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Polly

Salta al prossimo post, che non ne vale la pena

Non l’ho mai presa secca in casa da solo.
A vent’anni bevevo merda in giro con gli amici, quando la prendevo era perché qualcosa sballava l’equazione che avevo messo a punto introducendo variabili che non ero in grado di gestire real time. È il problema di tutti i giovani che la prendono, serve a fare esperienza.
Dai trenta* prenderla è diventata una sorta di gag, qualcosa che in un modo o nell’altro ti aspetti prima di uscire di casa. Non arrivo a dire “L’obbiettivo della serata”, ma di certo non siamo piú dalle parti dell’incidente di percorso. È un po’ come Joseph “Joe” Hallenbeck vede l’adulterio, di massima. Non esiste una versione colposa.
A quaranta pensi di averle viste tutte e invece ti ritrovi quasi per caso a fare mente locale e provare un’esperienza nuova: prenderla secca a casa, mentre con la mano destra lavori a delle slide che dovrai comunque rivedere domani e con la sinistra ti versi un whiskey giusto per mandare giù l’ennesima giornata complicata.
Ok, siamo d’accordo sul fatto che se l’avessi davvero presa secca non sarei qui a scrivere sul blog, ma cercate di vedere il mio bluff: prenderla secca oggi per me è più che altro bere più di quanto il contesto giustifichi, che poi di massima è quel che fanno le persone che hanno un problema con il bere. Credo.
Bersi una bottiglia di vino durante una cena da diverse portate con altre persone che hanno tutte bevuto la loro bottiglia di vino, per me, è safe. Bersi una birretta dissetante tornato a casa dal lavoro nel caldo di Luglio, anche. Bersi una bottiglia di vino per togliersi la sete prima di cena credo si possa definire “problematico”.
Io tendo a non bere fuori dagli “eventi”.
In casa mia apriamo bottiglie di vino solo se c’è gente o se nel fine settimana cuciniamo qualcosa che meriti di essere valorizzato, per dire. Sia io che mia moglie abbiamo un background da residenti in Germania, quindi se c’è birra in frigo tendiamo a berla: il nostro consumo a pasto va per il litro totale, 3 bottiglie da 33cl in due**, e non è ovviamente la routine (marzo 2020 a parte), in circostanze normali direi che si parla di un paio di volte a settimana.
Non è prenderla, spero siate d’accordo.
Ogni tanto poi nel post cena mi verso un superalcolico: whiskey o rhum. Un cocktail quando fa caldo e punto a dissetarmi. Una bottiglia buona di quella roba di norma mi dura un paio di anni e il grosso se lo tirano comunque le merde dei miei amici*** quando vengono a cena.
Il punto di sta premessa infinita quindi non è vendere un Manq clean and sober, ma dare un contesto definito dei miei standard e da lì spiegare perché questa sera sia successa una roba strana.
Vuoi l’essere grossomodo malato da inizio anno, vuoi il fatto che io e mia moglie si viva sull’orlo di una crisi di nervi, oppure vuoi per via dei sensi di colpa verso figli che si trovano di botto in un ambiente molto meno sereno di quello a cui li avevamo abituati (con conseguente cambiamento nel loro carattere), oggi sono finito a tirarmi tre whiskey chiacchierando con mia moglie****. O meglio, sfogandomi con lei come le persone equilibrate e intelligenti fanno con un analista.
Forse quello che stiamo vivendo è l’ultimo quadro del survival game che la nostra vita familiare è diventata da Wuhan in poi. Ci speriamo molto, ma più che altro credo ci sarebbe oltremodo complicato gestire nuovi livelli che al momento non ci aspettiamo esistano.
L’ho presa secca anche per quello, forse, oggi.
Per paura dell’ignoto.
Data astrale 15/2/22: l’ho presa secca a casa e spero davvero non ci sia ragione perché succeda di nuovo in futuro.


*cifra completamente random che vuole rappresentare la maturità consapevole

**se c’è una cosa, una singola cosa del mio rapporto matrimoniale che mi mette voglia di urlare è quando chiedo a Paola: “Ti va una birra?” e lei mi risponde: “Metà.”. Ci impazzisco.

***non giudicateli male, io faccio uguale a casa loro.

****quello che è stata capace di gestire mia moglie in questo inizio di 2022 tra lavoro, figli e gestione della casa/famiglia mentre non potevo darle una mano è inspiegabile. Non mi stupisce ne sia in grado, come sempre mi stupisce piuttosto la fortuna che ho nell’averla nella mia vita.

