Turning Japanese
Viaggiare è una delle mie passioni principali, oggi, e le dedico un sacco di tempo. La maggior parte di questo ovviamente non è speso effettivamente viaggiando (magari), ma pianificando vacanze che forse non farò mai. Ho nel cassetto una tonnellata di itinerari, più o meno realizzabili, ma c’è un posto che non so perché non ho mai davvero considerato: il Giappone.
Non dico non ci andrei, ma di certo ci sono un sacco di altre destinazioni a cui darei la precedenza, avendo la possibilità. Eppure ci sono tantissimi aspetti della cultura nipponica che mi incuriosiscono e appassionano. Il primo, certamente, è la cucina.
Mangiare giapponese, a casa mia, è grossomodo sempre coinciso con l’andare in uno di quei ristoranti ormai comunemente chiamati All You Can Eat e sfondarsi di “sushi”, inteso come accozzaglia varia di pesce crudo e riso in proporzioni variabili. Leggenda vuole che la maggior parte di questi posti sia in realtà gestita da cinesi perchè 1) quando qualcosa è fake tendiamo a dire sia cinese 2) quando qualcuno è giallo tendiamo a dire sia cinese. Il fatto che entrambe queste motivazioni vi sembrino (a ragione) razziste non implica siano false.
Io ho uno splendido rapporto con i ristoranti giapponesi All You Can Eat, secondo solo a quello che ha mia moglie. Paola mangerebbe giapponese AYCE sempre, potendo farlo. Ha anche fatto un corso di cucina per imparare a fare maki e nigiri e devo dire che quando ha tempo di cimentarcisi le riescono esattamente come quelli fatti dai cinesi.
In questo inizio di 2019 però ho avuto la possibilità di estendere un minimo la mia cultura sulla cucina giapponese, affacciandomi a due realtà che alzano il livello di parecchie spanne.
La prima esperienza è stata a fine gennaio, da Iyo.
Iyo è un ristorante giapponese stellato di Milano e, per i motivi che ho citato sopra, ho pensato potesse essere una buona idea regalare a Paola per Natale una cena da loro.
Per il teorema del “se fai una roba, falla bene”, associato al comma “già che stai spendendo una fucilata, non stare a guardare il centesimo (pezzente)”, ho optato per il menù degustazione che, se masterchef mi ha insegnato qualcosa, dovrebbe essere il modo migliore per farsi un’idea del concetto di cucina proposto da uno chef. Il menù di Iyo comprendeva nove portate tra carne, pesce e dessert.
E’ stata un’esperienza mistica.
Lo so cosa state pensando: dopo che hai speso una cifra folle per mangiare, psicologicamente sei portato a pensare sia stato tutto buonissimo per quell’istinto che abbiamo tutti e che tende ad evitarci la spiacevole sensazione di sentirci dei coglioni, specie quando si parla di spendere soldi.
E invece no, perchè seppur non sia assiduo frequentatore di certi ristoranti (#graziealcazzo), non era la prima volta che mi capitava di mangiare in un ristorante stellato, ma la terza, e nessuna delle precedenti due mi aveva dato le stesse sensazioni. Anzi.*
Non starò qui a fare una disamina di tutte le portate, mi limiterò alla classifica delle mie tre preferite:
3° Ika somen
2° Sashimi di Berice
1° Sushi IYO
Quest’ultimo ve lo racconto anche: 5 pezzi di “classico sushi” inteso come boccone di riso con sopra il pesce. Ricciola, capasanta, gambero crudo marinato, ventresca di tonno e anguilla. 5 gusti completamente diversi, ognuno dei quali mi ha fatto dire “OH MIO DIO IL MIGLIOR SUSHI DELLA MIA VITAAAAAHHH”.
Potendolo fare, tornerei a mangiarci ogni altro giorno che Dio manda in terra.
