Qualche genio indiscusso si é messo a creare clip in cui dichiarazioni e tweet di Donald Trump diventano pezzi emo stile primi anni 2000.
Il primo l’avevo visto tempo fa, ma ho scoperto che ne sono usciti altri e che qualcuno ci ha fatto una playlist.
La metto qui sotto, sperando ne escano ancora tantissimi.
Nel tentativo semi-disperato di trovare ragioni che giustificassero l’andare all’I-days di Monza, mi sono riascoltato Hybrid Theory su Spotify.
I Linkin Park sono una band di cui non sento nessuno parlare bene da almeno 14 anni. In realtà non sento proprio nessuno parlarne in generale, salvo poi scoprire che possono fare 90K persone a Monza. Stando alla mole di foto e video che ho visto condividere il giorno del concerto, molti sono miei amici su Facebook.
Non mi metto a fare riflessioni sul fatto che i Linkin Park possano o meno aver avuto un senso come band in generale, ma Hybrid Theory è uscito nel 2000 ed ha tirato sotto me che stavo nel mio periodo elitarista punk/HC come il mio testimone di nozze che nella sua vita ha avuto 3 capisaldi musicali: Max Pezzali, GG D’Agostino e Pitbull. Per me questo significa qualcosa ed è qualcosa di positivo.
Ad ogni modo ho risentito il disco è ho commentato così:
Io ho dei principi e non rivedo le mie posizioni, ma oggi sto sentendo Hybrid Theory dopo tipo 17 anni. E ancora tiene.#RincorsaLunga
Ancora tiene.
Sembra una roba da poco, ma ai tempi io avevo preso bene anche il disco dopo che però non ce l’ha questa fortuna. Meteora ascoltato oggi non supera la terza traccia, poi mi tocca spegnere. HT invece riesce ancora a colpirmi negli stessi punti di allora, suscitandomi le stesse sensazioni di allora. Hybrid Theory è una bomba di disco non perchè è uscito quando ero ragazzino, non perchè ho dei ricordi particolari collegati ai pezzi, ma perchè suona giusto e funziona alla perfezione.
17 Giugno 2017
Ovviamente alla fine all’I-Days ci vado. Ci trovo tutto quello di cui si è detto male in merito all’evento: le code, la disorganizzazione, i token per l’acqua da 15 euro minimo (#vaffanculo), le transenne e circa ottantacinquemila persone più di quante sarebbe stato bello presenziassero per poter godere dell’evento invece che venirne sopraffatti. Il set dei Sum 41 lo vivo malissimo, cercando mantenere in vita tre ragazzine spaesate e spaventate, quello dei Blink mi fa girare oltremodo il cazzo per troppi motivi. Sono sotto il sole da sei ore senza un cappello e respiro polvere da almeno tre. Ho un mal di testa che mi sta letteralmente spaccando in due.
Ai LP mancano 50 minuti.
Parlo con Max e ha il mio stesso feeling. Decidiamo di andarcene. Avendo parcheggiato a distanza siderale dall’autodromo ed avendo completamente perso cognizione di dove fosse la macchina vaghiamo per un tempo non precisabile, con il set dei LP in sottofondo. Non pare malaccio.
19 Giugno 2017
Cazzeggiando al PC scopro che qualcuno ha messo online tutto il live dei LP in qualità ottima, con riprese professionali eccetera. Butto un occhio alla scaletta ed è dignitosissima, così mi guardo il set. Suonano davvero troppo sgonfi per poterli apprezzare sul video di un PC, ma tutto sommato forse restare poteva avere un senso. Scrivo a Max su skype.
Manq: “Oh, ho visto il set dei LP su youtube, non è male.”
Max: “Eh, cazzo, ho visto. Ho un po’ il rimpianto, potevamo restare.”
Manq: “Già… va beh dai, la prossima volta che passano NON in un festival ci andiamo.”
20 Luglio 2017
Chester Bennington si impicca a quarantun’anni per ragioni che non è necessario conoscere. Evidentemente non stava bene.
I LP non sono stati mai una band centrale nella mia vita, il ruolo più importante che hanno avuto era quello di essere qualcosa che potevi mettere in macchina quando uscivi con gli amici o ci andavi in vacanza, senza scatenare insurrezioni o mostrare il fianco a filippiche sulla musica di merda che ascolto. Probabilmente il grosso della botta che ho avuto tra ieri e oggi deriva dalla storia che ho raccontato qui sopra, questa sorta di senso di colpa nell’averlo snobbato nell’ultima occasione che ho avuto per vederlo stare su un palco.
Questa mattina ho ascoltato di nuovo Hybrid Theory e forse il dispiacere più grande, a conti fatti, è che servano sempre pretesti del cazzo per metterlo in cuffia e venire a patti col fatto che è un bel disco.
Mi ricordo quel giorno come se fosse ieri
(Forse era ieri)
Ho beccato sto video su Facebook e all’inizio ho pubblicato il post così, senza scriverci nulla sotto a parte lo stralcio di strofa qui in alto.
Mi sembrava abbastanza self-explanatory, o almeno a me era arrivato con un unico significato di base: una riflessione velatamente critica sul fenomeno TRAP che ci sta investendo ultimamente, analizzata a 360° in termini di suono, contenuti e immaginario correlato.
Grasse risate quindi.
Non sono la persona più adatta per parlare di questa cosa della TRAP, conosco effettivamente solo ciò che mi arriva in faccia mio malgrado, tipo la Dark Polo Gang, e ci sono ampie possibilità perchè non sia proprio la crema del fenomeno. Recentemente ho letto cose a tema che condivido (nel senso che qui c’è il link alla più significativa), ma non ho le basi per farci un discorso mio sopra.
La roba che mi interessa scrivere invece riguarda tutta un’altra lettura, a cui sono arrivato una volta smesso di ridere del video delle focaccine ed aver iniziato a leggere in giro roba che lo riguarda.
La prima nota interessante è che sta cosa sta in cima, o comunque è messa gran bene, nelle classifiche di ascolto di Spotify. Magari sbaglio, ma questo esce un po’ dal mio concetto di “parodia”. Non tanto che sia ascoltata eh, ma proprio che esista su Spotify, che sia stata pensata come canzone e non come un video divertente per pigliare per il culo un fenomeno. Non è una roba tipo Jackal con Depsacito, per dire.
Della DPG si dice spesso sia un fenomeno di quelli nati “per il LOL”, definizione internettiana che accomuna tutte quelle cose fatte un po’ per ridere, ma di cui non è mai dato sapere quanto sia reale la portata goliardica, o in che percentuale sia parte del progetto. Tempo fa si è parlato per giorni dello scontro tra Bello Figo e la Mussolini, investendo il primo di una qualche portata politica ed indicandolo come portatore di un messaggio che poi, boh, guardando Pasta con Tonno io fatico a comprendere. E’ probabile io sia troppo vecchio per queste stronzate (cit.), e certamente il fenomeno non è il primo ad esulare dalla mia comprensione, però nello specifico ho l’impressione si cerchi in tutti i modi di infilare a forza una dignità in qualcosa che non è detto ce l’abbia, o ancor peggio, voglia averla. Per me la DPG sta allo stesso livello semantico.