Il 2021 di Manq

Allora, com’è stato alla fine questo 2021, arrivato coi favori del pronostico con lo scopo di tirarci fuori dal mai sufficientemente vituperato 2020?
Probabilmente sotto le aspettive un po’ per tutti, ma non ne farei un demerito particolare. Di massima ha sofferto dello stesso hype nocivo che buttiamo addosso ai fine settimana da tutta una vita. Chiamati a redimere cinque infiniti giorni di routine lavorativa, immancabilmente si concludono lasciandoci già intenti a proiettare la favola sul weekend successivo, come peraltro già teorizzato dal Profeta della mia generazione.
Andandoci a guardare dentro però, questo 2021 è stato un anno che si può definire buono, per chi scrive. Il COVID è rimasto dov’era, ma chi ha voluto ha potuto usufruire di strumenti indispensabili a conviverci meglio e abbassare l’ansia che ormai portavamo a braccetto da troppo tempo. Si è tornati a stare insieme, ad uscire di casa e per quanto mi riguarda soprattutto a viaggiare, che come sa bene chi mi conosce è grossomodo l’unico motivo oltre il sostentamento che mi porti ad alzarmi dal letto la mattina per andare al lavoro.
Purtroppo, per una serie sempre diversa di circostanze di cui spesso sono il primo responsabile, anche il 2021 si è chiuso senza un concerto in presenza. Nei primi mesi dell’anno ne ho visti diversi in streaming, ma era una roba che potevo aspettarmi non sarebbe durata, mentre tutta la fase dei live distanziati e seduti l’ho proprio evitata per repulsione, pur sapendo sarebbe stato importante partecipare oltre il mio effettivo piacere personale. È una cosa che mi rimprovero, ma che in sincerità probabilmente rifarei pari pari dovesse, dio non voglia, ricapitare.
Il 2021 ha dimostrato inequivocabilmente che non ne siamo usciti migliori e a voler essere pignoli che non ne siamo usciti affatto, ma riconosco che il mio livello di imbruttimento stia pian piano migliorando, a piccoli passi, quindi bene così. Probabilmente i “quaranta in quarantena” sono un mix letale per l’umore e la stabilità mentale di chiunque, ma tutto sommato ho tenuto botta. Dormo quasi sempre, sono un po’ meno apatico e ho ripreso a fare piani per il futuro (che poi stringi stringi sempre ai viaggi si torna).
Forse mi ha aiutato anche mettermi in gioco in due cose che da quindici anni almeno, non esagero, davo per rimpianti definitivi in quanto “troppo vecchio per queste stronzate”. La prima è il brevetto PADI, che senza la spintarella di mia moglie non avrei probabilmente mai preso, la seconda è salire su uno skate e provare a non uccidermici, ma anche a vivermela senza sentirmi uno in piena crisi di mezza età. Ho elaborato questa forma mentis per cui non sia importante sentirmi ancora giovane, so di non esserlo, ma smetterla di pensare che questo precluda per forza delle esperienze che mi va di vivere. Magari è così, magari no, ma l’importante è capirlo provandoci invece di farcisi dei film sopra e tenersi il rimpianto. Anche nelle piccole cose.
Va beh, non voglio finire a fare un post che potrebbe scrivere il mental coach di Bonucci, fermiamoci qui.
Non ho manco ascoltato abbastanza dischi da fare una classifica di fine anno, quello che è indubbiamente il disco del mio 2021 è uscito nel 2006 e ci sono arrivato con 15 anni di ritardo (ma è una storia che dovrebbe uscire su Spento in questi giorni, quindi non faccio spoiler). Però credo che il disco più bello di quest’anno, uscito effettivamente quest’anno, sia quello dei Deafheaven, nonostante tutti i motivi che avrei per odiarlo: dal suo essere essenzialmente una trollata gigante, al suo avere 9 tracce in totale, ma con l’unica strumentale non esattamente a metà nella tracklist. Però è proprio bello, quindi in qualche modo glielo si perdona.

Bon, direi che possiamo chiuderla qui e rimandarci a cosa porterà il 2022. Vedo tutti intenti a sperare nel meglio, io firmerei perché andasse uguale.

Sono stato alle Maldive

Questo post non lo volevo neanche scrivere, ma poi mi è arrivato questo messaggio e come fai a dire di no ai tuoi fan?

Quindi eccoci: sono stato alle Maldive, è stato bellissimo ed è costato tantissimo. Questa, grossomodo, è la versione corta. Poi c’è la versione lunga, che è il classico report/guida che scrivo sempre quando faccio un viaggio e che si può leggere qui
Per il resto tutto bene, da quando sono rientrato dormo come un bambino 10 ore a notte senza più sudori freddi e tachicardie legate a tamponi, quarantene e cazzi vari e questo si aggiunge al relax fisico regalatomi da una settimana su un’isola incontaminata dispersa in mezzo all’oceano indiano.
Null’altro da aggiungere, allego diapositiva.

Cronaca di un calvario (annunciato)

Giovedì 18/11, ore 9:52
Arriva notifica Whatsapp.
“Ciao, volevo segnalarti che oggi sono risultat* positiv* al covid.”
La prima reazione è controllata. Faccio presente la cosa in ufficio, mentre mi vesto e mi appresto a rientrare a casa per isolarmi.
Chiamo il medico, specifico che il mio ultimo contatto è stato Domenica. Sono vaccinato, quindi la procedura è isolarmi per sette giorni dal contatto e poi procedere con un tampone, in assenza di sintomi. Ok.
La seconda reazione è una canzone di Alanis Morrisette: giusto ieri ho prenotato la mia terza dose di vaccino. Sarebbe effettivamente molto ironico ammalarsi proprio ora, dopo averlo schivato per 20 mesi.
La terza reazione è più tendente all’isterico ed arriva quando realizzo che in diciassette giorni dovrei partire per un viaggio che rimandiamo da due anni e che adesso sembra finalmente possibile grazie ai corridoi COVID-free. Ho appena preso coscienza del fatto che potremmo non essere per niente COVID-free.

