuaggi che poi non ho mai fatto, fino al trovarsi morose per cui ti chiedi sul serio se non ci sia qualcuno meglio di te a cui dovrebbero puntare. Cercare di dissimulare timidezza ed insicurezza facendo lo scemo.
Ho sentito spessissimo la frase “music saved my life” e non sono mai riuscito a darle un senso reale, ma certamente ci sono dischi che mi hanno mostrato la via attraverso cui muovermi per uscirne, se non vittorioso, quantomeno in piedi.
Dude Ranch è il più importante di tutti e finisce così.

I know it hurts
But you’re just getting older
And I know you’ll win
You’ll do it once again

Alla fine ce la si fa.
Ancora oggi è il modo con cui mi piace guardare alle cose.

Insieme a tutto quello che il tempo si è portato via, ci sono anche i Blink 182 che, oggi, sono una cosa che poco ha a che fare non tanto con questo disco, ma con il concetto di band in generale. A vent’anni sognavo di essere Tom DeLonge e suonare nei Blink, oggi anche ci fossi in qualche modo riuscito, il sogno sarebbe comunque infranto per metà.
Il giorno in cui Dude Ranch compie vent’anni i Blink suonano a Monza ed è incredibile pensare che sul palco, per 2/3 della band, questa cosa non significherà niente.
Io non so ancora se ci andrò, alla fine.
Da un lato scrivere di questo disco negli ultimi 15 giorni(5) mi ha messo nel peggior mood possibile in relazione al concerto, ma dall’altro c’è sempre il discorso della manciata di canzoni per cui avrà sempre e comunque senso uscire di casa ed andare a sentirle sotto il palco col dito alzato.
Chissà come andrà a finire.
L’altra sera ho rivisto American Reunion(6) e mi sono divertito molto, per dire.

(1) lo faccio ancora e funziona 9/10.
(2) il video divertente è stato la rovina dei Blink 182, qualcosa da cui non sono mai riusciti a smarcarsi, forzati in un crescendo per cui ogni volta dovevano in qualche modo mostrarsi più idioti della precedente quando in realtà lo erano meno. Poi oh, gli ha anche fatto fare i miliardi quindi credo per loro sia andata bene così.
(3) lo so cosa stai pensando: e gli Offspring? e i Green Day? Nel 1999, per me, erano tutti dei venduti. Sad but true.
(4) ho ritrovato quel video, il link è questo e l’episodio a cui mi riferisco sta a 1:41.
(5) Non ho mai iniziato a stendere un post con quindici giorni di anticipo e credo sia indice di quanto tenessi a questa cosa. Come ovvio, metterci così tanto mi ha incasinato la testa e ora o paura di rileggere per timore che non mi piaccia per nulla. Molte cose il tempo se le è portate via, ma l’insicurezza non se ne andrà mai.
(6) I primi due American Pie per me sono l’equivalente cinematografico di questo disco. American Reunion è il quarto episodio, con cui sono tornati al cinema dopo una decina d’anni.
(7) Dude Ranch l’ha prodotto Mark Trombino, che oltre a questo disco ha prodotto una camionata di altri dischi fondamentali per il sottoscritto. Lo so, il rimando numero 7 nel testo non c’è, ma questa cosa andava scritta da qualche parte.

Nicky Hayden

Io quella domenica del 2006 me la ricordo ancora.
Eravamo da me, i miei non c’erano, e per l’ultimo GP avevo invitato un po’ di amici a casa. Mi ricordo le lasagne di mia madre e Dani con la maglietta del 46 giallo, pronto a festeggiare.
Invece il mondiale l’avevi vinto tu e io avevo goduto come poche volte nella vita.
Nicky Hayden, The Kentucky Kid, il primo a battere Valentino Rossi.
Spiace molto.

Modern Baseball

Non lo so bene quando è cominciata.
E’ una roba successa negli ultimi vent’anni, lentamente ed inesorabilmente, e ora sono al punto in cui quando mi metto a pensare ai concerti l’associazione mentale è lo sbattimento. La dichiarazione ufficiale ad uso stampa solitamente è un mischiotto di parole tipo famiglia, impegni e vecchiaia, ma come ogni dichiarazione ufficiale basterebbe una minima di fact checking per trovare crepe nel ragionamento.
E’ il 2011, vivo al quarto piano di un palazzo in centro a Colonia. Una sera suonano i Get Up Kids nel locale quattro piani sotto casa mia. Torno dal lavoro e vedo la coda fuori dal posto. Fa freddo. Salgo in casa pensando che al massimo posso scendere più tardi. Entro, tolgo la giacca, forse faccio la doccia e sicuramente mangio qualcosa. Guardo fuori: il buio, il freddo. Guardo l’orologio, mancano tipo due ore all’inizio del concerto. La Polly mi propone di guardare un episodio di qualche serie TV. Mi siedo sul divano, forse sul letto. Mollo il colpo.
Per lo stesso gruppo due anni prima avevo guidato 400 km.
Non dico sia per tutti così, ma per me lo è. Leggo di un concerto interessante in zona e penso immediatamente al doverci andare da solo, al parcheggio, agli orari*. Quando proprio voglio esagerare ci metto anche il carico della disponibilità biglietti, con conseguente idiosincrasia per la prevendita e Ticket One. Questa palude di fastidi in cui mi impantano ha col tempo minato qualsiasi euforia associabile al discorso concerti, riducendoli ad eventi che scrivo in agenda nella remota possibilità in cui, quando il fatidico giorno arriva, io sia nel mood di farmi, appunto, lo sbattimento.