Se non inciampo nella lettura quindi, i livelli sono questi: esiste la musica, poi esiste la DPG che ha come obbiettivo il riderne (il come non è ora il centro della questione) e poi c’è Mr. Focaccina che immagino voglia ridere di chi ride della musica. Tre livelli.
Però la DPG sta in classifica, anche messa piuttosto bene, quindi di fatto è musica, con un pubblico di ascoltatori e tutto il resto. A questo punto OEL (il tipo che ha fatto il pezzo qui sopra) si porrebbe l’obbiettivo di ridere di questo nuovo trend musicale e quindi i livelli diventano due.
Anche “Le Focaccine dell’esselunga” però sta in classifica e di conseguenza tutto si appiattisce ad un unico livello.
Non si capisce più se ci sia volontà di prendere delle distanze, di dire qualcosa, oppure se sia tutto semplicemente uno stesso calderone, dove il piattume è talmente sconvolgente da necessitare livelli estremi di assurdo per uscire dal mare magnum di prodotti disponibili e farsi in qualche modo notare.
Sono confuso.
Nell’ultimo periodo ho seguito davvero marginalmente la questione Liberato e quella di Cambogia (linko 2 pezzi a caso senza leggerli, giusto per darvi qualche info che non ho voglia di scrivere io), ma il succo è che della musica, a conti fatti, non fotte più nulla a nessuno. E’ un corollario ad operazioni di marketing, studi sociologici, video sul tubo. Non dico sia una novità, con il web negli anni 70 probabilmente in classifica ci sarebbero stati i jingle del carosello, però a me è una cosa che stranisce.
Leggo che non si capisce bene nemmeno se Esselunga sia coinvolta nella cosa. Magari sì, magari no. Forse è saltata sul carro una volta visti i numeri, magari è una pensata dei loro media manager fin dal giorno uno. Difficile non ne sappiano un cazzo.
Il punto è che io dovrei in qualche modo spendere del tempo per togliermi il dubbio e capire se sto ascoltando un tipo che vuol fare musica dicendo delle cose, se è solo uno che percula una moda fastidiosa o se è una cazzo di trovata pubblicitaria.
Boh, magari per voi è una cosa normale, ma a me lascia un po’ perplesso.
Onestamente è difficile per me capire da dove iniziare a raccontare questa storia.
La prima immagine che mi viene in testa è di un ragazzino in macchina che canta più forte che può, ma il volume a cui suona la cassetta è così alto che nessuno potrebbe sentirlo. Sta tornando a casa frustando i cavalli della sua Y10 pervinca, in preda ad un euforia tutta giovanile che potrebbe essere correlata ad una certa ragazza.
Oggi quella cassetta si è persa chissà dove, la macchina è stata venduta, la casa a cui faceva ritorno non è più casa sua e la ragazza ha smesso da moltissimo di essere il fulcro della sua euforia.
In realtà anche quel ragazzino, oggi, non esiste più.
Well, I guess this is growing up.
Dude Ranch esce il 17 giugno del 1997, ma io lo sento per la prima volta nella primavera del 2000, in un negozio di dischi di Monaco di Baviera.
Sto dietro ai Blink dall’autunno del 1999, quando What’s my age again inizia a girare per radio e in tele, ma ancora sono un po’ scettico a riguardo. Orifizio mi passa la cassetta di Enema of the State dicendomi: “Questi sono tipo i Lit.” e io dentro ci trovo alcune cose che sì ed altre che proprio no, quindi sono perplesso.
Nel 1999 il mio gusto musicale fonda su un unico canone stilistico: quanto va veloce la batteria. Ascolto un disco e decido se approfondire o no unicamente in base a quanto spinge(1). Ho dovuto recuperare a posteriori un sacco di roba a causa di quel criterio di selezione, ma non è il caso di parlarne adesso.
Il punto è che Enema of the State non mi forniva garanzie sufficienti a determinare se questi Blinkcentottantadue fossero o meno gente giusta. Facevano video divertenti(2) e i singoli si incollavano in testa, ma stiamo pur sempre parlando del 1999, quando l’integralismo era TUTTO e un gruppo che passava in radio o TV semplicemente non mi doveva piacere(3). Nel giro che frequentavo io c’era questo parere ultra condiviso: “i dischi prima erano fighi e velocissimi, ma poi si sono venduti” e io mi ci aggrappavo abbastanza forte per poter andare avanti a capirne di più.
Il problema è che questi fantomatici dischi prima non li aveva nessuno, o quantomeno nessuno che potesse passarmeli.
Arriviamo quindi a questa benedetta primavera ’00.
Io e Ciccio suggelliamo la nostra supremazia come rappresentanti di classe organizzando la prima gita vera della nostra storia liceale. Cinque giorni a Monaco di Baviera, insieme ad una 4° nota a tutti come “la classe delle fighe” (#truestory). Il primo giorno in loco abbiamo qualche ora libera per le vie del centro ed entriamo in un negozio di dischi, che era più un megastore tipo la Ricordi a voler essere onesti.
La cosa fighissima è che in questo posto potevi prendere un disco qualsiasi dallo scaffale, portarlo in cassa ed ascoltartelo in cuffia per tutto il tempo necessario a farti un’idea. Senza impegno. Io sono arrivato in cassa con due CD: Dude Ranch e un disco orrendo dei Vandals (mi pare).
Ho consegnato Dude Ranch al cassiere, ho messo le cuffie ed è successo questo:
Don’t pull me down, this is where I belong I think I’m different, but I’m the same and I’m wrong
I Blink per me sono questa cosa qui.
Tom che pensa ai riff unicamente sulla base del fatto che debbano essere velocissimi, senza curarsi se sarà mai in grado di suonarli dal vivo (SPOILER: no), Scott che fa filare via la batteria drittissima e le due voci che si intrecciano e si completano, diverse ed immediatamente identificabili. Non so come vi approcciate all’acquisto di un disco voi altri, a me è bastato arrivare al primo ritornello di questo pezzo qui e la decisione era presa ed irrevocabile.
Il disco però me lo sono sentito tutto lo stesso, lì in cassa, perchè con me in gita avevo solo il mio vecchio walkman a cassette e ci sarebbe stato il rischio di non poterlo fare fino al rientro a casa. Io non ho capacità di aspettare. Zero proprio. Se compro un disco, lo devo sentire subito, se compro un videogame ci devo giocare subito, se compro qualcosa da mangiare spinto dalla gola, devo mangiarla subito. E’ brutto, fidatevi, i miei picchi di entusiasmo sono altissimi, ma hanno un’emivita brevissima.
Did you hear he fucked her?