Giovedì 18/11, ore 10:20 circa
Dopo aver chiamato il medico realizzo che Olly è a casa dall’asilo perchè questa notte ha avuto forte mal di orecchio, dovuto al catarro. Ha anche un po’ di tosse, adesso che ci penso. In questo momento è dai nonni, quindi li chiamo e spiego loro di mettersi la mascherina. Poi chiamo Paola, che a sua volta chiama la pediatra.
Olly deve andare subito al drive-through dell’Ospedale San Raffaele a fare un tampone molecolare.
Allerto di nuovo il mio medico, le disposizioni non cambiano anche se adesso mi sembra di avere tutti i sintomi del mondo. Provo la febbre: 35.7°C.
Olivia rientra a casa post tampone con un pacco di wafer, perchè è stata bravissima.
Si aspetta l’esito.

Giovedì 18/11, ore 20:30
Ho il tavolinetto da giardino in camera, ci sto mangiando il risotto isolato dal resto della famiglia. Mentre mangio faccio compulsivamente ctrl+f5 sulla pagina dei referti del San Raffaele per vedere l’esito del tampone di Olivia, che continua a non arrivare.
Quel che arriva invece è un’altra notifica whatsapp, dalla terza persona coinvolta nel contatto positivo di Domenica. “Per scrupolo ho fatto il tampone ed è negativo”.
E’ ovviamente un dato insignificante, ma è interessante valutare come lo si può elaborare. Conosco persone che lo prenderebbero come un segnale incoraggiante, di speranza. Io riesco solo a pensare che la sfiga abbia preso la mira invece di sparare nel mucchio.
Ctrl+f5.
Ancora niente.

Giovedì 18/11, ore 21:53
Olivia è negativa.
Nulla da aggiungere dal fronte. La stanza è chiusa e così resterà fino a domenica mattina, quando il tampone toccherà al sottoscritto.
Continuo a pensare che quello dello scorso weekend è stato il primo vero rischio che mi sono preso in venti mesi di pandemia, se si può definire rischio fare un viaggio in auto di due ore con due persone comunque vaccinate. 

Venerdì 19/11, ore 20:36
Di nuovo al tavolino, sempre solo. Sto mangiando gli spaghetti allo scoglio che abbiamo preso da asporto e ci sto bevendo dietro mezza bottiglia di Sauvignon. Il cibo me lo lascia Olivia davanti alla porta.
Oggi ho lavorato e ho ascoltato il disco nuovo di Marra un numero insensato di volte. Adesso lo rimetto su, che tanto non ho un cazzo da fare.

Domenica 21/11, ore 9:48
Ho appena fatto il tampone.
Sono nel parcheggio dell’ospedale di Vizzolo Predabissi, un luogo di cui non avrei mai avuto conoscenza senza questa pandemia. Intorno a me è nebbia, fittissima.
Sarebbe anche una metafora bellissima, se in questo momento fossi nello spirito di poter apprezzare le cose belle.

Domenica 21/11, ore 21:02
Ancora niente esito.
Oggi ho impegnato il tempo in vario modo cercando di non pensarci, ma nelle ultime due ore sta diventando semi-impossibile.
Avrei voluto aprire wordpress prima, per scrivere questo update, ma mi dicevo: “Aspetta, metti direttamente quello con l’esito.”.
Arrivasse.

Lunedì 22/11, ore 10:30
Mentre refresho come un forsennato la pagina del fascicolo sanitario di Regione Lombardia, il telefono vibra.
“Certificazione verde Covid-19 di GI*M disponibile.” scrive il Ministero della Salute.
Esultanze e caroselli.


Ho scritto questo post in presa diretta, da Giovedì ad oggi. Non so come continuerà questa storia.
Dopodomani, Mercoledì 24/11, a questo punto potrò fare la mia bella terza dose di vaccino, come da programma. Una pera di antigeni, ma spero più che altro di tranquillità. Perchè lo so che questo post potrebbe prendere i toni di una puntata di “Anche i ricchi piangono” visto che l’ansia che mi sta opprimendo è legata ad una cazzo di vacanza che ho scelto io di fare, in un momento non proprio ideale, però se tutti avessimo sempre la forza di mettere i propri problemi in prospettiva saremmo molto più forti e sereni di quanto effettivamente siamo.
Si può pensare quel che si vuole di uno che si fa venire gli attacchi di panico per aver prenotato un viaggio, ma questo purtroppo non cancellerà quegli attacchi di panico.
Due settimane all’ipotetica partenza.
A viverla così, sembreranno infinite.

Pensierini

Se alle 5:39 sono ancora sveglio vuol dire che le ho provate grossomodo tutte e non ha funzionato niente. A parte la chimica, ovviamente, ma a quella non voglio arrivare perché se prendi dei farmaci vuol dire che sei malato.
Io ho un leggero problema a dormire, a volte, ma non sto prendendo niente.
Quindi sto bene.
Solo che appunto sono qui con gli occhi a palla da quattro ore e non so più come impegnare il tempo ed il cervello e allora tanto vale scrivere due righe qui sopra. Dei pensierini, sparsi, riguardo cose su cui ho mezzo riflettuto nell’ultimo periodo e che però non sono mai state abbastanza niente da portarmi a scriverci su un post vero e proprio.

