Vai al contenuto

Musica

Sanremo 2023

Ormai venire qui e commentare le canzoni in gara al Festival di Sanremo è diventata una piccola tradizione, quindi eccoci.
Io la kermesse non la seguo in TV perchè, come detto nelle puntate precedenti, è uno spettacolo che non mi interessa e non mi piace. Tendo a recuperare le clip significative i giorni successivi, giusto per stare sul pezzo con le polemiche. Quest’anno ad esempio ho scoperto che c’è ancora gente che non riesce a codificare Salmo che va ospite con delle rime contro Sanremo e pensa davvero quello sia un gesto coraggioso/rivoluzionario, o Blanco che smatta sul palco. Ovviamente tutte cose per cui, anche quest’anno, si è tirato in ballo il punk, ormai ospite fisso della manifestazione.
Nulla di nuovo sotto il sole, quindi.
Io, però, sono qui per parlare delle canzoni e quindi adesso mi ascolto la playlist di spotify (perchè su Tidal non ce n’è una con tutte e 28 le tracce, o se c’è non l’ho trovata), commentando pezzo per pezzo.
Per chi non avesse familiarità con il mio modo di approcciare la questione, per me Sanremo è La Canzone di Sanremo™ (da qui CdS™), archetipo che non ha senso di esistere mai, ma che in quel contesto trova la sua collocazione naturale. Potrei provare a spiegarvi in cosa consiste, ma sarebbe più noioso delle canzoni stesse, cosa davvero indicativa, quindi mi limito a puntare il dito quando lo riconosco in scaletta.
Vediamo come va.

Due vite – Marco Mengoni
Non so che opinione abbiate di Marco Mengoni, ma secondo me di ben collocati come lui dentro il contesto Sanremo ce ne sono pochi. Qui arriva con una classicissima e ultra didascalica CdS™, ma funziona tutto perfettamente. Non ho ancora sentito nessun altro pezzo, ma ho seri dubbi altri abbiano fatto meglio. Vai Marco, a me sei simpatico, vincila tu e siamo tutti felici.

IL BENE NEL MALE – Madame
L’attacco sembra da CdS™, ma è tutto finto. Un po’ come il certificato vaccinale della tizia che canta. Il pezzo non è brutto, purtroppo, ma tra la vicenda del Green Pass e il capslock di merda nel titolo mi vedo ideologicamente costretto a pensarne tutto il male possibile.

Splash – Colapesce & Dimartino
Io a questi musica leggerissima non l’ho ancora perdonata, ma forse il mio problema vero è più con chi ne ha parlato come di un capolavoro. Questa è pure più noiosa. “Mi tuffo nell’immensità del bluuuu… Splash.”. Ma andate affanculo.

Due – Elodie
Direi pezzo di Elodie piuttosto standard, ma senza il ritornello killer di “tribale” o anche solo di “Bagno a mezzanotte”. Non credo di arrivare a ricordarmela, ma apprezzo l’approccio a cazzo duro tipo: “Sono più grossa di sto carrozzone, quindi non mi piego alla CdS™ e vado dritta col mio sound”. Certo, con un pezzo buono sarebbe stato meglio.

CENERE – Lazza
Questo per qualche strano motivo viene portato avanti come fosse un genio, credo c’entri col fatto che ha fatto il conservatorio. Boh. Classico capslock da giovane, ma sotto sotto è una banalissima CdS™, solo quell’attimo più pretenziosa. Di fatto ha avuto meno palle di Elodie. Anche sto giro, una motivazione concreta allo status che si porta dietro la troviamo la prossima volta.

Furore – Paola & Chiara
Non ce n’era davvero bisogno, dai. Poi io la sto ascoltando senza il video, credo anche quello pesi.

SUPEREROI – Mr.Rain
Ed eccola la CdS™ in capslock del trapper/rapper/Fedez di quest’anno. Il coro coi bambini? Camminerò? Madonna che monnezza.

Duemilaminuti – Mara Sattei
Altra CdS™. Anzi, devo dire la più CdS™ tra le CdS™ fino ad ora e quindi, come giusto, una lagna senza confine che sembra durare davvero “duemila minuti anzi duemila ore”.