Dammit è la terza traccia del disco e la conoscete tutti. E’ il pop-punk per antonomasia. Ha la melodia giusta, il testo giusto e perfino il video giusto per essere il singolo perfetto, nel 1997. Infatti funziona e i Blink con Dammit fanno il primo vero botto della carriera.
Ora però provate a riascoltarla.
Ascoltate la voce di Mark e fate mente locale, non ci sono altri pezzi dei Blink in cui canta in quel modo, con quella voce graffiata e ruvida, con quel carico emotivo. C’è una certa urgenza nel far passare un concetto, dentro Dammit, una seconda chiave di lettura che ti porta a pensare non sia stata scritta per andare in radio o fare da sfondo a scenette buffe in un video e che forse sia diventata un singolo anche un po’ suo malgrado, con tutte le virgolette possibili. Ho sempre pensato che introdurla con This one song e infilarci in mezzo pezzi da tormentoni di teen idol a caso quando la suonavano dal vivo avesse da sempre la valenza di rimarcare questa cosa (allego indizio1 e indizio2 a supporto). Poi sono arrivati i singoli veri e tutto ha preso un’altra piega, ma Dammit resta diversa. Innegabilmente diversa.
Dicklips era uno dei pezzi che conoscevo prima di ascoltare il CD perchè c’era stato uno speciale su TMC2 dedicato ai Blink in cui era contenuto un estratto da un live tedesco(4) dove la suonavano. Me lo ricordo perchè ad una certa Mark canta un pezzo di ritornello sopra il bridge e Tom gli fa “NO” con la testa. A me quell’aggiunta è sempre piaciuta un botto e questo piccolo scorcio è se vogliamo un altro manifesto della questione.
I think you need some time alone
You say you want someone to call your own
Open your eyes, you can suck in your pride
You can live your life all on your own
Il testo di Waggy credo sia uno dei pochissimi che ho ritenuto rilevanti nella mia vita adolescenziale. Non ho mai badato più di tanto ai testi delle canzoni da ragazzino, un po’ per carenze linguistiche e un po’ perchè in molti casi non avevano davvero nulla da dirmi, ma qui iniziavo a viverla in un certo modo, ad avere un età per cui certe cose iniziavano a diventare importanti. Forse uno dei primi dischi di cui ho preso in mano i testi e ci ho trovato qualcosa che mi parlasse. Arrivavo da tutto un filone di punk-rock sociale, riottoso e se vogliamo “impegnato” che sì, ok, ci stava come messaggio di ribellione giovanile, ci credevo anche un bel po’ volendo, ma che sentivo comunque distante. La mia vita di tutti i giorni era più orientata agli amici e al tentativo di guarire da una forma cronica di figarepellenza, piuttosto che a salvare il pianeta. Questo disco parlava di quelle cose lì, di avere la mia età e di cercare di viversela al meglio, divertendosi, anche quando c’erano i problemi. I miei non saranno stati rilevanti come il buco nell’ozono o la guerra in medio oriente, ma a diciannove anni li sentivo certamente più incombenti.
Non posso raccontare tutto Dude Ranch traccia per traccia, perchè se no da questo post non ne esco più, però il blocco centrale resta un agglomerato di capolavori irripetuti (ed irripetibili) per la band di San Diego. Enthused, Untitled, Apple Shampo e Emo. Quattro pezzi monumentali, che per me non sono invecchiati di un minuto. Li sento oggi e mi danno la stessa manata di quando li ho sentiti la prima volta. Ovunque io sia, mi prendono e mi portano da un’altra parte, in un posto dove sto e starò bene sempre.
Dopo aver scritto la frase sopra ho realizzato che la traccia seguente è Josie e che dice esattamente quella cosa lì. Non è una citazione voluta, ma a pensare come sia venuta fuori involontaria sorrido molto.
She’s so smart and independent, I don’t think she needs me
Quite half as much as I know I need her
I wonder why there’s not another guy that she’d prefer
I miei vent’anni sono esattamente questa cosa qui sopra.
Gli amici come nucleo cui tutto attorno gira, definire se stessi come alternativa ad una massa che, a voler ben guardare, aveva fatto capire abbastanza chiaramente di non volermi al suo interno. Capelli colorati, pantaloni corti, piercing e tatuaggi che poi non ho mai fatto, fino al trovarsi morose per cui ti chiedi sul serio se non ci sia qualcuno meglio di te a cui dovrebbero puntare. Cercare di dissimulare timidezza ed insicurezza facendo lo scemo.
Ho sentito spessissimo la frase “music saved my life” e non sono mai riuscito a darle un senso reale, ma certamente ci sono dischi che mi hanno mostrato la via attraverso cui muovermi per uscirne, se non vittorioso, quantomeno in piedi. Dude Ranch è il più importante di tutti e finisce così.
I know it hurts
But you’re just getting older
And I know you’ll win
You’ll do it once again
Alla fine ce la si fa.
Ancora oggi è il modo con cui mi piace guardare alle cose.
Insieme a tutto quello che il tempo si è portato via, ci sono anche i Blink 182 che, oggi, sono una cosa che poco ha a che fare non tanto con questo disco, ma con il concetto di band in generale. A vent’anni sognavo di essere Tom DeLonge e suonare nei Blink, oggi anche ci fossi in qualche modo riuscito, il sogno sarebbe comunque infranto per metà.
Il giorno in cui Dude Ranch compie vent’anni i Blink suonano a Monza ed è incredibile pensare che sul palco, per 2/3 della band, questa cosa non significherà niente.
Io non so ancora se ci andrò, alla fine.
Da un lato scrivere di questo disco negli ultimi 15 giorni(5) mi ha messo nel peggior mood possibile in relazione al concerto, ma dall’altro c’è sempre il discorso della manciata di canzoni per cui avrà sempre e comunque senso uscire di casa ed andare a sentirle sotto il palco col dito alzato.
Chissà come andrà a finire.
L’altra sera ho rivisto American Reunion(6) e mi sono divertito molto, per dire.
(1) lo faccio ancora e funziona 9/10. (2) il video divertente è stato la rovina dei Blink 182, qualcosa da cui non sono mai riusciti a smarcarsi, forzati in un crescendo per cui ogni volta dovevano in qualche modo mostrarsi più idioti della precedente quando in realtà lo erano meno. Poi oh, gli ha anche fatto fare i miliardi quindi credo per loro sia andata bene così. (3) lo so cosa stai pensando: e gli Offspring? e i Green Day? Nel 1999, per me, erano tutti dei venduti. Sad but true. (4) ho ritrovato quel video, il link è questo e l’episodio a cui mi riferisco sta a 1:41. (5) Non ho mai iniziato a stendere un post con quindici giorni di anticipo e credo sia indice di quanto tenessi a questa cosa. Come ovvio, metterci così tanto mi ha incasinato la testa e ora o paura di rileggere per timore che non mi piaccia per nulla. Molte cose il tempo se le è portate via, ma l’insicurezza non se ne andrà mai. (6) I primi due American Pie per me sono l’equivalente cinematografico di questo disco. American Reunion è il quarto episodio, con cui sono tornati al cinema dopo una decina d’anni. (7)Dude Ranch l’ha prodotto Mark Trombino, che oltre a questo disco ha prodotto una camionata di altri dischi fondamentali per il sottoscritto. Lo so, il rimando numero 7 nel testo non c’è, ma questa cosa andava scritta da qualche parte.