Tre mesi fa circa io e Polly abbiamo adottato un bambino a distanza. Abbiamo chiamato Save the Children e fatto un bonifico. Non posso parlare per lei, ma da parte mia credo di avere un mezzo senso di colpa latente verso la mia condizione economica, o forse generale, di persona che se la passa tutto sommato bene e l’idea è di venirci a patti usando meglio i nostri soldi. Vorrei essere meno superficiale, ma a conti fatti questa adozione per me sta sullo stesso piano del comprare biglietti per concerti in streaming o supportare attivamente i piccoli esercenti locali. E lo so anche io che non è per niente la stessa cosa, ma di mio non vivo nessuna di queste attività come beneficienza, trovo solo siano modi utili di usare i miei soldi.
Da tre mesi Save the Children dovrebbe mandarci i documenti relativi al bambino che abbiamo adottato e non è ancora arrivato nulla. All’inizio abbiamo chiamato, ci hanno detto che il pacco è andato perso e che avrebbero inviato nuovamente il tutto, ma poi abbiamo pure smesso di informarci. È importante sapere chi sia, fisicamente, a beneficiare dei miei X euro? A cosa siano serviti nello specifico all’interno della vita di qualcuno a cui manca tantissimo? Boh, forse no.
A volte mi chiedo se sia disinteresse, se io viva questa cosa come uno dei tanti abbonamenti che sottoscrivo ed il cui punto è più che altro sapere di averli a disposizione e non tanto utilizzarli. “Abbonati anche tu a Coscienza Premium”, tipo.
A costo di suonare autoassolutorio però credo l’importante di questa faccenda sia lo scopo ultimo di quei soldi, le mie sovrastrutture mentali sono un effetto collaterale trascurabilissimo. Quasi sempre, ecco.

Non sto capendo granché delle mancate consegne dei vaccini da parte di questa o quell’azienda. Il mio dubbio è piuttosto basilare: sono stati violati dei contratti o no? Perché continuo a leggere che le pharma “Promettono di non venire meno agli accordi” e, simultaneamente, che “Vengono consegnate X dosi meno”. Meno rispetto a cosa? Se c’è un accordo per un certo numero in un certo periodo, o ci siamo dentro oppure no. A meno che l’accordo copra il totale in un certo lasso di tempo, ma non garantisca poi la ripartizione effettiva delle dosi in quel lasso di tempo. Tipo: il contratto dice solo che ti devo dare 100 mele in quattro mesi, il fatto che siano 25 al mese è un accordo extra tra le parti. A questo punto se il primo mese te ne do 10, il secondo 5 e il terzo 0 é comunque legittimo, a patto di saldare al quarto mese con le 85 mele mancanti. Come si fa a fare un piano vaccinale senza avere garanzie sulla consegna delle dosi, però? Mi sembra tutto molto poco chiaro, ma ci sta sia io a non avere tutti i pezzi del puzzle. Magari prima o poi qualche giornalista ci scrive sopra un articolo chiaro ed esaustivo. Magari lo hanno già fatto, ma è dietro paywall. Magari piove.

Mentre mi rigiravo nel letto un paio di ore fa ho pensato che per me vivere è quella cosa che si fa quando si riesce a non pensare che prima o poi tocca morire. Quindi in pratica da un anno a questa parte vivere è impossibile.
Magari è una cazzata, ma come concetto nel mio caso si applica molto bene.
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Leggevo che l’antitrust ha multato Sky per 2 milioni di euro. Il motivo è il mancato risarcimento del pacchetto sport nei due mesi di lockdown 2020.
Ho fatto due conti, spannometrici.
Due mesi di Sky Sport costano 30 euro circa, il che vuol dire che con 2M di euro avrebbero risarcito neanche 70k utenti.
Sky ha più di 5 milioni di abbonati.
Probabilmente non tutti hanno sport e probabilmente non tutti avrebbero richiesto il rimborso, ma direi che è legittimo pensare la sanzione sia sottodimensionata.
Quindi perché in futuro Sky dovrebbe anche solo porsi il problema di risarcire il mancato servizio, se pagare la multa è di fatto largamente conveniente?
Seconda domanda, ancora più pruriginosa, perché lo Stato dovrebbe preferire che Sky risarcisca i clienti piuttosto che versargli in tasca milioni in sanzioni?
Sono stato a lungo cliente Sky, ho disdetto anni fa. Un po’ perché il servizio non mi sembrava valere il prezzo, ma soprattutto per la noiosissima realtà monopolista che mette Sky nella posizione di trattare i propri clienti a pesci in faccia, estorcendo canoni senza senso che vengono abbattuti solo in presenza di minaccia di disdetta. Come a dire, posso tranquillamente farti pagare la metà, ma ti ci devi sbattere duro altrimenti ti frego.
Non è un mindset che riesco a tollerare. Limite mio eh, vivo circondato da persone convinte che ogni accordo commerciale stia avvenendo in un suq, quindi probabilmente hanno ragione loro, ma quando si parla di servizi o beni non indispensabili quel tipo di approccio è garanzia i miei soldi vadano altrove.

Sono le 7:05.
Tra 25′ ci si tira in piedi per preparare i bimbi. Io ho appena sbadigliato.
Poi uno non dovrebbe bestemmiare.

Che pizza!