TANGO – Tananai
Io a questo voglio bene perchè mi sta simpatico e in certi passaggi mi sembra davvero di sentire Roby Burro, non so se siano i testi o come canta. Credo un mix delle due. Qui però si presenta con una CdS™ inutilissima e, fidatevi, mi spiace davvero doverlo riconoscere. Ma poi perchè anche tu con sto capslock? Dai. Sei meglio di così, Tananai.

Alba – Ultimo
Spotify mi mette la pubblicità prima di iniziare, dandomi tempo per precisare quanta sfiga mi trasmetta Ultimo da quando l’ho visto fare i live con la maglietta con scritto Ultimo sopra. Ecco il pezzo. Altra cosa che trasuda sfiga di Ultimo è che ha appracciato la CdS™ anche fuori dal contesto sanremese. Cioè lui davvero pensa che le lagne che attaccano col pianofortino moscio e poi crescono in un groviglio di urlati raccapriccianti siano un format dignitoso. Poi oh, riempie gli stadi eh, quindi chi sono io per dire che la sua roba è concime per piante a cui non vuoi neanche troppo bene?

MARE DI GUAI – Ariete
Inizio a pensare che il capslock sia una sorta di codice implicito per segnalare allo spettatore del Festival che non ha il minimo interesse per la musica, ma che lo segue unicamente come evento televisivo/culturale, quali siano gli artisti “giovani”. Va beh, andiamo sul pezzo. CdS™ anche per Ariete, che evidentemente pensa davvero che essere giovani faccia schifo e quindi si presenta con una canzone che ha almeno 65 anni.

L’ADDIO – Coma_Cose
I Coma_Cose hanno fatto anche cose buone. Non in questo caso.

Vivo – Levante
Lei è insopportabile, ma il pezzo non mi dispiace. O forse è che ho il cazzo pieno delle lagne arrivate fino ad ora e questa la apprezzo anche solo per la voglia di metterci un po’ di ritmo. Il ritornello è irricevibile sotto ogni punto di vista, roba da programmazione di Radio Italia alle tre di notte del mercoledì.

parole dette male – Giorgia
Grandissima con solo le minuscole, dammi una gioia anche col pezzo dai! No? No. CdS™, lo scrivo solo a fine statistico. Milioni di canzoni orribili che parlano di canzoni belle, per una volta mi piacerebbe una canzone bella che parla di canzoni orribili.

MADE IN ITALY – Rosa Chemical e Bdope
Porcheria indifendibile. Cristo. Ma come cazzo fa certa roba ad esistere? Cioè qualcuno ha sentito ‘sto pezzo e ha pensato: “funziona”. Impazzisco.

Cause Perse – Sethu e Jiz
Questi non ho idea di chi siano, quindi mi aspetto la qualsiasi mentre attendo finisca quella merda di MADE IN ITALY. Eccoci. Not my cup of tea (eufemismo), ma penso sia roba che può starci nel 2023, cioè immagino che nel suo essere uguale a sessantamila altri pezzi sotto ogni possibile punto di vista possa funzionare per chi quei sessantamila pezzi se li ascolta volentieri.

MOSTRO – gIANMARIA
Qui siamo al level up per il capslock, con al minuscola iniziale. Forse se tutto lo sforzo usato per cercare nuovi mirabolanti modi per scrivere il nome dei cantanti o i titoli delle canzoni venisse usato per scrivere i pezzi ascolteremmo roba più interessante. Poi ok, lui secondo me è pure bravino ed il pezzo certamente non tra i peggiori fino a qui, ma è davvero un merito molto poco meritevole.

Polvere – Olly
Una sorta di Nintendocore in versione Sanremo. Capisco il senso di averla in scaletta e non è che dia necessariamente fastidio, ma non credo ne sentiremo più parlare. Anche perchè è un pezzo che dovrebbe puntare sul ritornello e invece il ritornello, se possibile, depotenzia.

Lettera 22 – Cugini di campagna
Sappiamo tutti che l’unico commento da fare, a prescindere dal pezzo, sarebbe “a parità di vestiti, sono meglio dei Maneskin”. Io non ho davvero mai avuto contatti con la musica dei Cugini di Campagna, quindi non so se sta roba sia standard per loro o meno. E’ una CdS™ collocabile a cavallo tra i ’90 e i ’00, quindi puzza di vecchio tantissimo, ma magari per loro è futurismo.