13 é una serie Netflix il cui titolo originale, evidentemente intraducibile, é “13 reasons why”. Parla di una ragazza del liceo che si ammazza, ma prima di farlo lascia alcune audiocassette con le ragioni per cui l’ha fatto. Ognuna di queste ragioni è riconducibile ad uno dei suoi compagni di scuola, che lo scoprirà solo dopo il fattaccio proprio ascoltando queste cassette, secondo un piano escogitato dalla morta. Non la sto banalizzando o rendendo più scema di quel che è, la sinossi è esattamente questa, ma un plot assurdo non implica necessariamente il prodotto che ne esce faccia cagare.
Volendone parlare, quale modo migliore se non stilare una lista di 13 commenti?
Probabilmente molti, tutti più originali, ma tant’è, quindi ecco la mia lista.
1) In questo pezzo ci saranno degli SPOILER, tutti ben indicati. Questa, a ben pensarci, è una cosa piuttosto assurda perchè la storia è nota dal primo minuto. La serie però è scritta in modo furbo, cercando di portare lo spettatore a chiedersi, passo dopo passo, chi avrà fatto cosa. Dovendo prendere una rincorsa infinita di 13 episodi e volendo dare al tutto un effetto climax per cui in ogni cassetta c’è un misfatto peggiore del precedente, il risultato è che per i primi 4/5 episodi la cosa stenta davvero ad ingranare. Superato il pilota, infatti, ci si trova di fronte ad una prima parte di stagione in cui sai che la tipa s’è uccisa, ma i problemi che ti presenta ti risultano troppo difficili da prendere sul serio e questo contrasto è davvero tosto da ignorare. Sembra un Pretty Little Liars, ma senza la vena demenziale e quindi senza un senso. Poi però l’intreccio si fa via via più pesante e l’attenzione aumenta, anche e soprattutto perchè vuoi sapere il ruolo nella storia di Clay.
2) Clay è il co-protagonista della vicenda, ovvero il tizio che si sta sentendo le cassette e attraverso cui riviviamo le vicende di Hannah. Il fatto che stia sentendo i nastri implica che sia una delle 13 ragioni e, per come viene presentato nel corso degli episodi, non è facile immaginare come mai possa esserlo. Da lì la curiosità che spinge a proseguire, episodio dopo episodio. In questo aspetto la serie ha, credo, il suo più grande difetto strutturale, perchè dopo undici dei tredici episodi… arriva uno SPOILER… è evidente che Clay nella lista semplicemente non ci dovrebbe stare. Siamo di fronte ad una delle più grandi prese per il culo ai danni dello spettatore dai tempi degli orsi polari di Lost e, come in Lost, funziona benissimo perchè quando il velo cade e capisci che sei stato preso in giro, ormai sei talmente dentro la vicenda da passarci sopra. Il trucco paga, quindi, ma sempre un trucco resta.
3) 13 è uno show che si propone, principalmente, di sensibilizzare i teenagers verso tematiche serie come il bullismo, la violenza sessuale ed il suicidio. Un altro sbaglio che fa, a mio avviso, è quello di tratteggiare in maniera troppo fine e discontinua il confine tra giustizia e vendetta. Io non ho problemi quando una serie o un film parlano di vendetta, anzi, ci sguazzo in quel tipo di narrativa. La vendetta però non può avere spazio in un contesto pedagogico/formativo. Se la serie vuole lanciare un messaggio e sensibilizzare, allora è alla giustizia che deve tendere. In 13 invece c’è un po’ troppa sindrome da Selvaggia Lucarelli, quel meccanismo che ti parla alla pancia e crea fomento, rabbia e voglia di “veder pagare i colpevoli”. Siamo nella società americana, i ragazzini hanno accesso alle armi e questo viene mostrato anche nello show. Se il bullismo diventa qualcosa di cui vendicarsi, il rischio è di chiudere un buco ed aprire una voragine.
4) In termini di sensibilizzazione però 13 fa una cosa molto bene: mostra. La scena del suicidio di Hannah è cruda, diretta, sconvolgente. Nel finale di stagione la sofferenza viene davvero fuori tutta, senza filtri, e questo è quel che serve se si vuole generare una reazione nello spettatore. Sono finiti i tempi delle moraline spicce da 7th Heaven, o dei drammi acqua e sapone. L’obbiettivo non è suggerirti idee distanti di malessere ipotetico, ma è darti una sberla e farti aprire gli occhi. Il mondo che viene raccontato è esattamente quello che circonda anche te.
5) Ultimamente Netflix punta molto sull’effetto vintage. Parlandone con un amico abbiamo convenuto come questo sia un barbatrucco per garantirsi l’audience anche da parte di chi teenager non lo è da tempo, ma che invece costituisce la grande maggioranza dell’utenza del canale: i trentenni. Tutta la storia delle cassette, intese come formato, non ha una reale utilità narrativa se non dare al prodotto l’ormai fortunatissima patina anni ottanta, che su di me ancora funziona, ma che, a lungo andare, temo finirà per andarmi in noia. Il lato positivo però è che…
6)… la colonna sonora è una mina, indubbiamente tra le cose migliori della serie. Se del revival estetico faccio fatica a capire il senso e anzi in certe situazioni addirittura mi disturba, non potrò mai, MAI, lamentarmi di serie che usano Elliott Smith al posto di Ed Sheeran.
7) A differenza di Brian Yorkey, l’ideatore della serie, inizio a pensare siano troppi 13 motivi per parlare di 13. Quindi, come Brian… SPOILER… ne uso uno due volte. La colonna sonora è molto molto ben curata e pensata. Nonostante Selena Gomez.
8) Al di fuori della storia principale, è stato fatto un certo lavoro sulla costruzione dei personaggi collaterali. Non sempre buono, ovviamente. I compagni di Hannah ballano infatti spesso sul confine tra cliché e macchietta (la ragazza con due papà che si scopre lesbica è probabilmente il punto più basso in tal senso). Il meglio viene fuori, a mio avviso, nella descrizione delle famiglie. Da quella di Clay, ai genitori della defunta, fino anche a situazioni più collaterali come la famiglia di Alex. Lo stereotipo è spesso dietro l’angolo, ma tutto sommato non disturba troppo e fa il paio col fatto che in diversi casi anche la morale che lo show lancia tende ad essere tagliata con la scure. Il mio avere bisogno di sfumature però non è target per lo show, che come detto punta a sensibilizzare e in tal senso, volendo parlare a gente di un’età per cui tutto è bianco o nero, colora tutto di bianco o nero. Credo sia una scelta giusta e che alla fine abbia pagato.