Mia moglie è in fissa per i lievitati.
Più che cucinare in generale, a lei piace impastare e cimentarsi in tutti quei prodotti che spaziano tra panificazione e pasticceria, con decisa predilezione per pizze e focacce.
In casa nostra si faceva il pane da ben prima del lockdown, per dire, e con l’isolamento ormai ci mancano giusto un paio di animali da pascolo in giardino per autoproclamarci agriturismo.
Per il dottorato, come colleghi, le avevamo regalato la Macchina del Pane, qualche anno dopo io le ho regalato anche la Planetaria. Di suo, lei si spara viaggi assurdi dentro blog di cucina degni del deep web in cui capita che ad Agosto qualcuno chieda indicazioni su come fare un Pandoro (#TrueStory), ma si applica e regala spesso grandissime soddisfazioni.
A Natale quindi ho deciso di fare un ulteriore investimento al fine di stimolare la crescita di questa passione, regalandole un forno da pizza.

Nelle community di BBQ che ultimamente frequento io ha iniziato a circolare questa passione parallela per i fornetti della Ooni e così ho deciso di fare una ricerchina e prenderne uno.
Delle tante versioni disponibili (gas, elettrico, legna e pellet) io ho scelto l’ultima perchè, nella mia testa, il forno da pizza deve essere a legna, ma la legna vera è più sbattimento da gestire e la soluzione a pellet mi intrigava. Oltretutto il pellet pare essere anche l’ultima frontiera in ambito grill, quindi era un modo per avvicinarmi alla questione.
Il nostro nuovo fornetto del cuore si chiama “Fyra“, quindi, e lo abbiamo testato ieri sera.
Prima cosa da dire è che il prodottino è molto curato: materiale che dà l’idea di essere solido e ben pensato per un prezzo* che a me pare abbastanza onesto. Si monta in 30 secondi, ma per procedere alla prima infornata è necessario munirsi di “accessori”.
1) Il pellet. Grazie al cazzo, direte voi, però meglio precisarlo. Un sacco da 3Kg di pellet Ooni costa poco meno di 10 euro all’Agribrianza di Concorezzo, che è tipo il Peck dell’outdoor. Per iniziare io ho preso quello, ma se ne trovano anche di più economici adatti allo scopo, proprio perchè il mondo BBQ ormai è pellet dipendente.
2) Una pala per pizza. In questo caso quelle Ooni sono davvero fuori dalla grazia di Dio in termini di prezzo. Noi ne avevamo in casa una in legno e abbiamo usato quella senza problemi.
3) Un termometro a pistola di quelli ad infrarossi. So che state pensando: “E chi non ce l’ha, nel 2020?”, ma quello che vi serve deve avere un range che arrivi oltre i 500°C, quindi immagino che il Chicco preso per mandare i figli all’asilo non faccia al caso vostro. Se ne trovano comunque online a cifre ultra ragionevoli e se avete speso quasi 300* euro per un fornetto hobby non credo il problema sia il costo del termometro. Io ho preso questo completamente a caso su Amazon.
Ottenute queste tre cose, nulla vi separa più dalla vostra smania da pizzaioli.

La domanda ora è una sola: funziona bene?
La risposta breve che posso dare, dopo un singolo utilizzo, è un sì convinto, ma essendo un blog provo ad argomentarne una più dettagliata.
La caratteristica chiave di questi forni rispetto ad altre soluzioni, da quanto ho capito studiacchiando in giro, è che sono veloci e devo dire che da parte mia è una caratteristica che confermo.
All’acquisto mi parlavano di 15′ per mandare il forno in temperatura e circa 90″ per cuocere una pizza. Noi, orologio alla mano, l’abbiamo portato a 500°C in 25 minuti circa, ma forse ha inciso il fatto che l’ambiente in cui lo stavamo facendo andare preparava la bufera di neve che se siete di Milano state vedendo fuori dalla finestra. Per me comunque anche 20/25 minuti di setup è un tempo accettabile, considerato che tutto quel che devi fare è accendere il pellet e aspettare e farsi una pizza non è proprio una cosa che decidi all’ultimo secondo dovendo preparare impasto e condimenti.
Sul tempo di cottura invece è necessario fare qualche precisazione. La prima pizza è cotta perfettamente in 90″, la seconda pure. Poi il forno ha iniziato a scendere di temperatura e di conseguenza i tempi si sono allungati. Il motivo, secondo noi, è legato al fatto che il forno va a palla quando ha lo sportello chiuso, ma perde potenza abbastanza rapidamente con lo sportello aperto. Il punto è che la cottura va fatta con lo sportello aperto, da indicazioni, e crediamo sia perchè se lo si chiude il forno torna a cannone in un secondo e brucia la pizza.
Di conseguenza, ad una prima prova, l’idea che si siamo fatti è che forse conviene fare dei round di cottura intervallati da periodi di innalzamento temperatura, soprattutto se come noi non siete proprio lestissimi nello sfornare una pizza ed infornare la successiva.
Spannometricamente: se devi fare tre pizze, falle in fila e amen. Se ne vuoi fare sei, io forse le farei due alla volta, intervallando 5 o 10 minuti a porta chiusa. Secondo me è anche una cosa carina per chi fa le pizze, che non deve stare al forno mentre gli altri mangiano, e aumenta la convivialità: metti le prime due in mezzo, ognuno prende una fetta, e mentre si mangia il forno ricarica. Poi magari continuando ad usarlo capiremo come ottimizzare il tutto, ma il punto è che due perfetti neofiti della pizza al forno a legna come me e la Polly ieri sera hanno sfornato 7 pizze in un’ora scarsa, cappellandone irrimediabilmente solo una.
Ottimo risultato.