Quando ti manca il fiato – Gianluca Grignani
Mi spiace dire male di un pezzo del genere, onestamente. Quindi su Grignani dirò solo che il suo commento al caso Blanco è il migliore di tutti. Ah, calma, in chiusura il pezzo, musicalmente, è figo. Che questo si noti solo quando lui smette di cantare però credo non deponga troppissimo a suo favore.

UN BEL VIAGGIO – Articolo 31
Mi vergogno un po’ a dirlo, ma io sugli Articolo 31 avevo delle aspettative. Lo so, lo scemo sono io. CdS™ brutta in culo, con anche il titolo in capslock per non farci mancare nulla del peggio. Gli scretch incollati a caso ciliegina sulla merda.

Se poi domani – LDA
Non ho tredici anni, non credo di poterne parlare. Però spero di avere la forza di comprare la droga ai miei figli se dovessi scoprirli dentro a roba del genere.

Stupido – Will
Leggi sopra.

Terzo cuore – Leo Gassmann
Non so se questa persona abbia effettivamente una carriera da musicista fuori da questa settimana, ma in questa settimana per me può tranquillamente starci. Il ritornello mi pare un mezzo ripoff dei Pinguini Tattici Nucleari e visto che i PTN non sono esattamente Beatles, forse c’è un problema a monte.

Non mi va – Colla zio
Questi sono amici della figlia di una mia collega. Spiace più che altro per lei.

Egoista – Shari
Ma il pezzo di Madame non l’avevo già sentito? Si scherza dai. A me il cantato femminile biascicato fa cagare, ma quando inizia a svolazzare con la voce su quei vorrei finali si rimpiange tantissimo il momento biascicato.

Lasciami – Modà
Occrishto ma non ce li eravamo tolti dal cazzo questi? Ma ridatemi le Vibrazioni piuttosto. Che poi vaffanculo la melodia non sarebbe neanche così orrenda, è solo sbagliatissimo tutto il resto, cantante in primis.

Sali (Canto dell’anima) – Anna Oxa
E andiamo! Urla belluine come non ci fosse un domani e senza la minima giustificazione. Non mi sarei potuto aspettare nulla di meglio dalla Oxa e direi che è un modo degnissimo di chiudere sta playlist, con la sofferenza estrema. Sua e mia.


Ehi, vuoi ricevere i post di questo blog direttamente via mail e senza dover venire qui a leggerli?
Iscriviti alla newsletter!

I dischi di questo 2022

Ed eccoci qui a rimetterci i panni del rimastone giapponese in trincea vent’anni dopo la fine della guerra per parlare della musica che ho ascoltato quest’anno, come era grossomodo obbligatorio fare una decina di anni fa e sembra invece molesto fare oggi, che tanto ci sono le statistiche colorate delle app a farlo per noi. Considerato non freghi davvero niente a nessuno della musica che abbiamo ascoltato, non perderci dietro del tempo e lasciar fare agli aggregatori di numeri sarebbe una scelta intelligente, in effetti, ma cosa diciamo noi al Wrapped di Spotify? “Not today!“, esatto.
A questo punto allora tanto vale far saltare tutti i paletti ed iniziare a raccontare la cosa per quel che è, ovvero che di massima i dischi che mi trovo a consumare sono raramente uscite contemporanee, ma si tratti invece di roba datata che, per qualche ragione, io scopro molto dopo la pubblicazione.
In questo 2022 per esempio, la roba che ho ascoltato di più sono due dischi degli Spanish Love Songs, uno del 2017 e uno del 2020. 
Ho iniziato dal secondo, che si chiama Brave faces everyone, etichettandolo come un dischetto niente di che da cui però non riuscivo a venire fuori. A quel punto ho provato ad approfondire sentendo il disco prima, Schmaltz, convincendomi quasi subito fosse uno dei miei dischi preferiti di sempre. Oggi, dopo circa dodici mesi di riflessioni, ad una domanda secca forse risponderei che Brave faces everyone è il più bello tra i due dischi, ma che in Schmaltz ci sono le canzoni più belle. Raccontati i due parole, gli SLS sono la trasposizione perfetta del mio mood in questo 2022, ovvero il racconto di una persona che non è sempre è stata presa benissimo. Lungi da me voler vendere una visione romantica dell’essere presi male, narrazione che fa abbastanza danni soprattutto a chi ha un reale problema di depressione e si trova a viverlo senza capire come mai per il mondo sia una roba cool, ma è vero che il mio umore è molto legato a quello che ascolto e non sempre quel che chiedo alla musica è di tirarmi su il morale. Spesso invece mi serve per chiudermi dentro il malessere, in apnea, fino a che diventi necessario, imprescindibile, tirar fuori la testa. 
Ad ogni modo il punto è che qui abbiamo due dischi monumentali che fareste bene ad ascoltare se non siete in una fase della vita in cui vi sembri appetibile sdraiarsi sui binari del treno e aspettare. In quel caso, fossi in voi, opterei per qualcosa di diverso.
Il fatto che a Giugno avessi organizzato una trasferta a Londra in giornata solo per vederli suonare e questa sia saltata 3 giorni prima insieme al loro intero tour europeo direi che, a posteriori, è perfettamente in linea con quanto detto sin qui riguardo la loro musica.