9) Il cast di ragazzini funziona piuttosto bene. Fa sempre un po’ specie notare come il livello di interpretazione medio sia alto in prodotti come questo, anche quando coinvolgono ragazzi molto giovani. Per essere una storia di drammi adolescenziali, direi che il rischio più grande è sempre quello dell’overacting, l’esagerazione, e qui, a memoria, non succede mai. Sono bravi, misurati e credibili in tutte le situazioni. Questo, ovviamente, aiuta molto.
10) Momento pippone, lo dico prima così eventualmente si può saltare il paragrafo. Ad un certo punto, nell’ultimo episodio, si susseguono le deposizioni dei ragazzi di fronte alle parti legali che seguono il caso. Una di queste coinvolge Kat, unica vera amica di Hannah che lascia la città ad inizio stagione e che non ha un reale ruolo nella vicenda. Proprio perchè non coinvolta direttamente nel plot, le viene affidata dagli sceneggiatori una delle dichiarazioni più a fuoco ed interessanti. L’analisi riguarda il sistema scolastico americano, ma per una volta la chiave di lettura non è legata alle diversità economiche, quindi a fattori esterni che entrano nella scuola e ne condizionano la vita, ma alla stratificazione sociale che si crea dentro la scuola in relazione allo sport. La cultura sportiva americana, che parte dai licei e che spesso viene largamente indicata come esempio positivo (non a torto, va detto), qui viene mostrata attraverso il suo lato più crudo e duro. La scuola che come primo obbiettivo ha la formazione di future star dello sport, che ne determinano il prestigio e a cui tutto diventa dovuto. Formazione sportiva, ma non dello sportivo in quanto uomo. Non è un tema nuovo, ma credo sia affrontato particolarmente bene.
11) Il finale resta aperto. Lo scopo non è mostrare una risoluzione “giuridica” delle vicende, la risoluzione cercata è solo nella vita dei protagonisti, tra chi supera la tragedia e chi ci rimane invischiato dentro. Le cicatrici restano su tutti e tutti hanno, alla fine, dovuto venire a patti non tanto con quanto avevano fatto, ma con la persona che hanno realizzato di essere. L’ho trovata una gran bella soluzione, che spero resti tale a fronte del fatto che…
12) La serie è stata confermata per una seconda stagione. Evito appositamente di cercare in rete come sarà strutturata e di cosa parlerà, proprio perchè resto convinto che le vicende del Liberty High abbiano già avuto degna conclusione. Non so quanto possa essere fattibile un nuovo “caso” da svelare attraverso un susseguirsi di ragioni/indizi. La prima stagione si lascia aperta quella porta… SPOILERONE… con Alex, ma salvo assurdi salti mortali in fase di scrittura, dubito ci sia davvero qualcosa di più che abbia senso raccontare in merito. Lo show potrebbe quindi continuare a mostrarci le storie di Clay e compagnia, diventando con ogni probabilità un’altra cosa completamente sconnessa dalla stagione precedente e dal suo stesso titolo. Come se Dexter fosse morto alla fine della prima stagione e si fosse andati avanti con protagonista la polizia di Miami, ma senza il serial killer, reale tratto distintivo che oltretutto presta il nome al prodotto. Non che sia vietato eh, però ho davvero tanti dubbi.
13) Giudizio finale: a conti fatti per me è un sì. Non ho l’età per farne la mia serie preferita, ovviamente, e non credo nemmeno sia così buona come se ne legge o sente in giro, però dal momento in cui ingrana porta a casa il risultato con soddisfazione, sia questo intrattenere un adulto o far ragionare un ragazzino. C’è da turarsi un po’ il naso qua e la, quando il teen drama viene fuori più prepotente e porta l’anima thriller in secondo piano, ma sono cose che si superano.
Poi oh, io non ho nulla contro i teen drama, Dawson’s creek resta una delle mie serie della vita, però ecco, l’ho vista che avevo 17 anni. Non 36.
Ce l’ho fatta, ho scritto 13 commenti su 13*.
Ora spero di riuscire a scrivere anche qualcosa che non tratti di serie TV.
Prima o poi.
* in realtà no, mentre scrivo questa chiusa ne ho messi insieme solo 10 e mi son già giocato la ripetizione. Ma credo molto in me.
Questo post inizia da Pavel Nedved.
In trentacinque anni credo di non aver mai odiato un calciatore avversario quanto ho odiato Pavel Nedved, personificazione se ce n’è una del tristemente noto “Stile Juve” nella sua unica accezione possibile: quella negativa. Tutelato dagli arbitri qualunque porcheria facesse, simulatore come pochi altri nella storia del giuoco, il ceco è stato per anni un catalizzatore fulgido del mio disprezzo. Riusciva a farmi odiare la Juve anche più di quanto già la odiassi e, davvero, è come spingere qualcosa a superare la velocità della luce.
Chiunque capisca di calcio non può negare Nedved sia stato un grande giocatore, magari non tra i primi della storia, ma innegabilmente un ottimo calciatore. Nel 2003 ha vinto anche il pallone d’oro, in un’epoca in cui il premio non era necessariamente assegnato al più forte di tutti, ma al più determinante o incisivo nella stagione. Gli addetti ai lavori ne parlano anche come un grande professionista dentro e fuori dal campo.
Se lo chiedete a me però, Nedved è e sarà sempre una merda prima come uomo e poi come sportivo, irredimibile, e non c’è nulla che abbia fatto nella sua carriera in grado di farmi cambiare idea. E’ una posizione sincera e rispettabile, ma chiaramente poco obbiettiva.
Gli Aiden sono tante cose. Una band lo sono stati per poco, ben presto si sono trasformati in una sorta di emanazione dell’ego del loro frontman, all’anagrafe William Roy “wiL” Francis, uno di quelli che ad un certo punto della vita, in genere troppo presto, decide di essere il più grande e controverso artista di ogni epoca. A volerli descrivere, parliamo di cinque ragazzi cresciuti ascoltando grossomodo quello che ascolto io che nei primi anni 2000, poco più che ventenni, hanno pensato fosse una buona idea cavalcare l’onda nascente della poseraggine tutta polsini, frangette, tatuaggi e mito dell’oscurità. Sono gli anni del nu-emocore e di twilight, per dare dei riferimenti. A vent’anni cazzate ne abbiamo fatte tutti, ma visto il baratro in cui la scena è piombata in seguito a questo fenomeno, diventa complesso non farne una colpa a chi ha contribuito attivamente alla caduta e gli Aiden sono certamente tra i primi ad aver preso la pala ed iniziato le operazioni di scavo.