Ieri sera sono andato a vedere i Modern Baseball ed è stato così:

Una cazzo di festa.
Che poi non è nulla più di ciò che dovrebbe essere un concerto: gente che sta insieme e si diverte insieme. Facile, semplice e bellissimo, come tutte le cose facili e semplici. E no, per una volta non era pronosticabile perchè le pessime premesse ‘sto giro non riguardavano solo me e il mio atteggiamento da orso, ma anche (anzi, soprattutto) la band.
Il 25 gennaio Brendan (il tizio che canta nel video qui sopra) scrive sulla pagina del gruppo:

I have some unexpected news. I will not be joining Modern Baseball on the upcoming Europe / UK tour. I am okay — but I need this time at home to focus on my mental and physical health. The band will continue on with the tour thanks to help from mega friends Thins Lips, Superweaks and all the MOBO crew. This was an incredibly hard decision for me, and it was even harder confronting myself and the band about how I am feeling. Still, I know this is what I need right now. I can never thank MOBO and our crew enough for taking on the roles they have to support me.
I love y’all very much.
Mental illness is very serious and should never be taken lightly. It’s a long journey to understanding and coping with your illness but I have so much faith in y’all, and myself. If you or a friend ever feels lonely, depressed, sad, confused, whatever here are some crisis hotlines you can call. Again, I love y’all very much — talk soon <3

Non proprio una cosina da ridere, insomma.
L’impatto principale di questa brutta storia sul tour è che un tizio del loro staff deve sopperire alla mancanza sul palco, suonando la chitarra. Si è imparato un po’ di pezzi, ma non tutti, quindi lo show viene diviso in tre atti: il primo, full band, in cui James canta i suoi pezzi, il secondo con James in acustico per le canzoni che il sostituto ancora non ha imparato a suonare, ed un terzo di nuovo full band per i pezzi di Brenden. Che però non c’è.
La decisione della band è di far cantare al posto suo chiunque ne abbia voglia, tra gente del pubblico e ragazzi dei gruppi che girano con loro in tour**. Siccome è una festa, oltre al karaoke sul palco iniziano anche a passarsi gli strumenti e ogni pezzo alla fine viene suonato da persone diverse. E’ una cosa bella.
Non nuova, al più inconsueta ai concerti a cui vado io ultimamente, non strana.
Bella.
Di solito sono i gruppi con cui siamo cresciuti a riportarci indietro. Vai a vedere gente di quaranta e passa anni che suona roba da dischi che potrebbero fare la patente e bere negli Stati Uniti e grossomodo firmi una sorta di tregua col tempo che passa per quei sessanta minuti di show. Tu fai finta di non vedere capelli bianchi della band, la band fa finta di non averli e ci si crogiola tutti insieme in quella sorta di bolla, al più ripensando a quanto era bello.
E’ difficile avere questo tipo di feeling quando a suonare è gente schifosamente giovane tipo i Modern Baseball.
C’è uno rospo gigante da buttare giù nell’accettare che il tuo passato sia il loro presente, che non stiano suonando per ricordarti e ricordarsi quanto fosse figo il 1998, ma per celebrare quanto sia figo il 2017.
Cristo, è una roba che a scriverla qui sopra mi fa l’effetto delle coltellate.
A fine concerto sono andato al banchetto e gli ho comprato una maglietta. Avrei potuto prendere i dischi, pagandoli tipo 1/3 di quanto li pagherò oggi su Amazon, ma avevo in tasca giusto 20 euro e la maglietta per me è la cartina tornasole di quanto un concerto è figo.
Tempo fa mi chiedevo da quanto non mi finisse in mano una band “nuova” capace di spaccarmi il cuore con un disco. Non ricordo quale sia stata l’ultima, certamente non i Modern Baseball.
Di loro mi sono innamorato giusto ieri sera vedendoli suonare di fronte a cento persone in condizioni molto precarie.

* La pagina Facebook dell’evento di ieri indicava l’inizio alle ore 22:00 (EDIT: la pagina facebook ovviamente era una pagina sbagliata, ma a mia discolpa è la prima che esce se si usa il search di facebook. Ticket One riportava comunque 22:00 come inizio.). Io sono arrivato alle 22:03 e mi son sentito il primo pezzo del set dalla biglietteria. Errore mio, ma forse sarebbe ora di allinearsi ad una politica e mantenere quella per tutti gli eventi. Invece è impossibile sapere prima se arrivando giusti si rischi di aspettare ore o di perdere l’inizio del concerto. Non c’è una logica e questa gigante rottura di cazzo non aiuta ad invertire la tendenza di cui scrivo ad inizio post. Manco per il cazzo, direi. A voler scegliere, comunque, firmerei per concerti come quello di ieri che finiscono alle 23:00. Basta saperlo prima.

** non ho avuto il piacere di sentirli, perchè a quanto pare l’ora di inizio evento ieri indicava l’ora di inizio del set della band principale, con buona pace del supporting cast che si è trovato sul palco prima dell’inizio effettivo del concerto. Magari mi sarebbero piaciuti. Chi può saperlo?