Pur essendo verissimo che la maggior parte di quel che ho ascoltato in quest’anno non sono dischi usciti quest’anno, ci sono un pugno di cose targate 2022 a cui ho dedicato abbastanza tempo ed ascolti da citarle in un resoconto di fine anno. Sono queste:
Nei sogni nessuno è monogamo (Dargen D’Amico): certamente non il miglior disco del novello idolo delle masse DD, manco nei primi tre volendo. Al suo interno riesce però ci piazza Patatine, la più alta espressione ad oggi del cantautorato millennials senza se e senza ma, e Dove si balla, che se non è il pezzo più grosso della musica italiana di quest’anno solare allora ditemi voi. Anzi non ditemelo, che avete torto. Ce n’è quindi abbastanza per mettere il disco tra le cose positive della stagione senza necessariamente passare per fanboy.
Asphalt meadows (Death cab for Cutie): non il mio gruppo preferito, mai stato sul loro carro neanche ai tempi di Transatlanticism, ovvero quando non averli come riferimento era illegale in diversi blog e siti che ero solito frequentare, eppure questo dischetto qui è veramente bello. Non bello tipo lo ascolto 10 volte in due settimane e poi mai più, bello che dopo tre mesi ancora ieri mi è venuta voglia di rimettermelo in cuffia. Che poi è il motivo per cui sta in questa lista mentre 11:11 dei Pinegrove non c’è.
Tekkno (Electric Callboy): passate oltre, che davvero non è cosa. Qui dovrei linkare un pezzo sul concetto di guilty pleasure che ho provato a buttare giù mille volte negli ultimi mesi, ma che alla fine non ho mai scritto. Amen. Il succo è che ho smesso da tempo di sentirmi in colpa per la musica che mi piace e questa roba qui, a me, piace. Ignorante, volgare, caciarona e intollerabile a chi cerchi la qualità? Sì, ma mi piace comunque. Tekkno è il disco degli EC uscito quest’anno e forse è anche troppo marcatamente incentrato sul passare il concetto del “non prendeteci sul serio”. Io gli preferisco l’esordio, Bury me in Vegas, che ho scoperto comunque quest’anno e che ho ascoltato molto di più perchè non ho il minimo problema col fatto che ‘sti ragazzi credessero nella loro roba. Siccome però ho detto che avrei fatto una lista di dischi del 2022 ci metto Tekkno che è cmq una bella pera di ignoranza e buon umore.
Quanto (Gazebo Penguins): nella mia testa la relazione tra Gazebo Penguins e Fine before you came è la stessa che c’è tra Better Call Saul e Breaking Bad. Non so dire perchè, vedo i primi un po’ come i figliocci dei secondi, ma che se poi vai bene a guardarci dentro gli riconosci quel qualcosa in più. Questo è il loro quarto disco ed essendo uscito da una manciata di giorni sono ancora in quella fase per cui: “è la roba migliore che abbiano mai scritto omioddioooohh”. Che lo sia o meno è abbastanza irrilevante, importa invece che sia un bel disco e lo dico da persona a cui Legna e Nebbia, rispettivamente il primo ed il terzo dei loro lavori, non sono mai piaciuti. 
Never before seen, never again found (Arm’s length): questo è un bel disco di emo fuori tempo massimo. Ne esistono millemila uguali e probabilmente pure più belli usciti quando ancora a qualcuno importava di questa roba, quindi se non vi piace lo capisco e non ho nulla da ridire. La traccia numero due però si chiama Object Permanence e credo di aver fatto io metà abbondante degli stream che ha su Tidal e Youtube. E’ una canzone meravigliosa di cui ne esistono millemila uguali etc etc. Il disco è uscito solo su vinile, il che mi toglie dall’imbarazzo di doverlo comprare essenzialmente per un pezzo, ma forse non è neanche così male come ve lo sto raccontando. E’ solo che non tiene il passo con quella canzone.
New Preoccupations (Caracara): tempo fa ho iniziato a mandare articoletti di musica ad un sito/blog di amici che mi è sempre piaciuto. Dopo qualche mese da che ho iniziato a mandargli roba, il sito ha chiuso. Non sono uno che crede alle coincidenze. L’ultima roba che gli avevo mandato parlava di questo dischetto qui, che è un lavoro anonimo di una band di cui non sentirete probabilmente mai parlare, ma che per un mese abbondante mi ha fatto da colonna sonora in questo 2022. Volendolo definire, è un disco con canzoni a mio avviso molto belle e che potrei ascoltare dieci volte al giorno senza che mi venga mai in mente di inserirle in una playlist. Derivative in culo eh, ma sta a vedere che da me vi aspettate ancora qualcosa che non lo sia. Eddai.
Canzoni da odiare (Elephant brain): solo cose belle per gli Elephant Brain, ho cagato loro il cazzo mesi per sapere quando avrebbero suonato a Milano e poi quando è successo ho preso il COVID, ma va beh. Il disco nuovo, rispetto al precedente (qui), è un po’ meno centrato su certe sonorità che quelli che ne sanno definirebbero “midwest” e  prova ad aprire ad influenze meno compatte. Parlando con chi nel disco ci ha suonato ho citato i Biffy Clyro e gli stessi Death Cab for Cutie di cui sopra. Mi è stato risposto di averci preso. Magari mi si dava solo la tara come si fa coi matti, ma a sto punto ve la riporto come una roba certificata. 
Ho vissuto confusione (Requiem for Paola P.): altro disco italiano, ma a differenza dei precedenti questo non lo aspettavo per niente e non l’ho visto arrivare. I Requiem for Paola P. sono uno di quei casi in cui la mia testa fonde due gruppi insieme e li associa come fossero lo stesso, nello specifico con i The Death of Anna Karina, probabilmente per via dell’essere italiani e boh, forse del nome riferito a donne morte. Anche loro sarei dovuto andare a sentirli, ma anche con loro la situazione sanitaria si è messa di traverso. Il disco è davvero molto bello però, a partire dal singolo Porto rancore