E’ quindi più che lecito trovarli detestabili per ciò che rappresentano, un’idea di musica basata sull’apparenza e unicamente figlia della ricerca spasmodica di visibilità che la moda del momento può dare. Non che sia un fenomeno innovativo o peculiare all’interno della storia della musica, dalle boy-band all’indie rock, passando per il pop-punk anni novanta o lo pseudo rap di Fedez oggi, fare musica per moda è un concetto ricorrente. L’aggravante per gli Aiden credo sia soprattutto nel fatto che il trend scelto da loro sia indiscutibilmente il più osceno e rivoltante di tutti i tempi, cosa che non sono certo qui a negare. Li prenderei a sprangate anche solo per i pantaloni skinny e gli shorts sopra il ginocchio.
Quindi chiariamoci: capisco il disprezzo che la comunità riserva loro.
I can feel it.
Cosa rende diversi gli Aiden da Pavel Nedved?
Nedved era un individuo ben riconoscibile, lo juventino tra gli juventini, il simbolo. Gli Aiden al contrario si perdono all’interno di un marasma di band esteticamente identiche, un’ondata di merda oceanica che l’avvento della musica libera online ha trasformato in tsunami e riversato nelle nostre orecchie. L’attaco dei cloni. Centinaia di band sovrapponibili e prive di identità a godere simultaneamente della stessa identica (sovra)esposizione mediatica. Indistinguibili. Un terreno quantomai fertile per l’effetto sineddoche, in cui dici Aiden per dire “la scena fake-emo-punk-dark primi anni zero”, quindi ti accanisci con loro per accanirti con ciò che rappresentano. L’esatto opposto di Nedved.
Il perderli dentro una scena fluida di gruppi privi di qual si voglia peculiarità è certamente discorso soprattutto estetico, ma può avere basi anche musicali se si pensa a roba tipo “Conviction”. Quello che mi preme tirare fuori con questo post però è che a quella roba lì arriva da un percorso abbastanza peculiare e se vogliamo “più onesto” rispetto alla massa e, anche se questo non li redime come band, può redimere un disco.
Questo disco.
Dicevamo di ragazzini di poco più di vent’anni con la fissa di un certo punk-rock anni novanta incline ad un certo tipo di estetica, che parte dai Misfits e si completa negli Afi. Spirito di emulazione che sfocia in carnevalata, certamente, ma che ancora non ha i tratti della caricatura. E’ evidente non ci sia malafede, ancora. Ad esserci, invece, sono i pezzi.
Adesso dobbiamo guardarci in faccia, seriamente, e chiederci cosa cerchiamo da un disco pop-punk uscito nel 2005. Ovviamente posso rispondere per me, ma ci sono cose che a mio avviso sfiorano l’oggettività assoluta. Pensare che un disco come questo possa essere originale nel genere che propone è come pensare che il movimento 5 stelle possa svincolare l’italia dalla politica economica globale smettendo di trattare con le banche. Rispetto il credo di chiunque, ma resto agnostico.
Io cerco pezzi carichi, melodie solide, refrain che ti si incollano in testa, cori da cantare e, se proprio mi sento in vena di esagerare, un uso minimamente conscio degli strumenti a disposizione (nella fattispecie, le due chitarre). Niente che mi faccia andare in estasi, ma che si faccia ascoltare e possibilmente non dimenticare un minuto dopo. Questi ingredienti per me ci sono tutti. In quella parentesi temporale in cui i ragazzini partivano dal post-HC di Thrice e Thursday o dal pop-punk dei Good Charlotte (!!!) per “riscoprire” un’estetica dark e farne moda, gli Aiden si sono trovati sul cavallo vincente senza neanche accorgersi di stare giocando lo stesso sport, arruolati per meriti extra-musicali. Un jolly che si sono giocati nel modo peggiore, ma che non hanno per forza di cose cercato.
Gli è più che altro capitato in mano.
Se gli Aiden vi causano l’effetto Pavel Nedved lo capisco e non giudico.
Potendo andare oltre però si dovrebbe poter riconoscere in Nightmare Anatomy un disco che, ripulito da tutto ciò che non sono le tracce che contiene, è una discreta bombazza.
Questo post è dedicato a quelli del fragolone e ad Andrea Orio.
Non lo so bene quando è cominciata.
E’ una roba successa negli ultimi vent’anni, lentamente ed inesorabilmente, e ora sono al punto in cui quando mi metto a pensare ai concerti l’associazione mentale è lo sbattimento. La dichiarazione ufficiale ad uso stampa solitamente è un mischiotto di parole tipo famiglia, impegni e vecchiaia, ma come ogni dichiarazione ufficiale basterebbe una minima di fact checking per trovare crepe nel ragionamento.
E’ il 2011, vivo al quarto piano di un palazzo in centro a Colonia. Una sera suonano i Get Up Kids nel locale quattro piani sotto casa mia. Torno dal lavoro e vedo la coda fuori dal posto. Fa freddo. Salgo in casa pensando che al massimo posso scendere più tardi. Entro, tolgo la giacca, forse faccio la doccia e sicuramente mangio qualcosa. Guardo fuori: il buio, il freddo. Guardo l’orologio, mancano tipo due ore all’inizio del concerto. La Polly mi propone di guardare un episodio di qualche serie TV. Mi siedo sul divano, forse sul letto. Mollo il colpo.
Per lo stesso gruppo due anni prima avevo guidato 400 km.
Non dico sia per tutti così, ma per me lo è. Leggo di un concerto interessante in zona e penso immediatamente al doverci andare da solo, al parcheggio, agli orari*. Quando proprio voglio esagerare ci metto anche il carico della disponibilità biglietti, con conseguente idiosincrasia per la prevendita e Ticket One. Questa palude di fastidi in cui mi impantano ha col tempo minato qualsiasi euforia associabile al discorso concerti, riducendoli ad eventi che scrivo in agenda nella remota possibilità in cui, quando il fatidico giorno arriva, io sia nel mood di farmi, appunto, lo sbattimento.
Ieri sera sono andato a vedere i Modern Baseball ed è stato così:
Una cazzo di festa.
Che poi non è nulla più di ciò che dovrebbe essere un concerto: gente che sta insieme e si diverte insieme. Facile, semplice e bellissimo, come tutte le cose facili e semplici. E no, per una volta non era pronosticabile perchè le pessime premesse ‘sto giro non riguardavano solo me e il mio atteggiamento da orso, ma anche (anzi, soprattutto) la band.
Il 25 gennaio Brendan (il tizio che canta nel video qui sopra) scrive sulla pagina del gruppo:
I have some unexpected news. I will not be joining Modern Baseball on the upcoming Europe / UK tour. I am okay — but I need this time at home to focus on my mental and physical health. The band will continue on with the tour thanks to help from mega friends Thins Lips, Superweaks and all the MOBO crew. This was an incredibly hard decision for me, and it was even harder confronting myself and the band about how I am feeling. Still, I know this is what I need right now. I can never thank MOBO and our crew enough for taking on the roles they have to support me.
I love y’all very much.