Ok, ma com’era la pizza?
Pazzesca, da pizzeria. Croccante, ben cotta, non bruciata. Per essere un primo tentativo, ben oltre le aspettative. Ora, Paola probabilmente non è Sorbillo, ma un minimo di lievitati è pratica e se me lo chiedete sulla resa finale penso conti molto più la qualità dell’impasto che non la resa del forno. Per sommi capi: impasto buono salva una cottura del cazzo, una cottura perfetta non credo salvi un impasto del cazzo. Lei ieri ha usato questa formula qui, conoscendola non credo pescando a caso dal mazzo. Ne proveremo probabilmente altre, ma davvero la combo impasto+forno, per essere un pilota, ha dato risultati importanti. Abbiamo provato diverse combo (con e senza pomodoro, con e senza mozzarella, più o meno farcite) e l’unica sbagliatissima è stata quella coi pomodorini crudi, credo però più per via del forno sceso troppo di temperatura.

Altro da aggiungere?
Mah, forse i consumi. Sul manuale dice che con 150g di pellet tiene 15 minuti di cottura, ma di fatto noi ne abbiamo usato circa il doppio. Anche quello credo sia ottimizzabile, ma diciamo che abbiamo cotto 6 pizze con un euro di pellet. Se sia tanto o poco non lo so, ma diciamo che si torna all’idea di spendere 300* euro per farsi la pizza in casa.

Questa è una foto che ho provato a fare nel forno durante una delle cotture. Fa schifo, ma già non sono Toscani di mio, immaginatevi dovendo fotografare dentro ad un coso che sta a 500°C. 

* Ooni Fyra io l’ho pagato 279,00 euro a Settembre nella stessa Agribrianza di cui dicevo sopra (avevo paura del secondo lockdown e ho preso un regalo di Natale a Settembre, sì.).
Sul sito, oggi, lo vedo a 259,00.
Come dicevo prima, per me li vale.

DISCLAIMER: Non credo si possa anche solo ipotizzare che qualcuno mi dia dei soldi per parlare di prodotti, ma lo specifico in ogni caso: tutto quello che ho scritto è solo per iniziativa personale.
Detto questo, se voleste pagarmi per farlo, sono qui.

Cobra Kai

Era tanto tempo che non divoravo una serie TV.
Le ultime serie che ho approcciato le ho mollate quasi tutte per strada e se ripenso alle ultime sessioni di binge watching vero l’unica cosa che mi viene in mente è il rewatch di Scrubs*. Non esistono più serie interessanti? Non credo, ma sono diventato tremendamente pigro e soffro un po’ l’effetto buffet di fronte ai cataloghi sconfinati di Netflix e compagnia. Tantissime portate, la curiosità di vederle tutte, ma al contempo il terrore di iniziare una cosa che non mi piace e quindi sprecare tempo prezioso che posso invece dedicare ad attività molto più sensate tipo il refresh compulsivo del mio feed Twitter.
Ne usciremo tutti migliori, dicevano.
Ad ogni modo la scorsa settimana è uscita su Netflix Cobra Kai, la serie che racconta le avventure di Johnny Lawrence dopo Karate Kid e ho deciso di guardarla con Paola. Ne avevo sentito parlare bene già ai tempi in cui uscì su youtube, ma non avevo mai approfondito perchè convinto prima o poi di poterla vedere, solo che a distanza di anni ancora non l’avevo fatto. Un side effect noioso che le piattaforme di streaming legale hanno avuto su di me è la totale mancanza di sbattimento nel voler vedere roba pirata. La pazienza di trovare i link, la qualità che spesso fa schifo, le pubblicità ed i rischi per la sicurezza informatica: tutte menate che i servizi a pagamento ti risparmiano, viziandoti. Per questo ormai o una roba esce in uno dei siti che pago (al momento Amazon Prime Video, Netflix e Disney+) oppure per me non esiste. Sono un anziano e gli anziani, oltre a divagare continuamente mentre scrivono il loro blog, sono pigri.
Tornando sul punto, sto giro se dio vuole per rimanerci, due giorni fa io e la Polly abbiamo approcciato questa nuova serie finendoci dentro con tutte le scarpe e guardando due stagioni in grossomodo un giorno e mezzo. Il motivo è semplice: è una serie stupenda.
Ok, la prima stagione è stupenda, la seconda piuttosto sotto tono, ma ha comunque i suoi momenti ed un buon finale e quindi nel complesso promuovo anche quella.
Quel che fa Cobra Kai è essenzialmente prendere l’idea alla base di una gag pensata dagli sceneggiatori di How I Met Your Mother (ref.) e farci sopra una serie vera e propria in cui si prova a guardare il mondo con gli occhi del cattivo, per scoprire che WHAT A SURPRISE la realtà è un po’ più complessa di quel che poteva apparire e quindi che è sempre utile provare ad analizzare tutti i punti di vista di una storia prima di parlare di buoni e cattivi, visto che la storia la scrivono i vincitori. Lo so, uno legge una cosa del genere e pensa che lo step successivo a Cobra Kai sia “Mussolini ha fatto anche cose buone”, ma non è lì che voglio andare a parare. La cosa interessante nel vedere le cose da più prospettive è che si può trovare conferma dell’impressione iniziale e corroborarla con uno spessore nuovo. E il Johnny Lawrence di Cobra Kai non è tanto diverso da quello del film, non diventa magicamente “un buono”, però è un po’ meno bidimensionale e fa affiorare le ragioni alla base dei suoi comportamenti sbagliati permettendo di empatizzare e quindi aprendo la porta ad una certa autocritica sociale: se empatizzi con gli stronzi e ne comprendi le ragioni, sei un po’ stronzo anche tu. Come è stronzo Daniel LaRusso che però, a differenza dello spettatore, è radicato nella sua convinzione di stare dalla parte del bene per via di tutti quei pistolotti zen di Miyagi, vede il mondo unicamente dalla sua prospettiva e non realizza quanto sia bullo e prevaricatore pure lui, invaso di una autoassoluzione che trova pari solo in Adinolfi e nei Talebani. La serie si gioca tutta lì: non vuole rivalutare nessuno, sposta solo il confine tra buoni e cattivi (anzi, diciamo che praticamente lo toglie) e infila tutti sullo stesso piano, cosa che fanno notare grossomodo tutti i personaggi di contorno, a turno. Perchè non è una serie particolarmente sottile eh, non pensiate ci voglia chissà quale bilancino per misurarne i contenuti. E’ scritta in indelebile a punta grossa, ma è scritta bene.
Il motivo per cui però vale davvero la pena guardare Cobra Kai è che è davvero uno spasso. Durante la prima stagione, soprattutto, io ho riso tantissimo (e pure mia moglie). E poi, finalmente, non è un prodotto hipster che prende l’estetica anni ’80 e la ricicla unicamente per moda e senza alcun tipo di necessità reale (penso a 13 o Stranger Things, per esempio). Qui gli anni ’80 hanno un peso specifico serio e, come Johnny Lawrence, vengono ripescati e presentati nella prospettiva giusta, che spesso li espone ad un giudizio severo, ma altre volte spinge a riflettere su quanta ipocrisia ci sia in chi li vuole denigare a priori. La chiave di lettura infatti è anche quella: il messaggio machista del cinema e della TV anni ’80 è evidentemente uscito sconfitto dal giudizio del tempo, viva dio, ma non per questo oggi lo si deve guardare come ad un male assoluto e degenere capace di produrre solo disadattati e persone prive di capacità relazionali. Anzi, forse la risposta a quel tipo di cultura ha spostato il piano eccessivamente oltre, creando nuove problematiche e fragilità a cui quel tipo di approccio, diciamo alpha, potrebbe fare del bene. Insomma, l’importante è trovare un equilibrio e usare la testa, invece di tapparsi occhi e orecchie gridando “è sbagliato e basta”.
Io almeno l’ho letta così.
Per chiudere, se devo dare un riferimento di cosa sia Cobra Kai, per me la similitudine migliore è “L’ispettore Coliandro del karate”, perchè per quanto le serie siano diverse tra loro, hanno il medesimo scopo e due protagonisti scritti con la carta carbone.
– Buone queste banane fritte.
– Sono platani.
– Ah, qui le chiamiamo BANANE.
Se non è una battuta di Coliandro questa allora non avete mai visto Coliandro. E non è l’unica.