Otto dischi usciti nel 2022 che a me sono piaciuti abbastanza da parlarne.
Pochi? Boh, probabilmente sì, ma a me direi che bastano.


Ehi, vuoi ricevere i post di questo blog direttamente via mail e senza dover venire qui a leggerli?
Iscriviti alla newsletter!

One twenty two

È uscito un pezzo nuovo dei Botch dopo vent’anni tondi.
Si potrebbero dire molte cose, ma l’unica che viene a me è che non c’è mai stato un momento in cui si sentisse più il bisogno di un nuovo pezzo dei Botch.
Che, per inciso, è una mina.

I vent’anni di un (altro) disco

Scrivere del ventennale dei dischi è una roba che non mi risulta si faccia più. Probabilmente il motivo è che quelli bravi, quelli che hanno incominciato a farlo, hanno esaurito i ventennali che gli interessavano ormai diversi anni orsono.
Vecchi di merda.
Io invece di dischi della vita che fanno vent’anni nel presente ne ho ancora tantissimi.
Un paio di mesi fa è stato il turno di Tell all your friends e avevo anche messo giù 3/4 di pezzo con l’idea di mandarlo a Spento, ma prima che lo finissi Marco mi ha scoopato, come si dice in gergo, e ho desistito dal finire la mia lagna da X-mila battute.
Tempo dopo è stato il turno del S/T dei Box Car Racer. Anche lì avevo pensato di mettermici e dire due robe, ma poi non lo avevo fatto, neanche ricordo perché. Probabilmente sarebbe stato un post con la centomilionesima versione sempre uguale del mio rapporto con Tom Delonge, quindi a conti fatti meglio così. Per tutti.

Due giorni fa però ho scoperto da Twitter essere il ventennale di un altro disco e questa volta non è proprio cosa lasciar correre, per me.
Il disco è questo qui:

Ai The Used io ci sono arrivato da Munnezza, una webzine/forum che ho citato mille volte qui sopra. Erano i primi anni di internet, per me, di conseguenza i primi tempi in cui riuscissi ad uscire dalla mia bolla provinciale per aprirmi ad ascolti nuovi, non necessariamente buoni. Allora avevo l’approccio al mezzo che i boomer hanno avuto negli anni ’80 con la TV e che oggi hanno con Facebook: se è scritto in una recensione online, deve essere vero. Also: chi scrive una recensione online deve essere un* che ne capisce. Solo anni dopo ho realizzato che probabilmente su quella webzine, come su tante altre, scrivessero più che altro ragazzini come me, al massimo più convinti di essere ‘sto cazzo (ma neanche sempre), però sto tergiversando.
Quando ho iniziato a bazzicare quel sito dei The Used si faceva un gran parlare. Era appena uscito il loro secondo disco e il mood generale era che la stagione di tutta quella roba lì fosse ormai finita. Dopo aver tessuto lodi sperticate per grossomodo qualsiasi cosa uscita tra il 2002 e il 2004, nel 2005 era diventato tutto una merda. Il nuovo avanzava, toccava girare pagina.
Io, però, ero come sempre in ritardo.
Andando a memoria, sul sito non c’erano le recensioni dei dischi considerati buoni di questa ondata nu-emocore di inizio millennio, venivano solo citate le band come riferimento in recensioni più recenti e spesso negative. Idem sul forum, dove chiedere dettagli su questa roba era il viatico preferenziale al ricevere insulti.