Mental illness is very serious and should never be taken lightly. It’s a long journey to understanding and coping with your illness but I have so much faith in y’all, and myself. If you or a friend ever feels lonely, depressed, sad, confused, whatever here are some crisis hotlines you can call. Again, I love y’all very much — talk soon <3
Non proprio una cosina da ridere, insomma.
L’impatto principale di questa brutta storia sul tour è che un tizio del loro staff deve sopperire alla mancanza sul palco, suonando la chitarra. Si è imparato un po’ di pezzi, ma non tutti, quindi lo show viene diviso in tre atti: il primo, full band, in cui James canta i suoi pezzi, il secondo con James in acustico per le canzoni che il sostituto ancora non ha imparato a suonare, ed un terzo di nuovo full band per i pezzi di Brenden. Che però non c’è.
La decisione della band è di far cantare al posto suo chiunque ne abbia voglia, tra gente del pubblico e ragazzi dei gruppi che girano con loro in tour**. Siccome è una festa, oltre al karaoke sul palco iniziano anche a passarsi gli strumenti e ogni pezzo alla fine viene suonato da persone diverse. E’ una cosa bella.
Non nuova, al più inconsueta ai concerti a cui vado io ultimamente, non strana.
Bella.
Di solito sono i gruppi con cui siamo cresciuti a riportarci indietro. Vai a vedere gente di quaranta e passa anni che suona roba da dischi che potrebbero fare la patente e bere negli Stati Uniti e grossomodo firmi una sorta di tregua col tempo che passa per quei sessanta minuti di show. Tu fai finta di non vedere capelli bianchi della band, la band fa finta di non averli e ci si crogiola tutti insieme in quella sorta di bolla, al più ripensando a quanto era bello.
E’ difficile avere questo tipo di feeling quando a suonare è gente schifosamente giovane tipo i Modern Baseball.
C’è uno rospo gigante da buttare giù nell’accettare che il tuo passato sia il loro presente, che non stiano suonando per ricordarti e ricordarsi quanto fosse figo il 1998, ma per celebrare quanto sia figo il 2017.
Cristo, è una roba che a scriverla qui sopra mi fa l’effetto delle coltellate.
A fine concerto sono andato al banchetto e gli ho comprato una maglietta. Avrei potuto prendere i dischi, pagandoli tipo 1/3 di quanto li pagherò oggi su Amazon, ma avevo in tasca giusto 20 euro e la maglietta per me è la cartina tornasole di quanto un concerto è figo.
Tempo fa mi chiedevo da quanto non mi finisse in mano una band “nuova” capace di spaccarmi il cuore con un disco. Non ricordo quale sia stata l’ultima, certamente non i Modern Baseball.
Di loro mi sono innamorato giusto ieri sera vedendoli suonare di fronte a cento persone in condizioni molto precarie.
* La pagina Facebook dell’evento di ieri indicava l’inizio alle ore 22:00 (EDIT: la pagina facebook ovviamente era una pagina sbagliata, ma a mia discolpa è la prima che esce se si usa il search di facebook. Ticket One riportava comunque 22:00 come inizio.). Io sono arrivato alle 22:03 e mi son sentito il primo pezzo del set dalla biglietteria. Errore mio, ma forse sarebbe ora di allinearsi ad una politica e mantenere quella per tutti gli eventi. Invece è impossibile sapere prima se arrivando giusti si rischi di aspettare ore o di perdere l’inizio del concerto. Non c’è una logica e questa gigante rottura di cazzo non aiuta ad invertire la tendenza di cui scrivo ad inizio post. Manco per il cazzo, direi. A voler scegliere, comunque, firmerei per concerti come quello di ieri che finiscono alle 23:00. Basta saperlo prima.
** non ho avuto il piacere di sentirli, perchè a quanto pare l’ora di inizio evento ieri indicava l’ora di inizio del set della band principale, con buona pace del supporting cast che si è trovato sul palco prima dell’inizio effettivo del concerto. Magari mi sarebbero piaciuti. Chi può saperlo?
Ci sono un paio di robe di cui ho voglia di scrivere. Una riguarda quello che mi piace degli Stati Uniti, l’altra l’ennesima testimonianza del perché TIM si meriti le peggio disgrazie.
Forse scriverò di entrambe, ma sta sera sono preso bene e preferisco dare spazio al tema numero 1.
Quando penso agli Stati Uniti di solito mi vengono in mente solo robe brutte.
Non so se capiti a tutti, ma per me è così. Dalla ridente Gessate mi trovo spessissimo a pontificare su quanto gli USA siano un posto terribile per una serie piuttosto lunga e dettagliata di motivazioni. Le armi, il business delle assicurazioni sanitarie, il razzismo, i teocon, le armi, il sistema scolastico, il capitalismo estremo, le armi, quell’idea di essere responsabili e di conseguenza padroni delle sorti del mondo e, se ancora non l’ho scritto, le armi. Tutte cose orrende eh, innegabile. Quello che tendo a dimenticare è che gli States sono anche altro e ogni volta che ci vengo (nel 2016 è la terza volta) mi rendo conto che quest’altro è composto di cose che mi fanno stare davvero un sacco bene.
Tipo.
Io amo guidare attraverso gli Stati Uniti. Che si tratti di attraversare l’Illinois o la California, che sia una visita di piacere o di lavoro, ogni volta che mi trovo al volante da queste parti io sono in pace con me stesso. È, credo, per via di un insieme di fattori. Da un lato c’è il relax di strade dove, ad andar bene, si incrociano altre automobili una volta ogni cento km, dall’altro ci sono questi paesaggi bellissimi capaci di iniettarmi nel cuore un senso di pace e serenità che difficilmente provo in altre circostanze. Non deve essere necessariamente un posto bello o emozionante. A me bastano anche 100 km tra le fattorie del Wisconsin per entrare in questo mood di totale appagamento. Un buon disco nello stereo, il paesaggio attorno e la strada deserta che scorre sotto le ruote.
Forse non saprei fare un elenco delle dieci cose che mi fanno stare meglio, ma certamente questa sarebbe una di loro.
L’altra cosa che adoro di questo Paese sono i bar. Noi non ce l’abbiamo più questo concetto di bar come luogo in cui stare, anche da soli. Sulle prime questa cosa del sedersi al bancone da solo fa molto alcolizzato, da noi la tradizione vuole che, fatta eccezione per ladri e spie, a bere si debba andare in compagnia. Ma non si tratta solo di bere. Ci si può sedere al bancone da soli anche per mangiare un boccone, il punto è che negli Stati Uniti non si è mai realmente soli. Entri, ti siedi e ordini le tue cose. Poi inizi ad interagire con chi ti è seduto affianco o, alla peggio, con chi sta dietro il bancone. È una cosa molto social: si parla con sconosciuti di argomenti non per forza banali. Pare assurdo doverla spiegare, ai tempi di Facebook, eppure è qualcosa che da noi non esiste nella vita reale.