* Sì, ho riguardato Scrubs e mi è piaciuto di nuovo perchè sono una persona orribile che non riesce a cambiare prospettiva sul mondo come dovrebbero fare tutte le persone cool e veramente di sinistra. My bad.

Contromano in tangenziale

ATTENZIONE: questo è uno di quei post in cui mi parlo addosso con lo scopo ultimo di cavar fuori una direzione al mio complicato modo di essere. Lo scrivo per lettori che non esistono, ma che ipotizzo eviterebbero volentieri di finire a leggere una cosa così senza preavviso.

La barzelletta di quello che guida contromano in tangenziale la conosciamo tutti:
+ La radio: “Avvistato un pazzo contromano in tangenziale…”
+ Uomo al volante: “Uno? A me sembrano tantissimi!”
Fa ridere.
Però io ci vivo dentro.

Il mio problema è che non sono matto a sufficienza da pensare di essere l’unico nel giusto, sempre e comunque, ma contemporaneamente non riesco a capire come faccia la maggioranza delle persone con cui interagisco a non vedere il mondo come lo vedo io. La testa, programmata per ragionare con logica, mi porta a pensare sia io quello sbagliato, eppure la stessa logica spesso non mi permette di trovare l’errore. E questo porta al crash del sistema.
Una canzone che mi piace dice:

Mio nonno
Per quasi settant’anni
È stato in minoranza
E sta benissimo!

È una bella frase e Dio solo sa quanto mi piacerebbe fosse applicabile alla mia vita. Purtroppo non è così: io la vivo male.
L’ultimo ambito in cui mi sto scontrando con le persone che frequento, da amici, a colleghi, a persone con cui in qualche modo interagisco online è la situazione relativa all’infezione da coronavirus che stiamo vivendo, ma è davvero solo un altro esempio di una routine in cui mi trovo a sedermi dal lato opposto della maggioranza dei miei conoscenti e investo ore nel tentativo di discuterne.
Vista da fuori è facile: è il profilo tipico di quello che gode nell’andare contro tutti, ma la realtà dei fatti (per lo meno a livello conscio) è esattamente all’opposto. Allora perché faccio così? Non lo so.
Di solito inizio a ragionare su un argomento a partire dagli elementi che ho in mano, costruendomi un’opinione che poi uso per dibattere col prossimo. Questo mi serve per approfondire, dare spessore al mio punto di vista ed irrobustirlo, oppure cambiarlo. Non so se sia cosí per tutti, ma per me funziona.
Ci sono volte (rare, imho) in cui però sono sufficientemente convinto di quanto sostengo da volerlo spiegare a tutti. Boh, forse è un retaggio evangelico della mia educazione cattolica, cazzo ne so. Il punto è che mi ci sbatto e quando fallisco di norma mi deprimo.
Il motivo ho provato a spiegarlo fuori contesto giorni fa su twitter:

Il problema infatti è che non mi metto mai a discutere con chi so a priori non possa farcela a seguire il discorso (a mio insindacabile e del tutto soggettivo giudizio), io punto solo su cavalli che stimo, gente che penso possa capire e che, se non arriverà a sposare la mia linea, nella mia testa lo farà argomentando in modo dettagliato ed univoco, fornendomi spunti di riflessione magari nuovi a cui non avevo pensato in partenza.
Quanto ci credo? Nel 100% dei casi.
Quanto succede? Non ho fatto un conto, ma la percezione sta intorno al 10-20%.
Eppure insisto.
Ogni cazzo di volta.
E così accumulo delusioni, amarezza e senso di inopportuno.

Sono le 2:49.
Questo post ho iniziato a scriverlo dopo essermi sfogato con quella santa di mia moglie, che alla 1:00 di tutto aveva voglia, tranne che di sentirsi vomitare addosso le mie menate esistenziali, soprattutto se derivanti dall’ennesima discussione su twitter con un estraneo.
Non sono per nulla convinto, razionalmente, di non essere io lo scemo del villaggio.
Eppure non riesco a prendere in considerazione la cosa e continuo a sentirmi come il tizio che corre sicuro di sé, contromano, in tangenziale.

Il 2019 di Manq

Fine anno, classico momento per tirare due somme. Oltretutto a questo giro finisce anche un decennio, quindi le somme da tirare sono anche più di due.
Dal 2010 ad oggi di cose, a voler guardare bene, ne ho combinate. Sono rientrato in Italia, ho preso un dottorato di ricerca, mi sono sposato, mi son trovato un lavoro a tempo indeterminato che tutto sommato mi piace, ho comprato casa, ho perso quasi quindici chili e ho messo al mondo due figli meravigliosi (ok, questo potrei non averlo fatto fisicamente io, ma ci siamo capiti). Un decennio decisamente positivo, nulla da dire. Un decennio in cui sono stato prevalentemente bene.
Eppure questo 2019 è stato l’anno in cui mi sono imbruttito.
Me ne rendo conto.
La spiegazione che mi sono dato è che… aspetta. Quel che segue è probabilmente un post di quelli che scrivevo nel decennio precedente, pieni di autoanalisi da quattro soldi e presa male gratis, quindi evitatelo. Davvero. Non è scritto per te.
La spiegazione, dicevo, che mi sono dato è che i due figli stupendi di cui sopra assorbano grandissima parte della mia pazienza. Il poco che rimane lo investo nel tentativo di non uccidere nessuno al lavoro e nei compromessi necessari alla vita di coppia. La cosa bella è che ho una moglie fantastica che 1) non usufruisce che di una porzione infinitesima della mia pazienza e 2) capisce quando non ne ho più e mi vuole bene anche se ogni tanto sbrocco.
Tutto ciò che sta fuori da questi tre ambiti, purtroppo, si becca un Manq a tolleranza zero e non è una bella cosa. Non lo è per chi mi sta intorno, ma non lo è nemmeno per me che di stare in mezzo alle persone inizio ad avere sempre meno voglia. Anche perchè vivo un quotidiano in cui tutte le interazioni si sono esasperate, estremizzate, e in ogni situazione c’è sempre qualcuno pronto a dirti quanto sei un coglione o ad insegnarti come si sta al mondo. 
Una volta abbozzavo. Serenamente. Magari mi spingevo nella discussione (senza il magari, son pur sempre quello che adora le discussioni), ma capivo piuttosto bene quando fermarmi e quando smussare. E lo facevo, di nuovo, serenamente. Oggi no.
Oggi mi trovo spessissimo a pensare “Ma perchè cazzo dovrei desistere dal mandare ‘sto tizio affanculo?” e l’unica risposta che ne esce è “per educazione” oppure, peggio, “per non incrinare il rapporto”. E sarò certamente io in un momento davvero passivo aggressivo della mia vita, ma ho l’impressione che a parti inverse nessuno si sia mai fatto questi scrupoli con me, quindi la vivo un po’ come essere in credito di 38 anni di diplomazia che nessuno sembra intenzionato a darmi indietro.
In più, come dicevo all’inizio, questo decennio è stato quello dei trent’anni che non è probabilmente il più divertente della vita, ma penso sia quello della realizzazione personale. Per me lo è stato.
E’ difficile guardare ai prossimi dieci anni con lo stesso senso di sfida o con la stessa fame di risultati. Anzi, è ovvio che prima o poi la vita inizi a chiedere conto anche delle rotture di coglioni che ci sono per tutti e che io, unicamente per fortuna, fino ad oggi sono riuscito a schivare. 
L’ho detto, mi sto imbruttendo.

Quest’anno ho ascoltato un po’ di dischi, qualcuno anche molto bello.
Li ho riassunti in una playlist di 12 canzoni, scegliendo per ogni mese quella più rappresentativa della fissa che avevo in quel momento.
Non è malissimo, la metto qui sotto.
Buon anno.