Alla fine quindi avevo scaricato un po’ di cose e, come probabilmente è giusto che sia, mi ero messo sotto a fare una cernita da solo. Si trattava di scavare in una montagna fumante di letame, lo riconosco, però mentirei se dicessi di non averci cavato un ragno dal buco. Anzi. Chiaramente non ci si poteva aspettare la qualità dei Q and not U, non so bene perché feticcio di moltissimi capiscers dell’epoca, ma se c’è una cosa su cui sono arrivato in anticipo rispetto a Boris e ai successivi meme è che la qualità ha rotto il cazzo, quindi bene così.
Tutto questo per dire che era il 2005, io stavo prendendo il “sole” sdraiato su una “spiaggia” irlandese con alcuni amici ed ero in uno stato di dormiveglia. Avevo probabilmente sentito tutto The Used senza farci un gran caso, mezzo rincoglionito, e di massima era quella situazione in cui il disco viaggia sulla strada buona per farsi dimenticare. Non so se vi capiti mai.
Ci sono dischi che ascolti fin dalla prima volta con attenzione, interessato a farti un’opinione corretta, e altri che invece piazzi in cuffia solo per riempire il silenzio e vedere se ce la fanno a farsi notare, a sconfiggere la nostra indifferenza mista a mancanza di aspettative.
The Used, con me, ce l’ha fatta in zona cesarini.
Pieces Mended è l’ultima traccia del disco e ricordo come fosse ieri che riuscì a destarmi da quel torpore vacanziero e scazzato e farmi di colpo tornare presente all’ascolto del disco. E poi farmelo rimettere da capo.
Negli anni credo di aver ascoltato tanti dischi il cui fulcro sta nella sofferenza, sia questa reale o posticcia, ma ancora oggi il senso di angoscia e disagio che mi trasmette Berth su Poetic Tragedy non ha pari. Non ho idea di cosa parli il pezzo, non mi è mai interessato approfondire. Per me è e rimarrà il lamento di uno che non se la passa bene, da ascoltare quando anche io non me la passo bene. Perché alla fine di questo si parla: emozioni. Stati d’animo che la musica crea in noi, ma anche in cui noi vogliamo immergerci tramite la musica. Almeno per quel che mi riguarda.
Il disco è tutto bellissimo, lo ascolto ancora spesso senza necessità di urlare GUILTY PLEASURE sui social e sentirmi una persona meglio. Ogni volta che parte Say Days Ago testo la capacità dell’impianto/supporto con cui lo sto ascoltando e dei miei timpani, di conseguenza.
Sui social frequento un paio di gruppi revisionisti/revival in cui l’apprezzamento per certa roba è ormai sdoganato e si vive un clima bello di sincerità e non curanza che dovrebbe sempre stare alla base del dibattito musicale. Chi scriveva su Munnezza oggi probabilmente si divide tra il darsi una posa su twitter (no link needed, you know who you are) e bazzicare gli stessi gruppi che bazzico io, ma in incognito. Buon per loro, c’è sempre da venire a patti con la propria autostima e se questo è il modo, bene così.
Io, di mio, ho fatto pace coi miei gusti troppo tempo fa per star dietro alla scena.