La seconda esperienza invece l’ho fatta potendo sfruttare un regalo della mia azienda che, per festeggiare i cinque anni insieme, mi ha offerto una cena per due persone da Yazawa.
Yazawa è l’unico ristorante d’Europa che permette di mangiare manzo wagyu giapponese cucinato al tavolo con un sistema tradizionale che, da che ho capito, è stato legale giusto in una finestra di mesi che ha permesso al titolare di aprire il locale, garantendogli l’esclusività.
Il giudizio su questa seconda esperienza però non è positivo quanto il precedente, seppur per motivi che esulano dalla soddisfazione che si prova nel mettersi in bocca del wagyu. Quella è incontestabile e mi rende felice di averla potuta sperimentare, soprattutto senza dover pagare di tasca mia.
Non tanto perchè fosse caro (lo era eh, anche se un filo meno di Iyo), ma perchè il prezzo pagato non vale, a mio avviso, la soddisfazione che se ne trae. Lo dico chiaro: sono uscito dal ristorante affamato e non mi capitava davvero a tantissimo tempo. Posso capire che la materia prima costi e che su quella si tenda a lesinare, ma almeno sul corollario potrebbero evitare di farsi venire il braccino. Il mio dessert, un gelato al matcha, stava in un bicchierino da shot che andrebbe stretto ai finger food più striminziti. Ed è gelato, cazzo, mica caviale.
La carne però, lo ribadisco, è davvero una roba che prima di assaggiarla non te la puoi immaginare. Parlandone con il ragazzo che ci ha serviti, gentilissimo, ho appreso che un manzo Wagyu giapponese costa circa 90K euro. Il corrispettivo Australiano, Neozelandese o Tedesco (i tre paesi principali in cui si alleva quella tipologia di bestia) sta intorno ai 6K euro al capo. Una chianina va per i 3.000 euro, mentre un manzo “standard” di solito costa sui 1.500.
Li vale? Boh, ognuno ai soldi da un valore diverso. Per me, onestamente, non abbastanza da pensare di poter ripetere un’esperienza del genere, a meno di andare in Giappone, ma li lo farei per ragioni che vanno anche oltre il cibo.
Due cene molto diverse che però hanno contribuito a dare a questo mio 2019 una forte impronta nipponica, che però è andata ben oltre il cibo.
Ad inizio gennaio ho anche scoperto che sul finire del 2018 gli Envy hanno fatto uscire un EP di due pezzi che si chiama Alnair in August.
Il primo dei due lo metto qui sotto perchè è la cosa che ho ascoltato di più nell’ultimo mese, perchè è stupendo e perchè credo chiuda perfettamente questo post.
* per i più pettegoli: la prima volta in cui ho mangiato in un ristorante stellato è stata all’anniversario del primo anno di matrimonio, da Pierino Penati. Talmente a nostro agio nel contesto che Paola quasi sviene vedendo il menù senza prezzi (galanteria riservata alle signore e che lei ha genuinamente tradotto in “qui ci inculano a sangue”). Potrei citare molte scene analoghe, ma la più simpatica resta quella in cui chiedo il conto, il cameriere risponde: “Certamente, glielo porto subito. Gradisce una grappa?” e io penso: “Va che bel gesto, offrire una grappa in un ristorante così chic ad un poveraccio come me.”. Me l’hanno fatta pagare. Otto euro. Mi sale ancora oggi l’odio solo a pensarci. Per me potrebbe chiudere ieri.
La seconda volta invece è stata per l’anniversario dei cinque anni e siamo andati da Innocenti Evasioni. Decisamente meno a disagio della prima volta, fatico però a ricordare un singolo piatto di quella cena e questo credo non sia un bel segnale. Non ero uscito insoddisfatto o scontento, solo indifferente e, visto il prezzo, non è una bella cosa. Ricordo uno dei vini che mi avevano proposto in associazione ad un piatto però, infatti mi capita ancora oggi di ricomprarlo. Online.