Mi capita spesso di innervosirmi leggendo i classici messaggi volti a mollare i propri smartphone per agevolare le relazioni umane. Il nostro non essere capaci di socializzare non deriva da internet, internet ci ha solo riempito uno spazio che prima era dedicato a silenzi imbarazzati. Qui l’interazione tra sconosciuti è praticata, nonostante, sono abbastanza sicuro, anche loro abbiano internet sui cellulari (nota: ricordati che il pezzo di insulti a TIM non è questo. Non partire per la tangente.).
È un altra cosa che mi fa stare bene. Vai al bar, chiacchieri di cose spesso interessanti, bevi la tua cosa e poi lasci la mancia. Tornando a casa o nella tua camera d’albergo hai sempre la sensazione di essere più ricco di quando sei entrato al bar. Ed è bello.
Insomma, ogni volta che penso agli States penso alle tante cose che non tollero eppure a conti fatti sono uno dei posti dove preferisco stare.
Volevo chiudere il pezzo col video di “Tip your bartender” dei Glassjaw, ma dal telefono non riesco a tirar fuori il codice per l’embed. Cercatevelo su youtube e fate conto di averlo visto qui.
Alla fine ci siamo davvero andati, a Hollywood.
Siamo stati anche in un sacco di altri posti, macinando una roba come 4200 km in due settimane. Come sempre ho messo online la classica paginetta coi dettagli del viaggio e un album con le solite foto brutte (sto giro ancora più brutte perchè credo la mia macchina abbia un problema di autofocus).
Quello che mi andava di scrivere qui sopra però riguarda più il fatto che la California è grossomodo da vent’anni la mia personale Terra Promessa. Ci sono cresciuto io, idealizzando la west coast. Tutto ciò a cui tendevo, l’immaginario con cui ho vissuto la mia adolescenza e post adolescenza arriva da lì e poterci finalmente andare, seppur con colpevolissimo ritardo, per me è stata una roba importante e ovviamente carichissima di aspettative.
La cosa che più mi spaventava era che finirci a 35 anni da padre di famiglia mi facesse sentire vecchissimo o comunque fuori contesto.
L’ultimo giorno me ne stavo in bici sul lungomare che collega Venice a Santa Monica, Giorgio nel seggiolino dietro di me. Il sole, le palme, l’oceano. Ad un certo punto arrivo ad uno skate park, così mi fermo. In rampa tra gli altri c’è un ragazzino che stimo sui sei anni. Ovviamente alterna salti assurdi a cadute clamorose e un po’ tutti lì intorno tifano durissimo per lui, soprattutto due signori sulla quarantina. Un uomo e una donna che gli danno il cinque e gli scattano tonnellate di foto.
Vedo questa scena e non posso che pensare la California sia una figata anche quando hai quarant’anni e dei figli.
E’ stupido vero?
Temo di sì, ma penso anche chissenefrega.
Ho visto posti bellissimi, ma alla fine il cuore l’ho lasciato a San Diego, che non saprei descrivere se non come la città dello stare bene. E a me piace stare bene.
Mi piace da morire.
Ci sono persone che ci hanno seguiti durante il viaggio grazie all’hashtag del titolo. Tantissimi cuori per voi.
Ancora più cuori ai Galmotz per il supporto tecnico e logistico impagabile.
Record di cuori alla Polly che mi ha permesso di realizzare il sogno di una vita.
“…living in the perfect weather, spending time inside together
Hey, here’s to you, California…”
La vita, a quanto pare, è quella cosa che succede tra il release di un pezzo nuovo dei Brand New ed il successivo.
Dall’ultima volta sono successe un po’ di robe, in effetti: ho cambiato casa, ho allargato la famiglia, ho imparato a tagliare il prato, mio figlio ha imparato a camminare, son pure stato promosso al lavoro. Sembra giri bene, per quanto faccia sempre paura dirlo.
Oggi ho ascoltato “I am a nightmare”.
Mi ci son volute le consuete dodici ore per metabolizzare l’idea di cliccare play ed accettare la possibilità di rimanere deluso, ma alla fine ce l’ho fatta. Ed è andata bene. Il nuovo singolo dei Brand New è la cosa che meno ci si potrebbe aspettare dai Brand New, è una canzone che prende bene. Tipo i pezzi di “Your favorite weapon”.
Quindi boh, forse anche a Jesse gira bene ultimamente. Da quel che ho letto in giro sembrerebbe di sì.
Ieri su BASTONATE usciva un articolo che, tra le varie cose, dice che un musicista che sta male produce tendenzialmente musica migliore. Io non sono del tutto allineato, a me piace un botto di roba scritta da gente che tutto sommato si diverte e non ha problemi nel darlo a vedere (anzi, la merda di solito arriva quando se ne va il divertimento), ma se dovessi pensare ad un esempio per corroborare la tesi del pezzo, i Brand New sarebbero la prima immagine a venirmi in mente.
Nel loro caso, anche io temevo che senza malessere sarebbe mancato l’ingrediente principale.
Invece no.
Poi magari il testo di questo nuovo singolo è la roba più disperata di sempre, io mica sono andato a leggerlo. Mi bastano quelle chitarre lì, quel riffettino lì e quel “I am a nightmare and you are a miracle” per prenderlo come un pezzo pieno di sole cose belle. Che poi è il motivo per cui se un quadro astratto mi piace non son così interessato a sapere il messaggio di chi l’ha dipinto. Vedo i colori, le forme e se stanno bene insieme io lo guardo volentieri. Poi magari per l’artista rappresenta la madre morta male, ma quello è a tutti gli effetti un problema suo.
Ha senso?
Per me ne ha.
Si continua a vivere quindi, tra un pezzo dei Brand New ad un altro, e forse è quasi bello che sia così piuttosto che avere un disco da dover affrontare tutto insieme, fatto di emozioni ed immagini diverse che ti arrivano in faccia simultaneamente. Non lo so. E’ probabile abbia scritto una cazzata.
George R.R. Martin, tanto per tornare ad un argomento ormai inflazionato su questo blog, da anni fa uscire qua e là capitoli dei suoi libri (l’ultimo proprio ieri, per chiudere il cerchio. Niente link, non qui sopra. Mai più.) e nel suo caso l’operazione mi manda ai matti. Ma proprio che gli auguro ogni male, mi son pure fatto bannare dalla sua community scrivendogli che il prossimo libro l’avrei pagato un euro alla volta in dieci anni (true story).
Forse il problema è mio e nella scarsa coerenza con cui approccio operazioni simili sulla base di chi le mette in atto, o forse son cose molto diverse che ho accomunato a cazzo io in chiusura di post. Non ho una risposta e temo il pezzo se ne stia andando dove non deve.
Ricapitolo, quindi.
E’ uscito un nuovo pezzo dei Brand New.
E’ bello.
Niente da aggiungere.
Non ho idea del perchè questo mio blog usi i cookies, ma li usa quindi vedi tu come muoverti.
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