Breve storia triste

Ad inizio Aprile escono le date del tour europeo degli Spanish Love Songs, dove con Europeo si intende Uk e Prussia.
Io sono in una fase piuttosto positiva della mia esistenza: ho tre dosi di vaccino e mi sono appena fatto il COVID, quindi vivo in questa convinzione per cui nulla potrebbe più fermarmi sulla strada del ritorno alla normalità. Ho già comprato il biglietto per il concerto di Dargen e quello per vedere Louis CK all’Arcomboldi, ma penso di poter fare ancora di più, così butto un occhio al calendario, litigo a dovere con mia moglie e decido di incasinare il ponte del 2 Giugno a tutta la famiglia comprando il biglietto della prima data del tour a Londra.
In quelle date c’è il giubileo della Regina, quindi mi prendo qualche ora per mettere giù un piano d’azione che possa funzionare al meglio per tempi, spazi e costi.
1) Mi prendo un volo ottimizzato: arrivo a Londra alle 12:15 del giorno del concerto e ripartenza alle 7:15 del giorno seguente, minimizzando la permanenza su suolo inglese.
2) L’aeroporto è Stansted e siccome arrivarci è un inferno, la distanza è tanta e i pullman oltre ad essere cari non offrono garanzie sull’orario per il ritorno al terminal sia che scelga di andarci dopo il concerto, sia che opti per la mattina seguente, noleggio una macchina.
3) Trovo un piccolo ostello a 600 metri dal locale del concerto (The Dome) con parcheggio gratuito in loco.
A questo punto la logistica sembra davvero perfetta: arrivo, guido fino all’ostello, butto la macchina, faccio un giro in centro fino all’ora del live, vado al concerto, torno in ostello a piedi, dormo e all’alba parto per rientrare all’aeroporto.
Preciso.
Ho anche valutato di portare tutta la famiglia a Londra per tre giorni, ma tra brexit, giubileo e il fatto che Londra è pur sempre Londra veniva a costare una fucilata. Troppo. Molto meglio così.
Sono discretamente gasato perchè è una roba che mette insieme un po’ tutto. C’è il concerto, tra l’altro di quello che è il gruppo che sto ascoltando di più da sei mesi a questa parte, c’è il viaggio, c’è questo mood supergiovane del “vado a sentirli a Londra”.
La fotta, insomma.

Fino a ieri.

 

 
 
 
 
 
Visualizza questo post su Instagram
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Un post condiviso da Spanishlovesongs (@spanishlovesongs)

Alla fine ho disdetto albergo e macchina senza costi.
Il biglietto aereo è perso, ovviamente, mentre son stati super rapidi a rimborsare il biglietto del concerto.
Se dicessi che il problema è averci perso dei soldi, tuttavia, mentirei.

Catarsi

Cercando la parola Catarsi sul dizionario (che poi è Google) esce questa definizione:

/ca·tàr·si/
1. Nella religione della Grecia classica, il rito magico della purificazione, inteso a mondare il corpo e l’anima da ogni contaminazione.
2. In psicoanalisi, processo di liberazione da esperienze traumatizzanti o da situazioni conflittuali, ottenuto col far riaffiorare alla coscienza dell’individuo gli eventi responsabili, rimuovendoli dal subconscio.

Negli ultimi ventisei mesi ho fantasticato molto su quale sarebbe potuto o dovuto essere il primo concerto post pandemia e su come lo avrei vissuto. Mi immaginavo quale potesse essere la canzone che mi avrebbe fatto tornare compresso in mezzo ad altre persone con il ditino alzato e la necessità di cantare e ogni volta me ne uscivo con una risposta diversa, sempre sbagliata per qualche motivo. In tutto questo tempo non ho mai preso in considerazione si sarebbe trattato di Dargen D’Amico.
Non so perchè, ho anche comprato il biglietto per l’evento di ieri in prevendita, andarci non è stata una decisione estemporanea. Forse ho in qualche modo pensato che per qualche ragione tutto sarebbe saltato, che a quel concerto non ci sarei andato davvero. Chi lo sa.
Invece ieri sera all’Alcatraz di Milano ci sono andato per davvero e all’inizio è stato molto strano. Tante persone, poche mascherine: tutti belli ammassati sotto ad un palco, in un ambiente buio che forse psicologicamente dava l’impressione di essere un non-luogo, una bolla fuori da una realtà che ancora porta evidenti le cicatrici degli ultimi due anni. Di primo impatto quindi il feeling non è stato di ritorno alla normalità, tutt’altro. Non vero e proprio disagio, ma una leggera sensazione di allerta che scorre sotto pelle. Volendo fare un paragone, è stato un po’ come il primo concerto post Bataclan: tutto bene, felice di esserci, ma per la prima volta nella vita fai caso a dove sono le uscite di emergenza.
Ad una certa però è iniziato il concerto e tutto è tornato al suo posto quasi subito, fino al momento in cui è stato chiaro non ci sarebbe potuto essere modo migliore per scrollarsi via due anni e passa di inibizioni, frustrazioni e astinenza. Il momento in cui ci siamo ammassati un po’ più stretti, abbiamo ballato un po’ più spinti e abbiamo cantato un po’ più forte. Finalmente.
Questo momento qui.

Non sono solito fare video ai concerti, è la prima volta e l’ho fatto essenzialmente per mio figlio che è andato parecchio sotto al pezzo e si è seccato di non poter venire al concerto. Non credo lo rifarò in futuro, ma in qualche modo sono contento di aver infranto la mia regola e aver immortalato questo momento importante.
La mia personalissima catarsi.

Ci sarebbe poi da parlare del concerto vero e proprio, che ha visto sul palco un JD decisamente in forma. La scaletta è forse un po’ piaciona e molto correlata all’ultimo disco, cosa che penso sia abbastanza normale visto che si piazza di fatto nel post Sanremo. Le escursioni che si concede vanno a pescare tra i pezzi più noti del repertorio e coprono soprattutto D’Io, relegando a comparsata un po’ tutti gli altri dischi. Il momento probabilmente più figo, a livello musicale, è l’Universo non muore mai, riarrangiata per l’occasione in una chiave parecchio interessante. Bello il momento con Tedua, che su disco non ascolterei manco se mi rapiste i figli, ma che sul palco sa starci.
Nell’encore ha suonato Bocciofili e sono definitivamente impazzito, ma a fine pezzo forse il momento più alto della serata.
Prima fa cantare la folla a comando per un paio di minuti e poi se ne esce con: “Ma perchè vi fate manipolare in questo modo? Vi rendete conto? E’ così che la politica vi usa…”.
Io gli voglio bene, anche più di quanto gliene volessi prima.

Ho cambiato servizio di streaming per la musica

La cosa di avere un blog funziona se poi ci si scrive sopra, di massima.
Non è che non lo sappia eh, solo non ho tutta questa impellenza di raccontare cose, ultimamente, e se proprio mi è capitato di avere qualcosa da dire sono finito per scriverla da altre parti.
In questi giorni però c’è stata una piccola rivoluzione della mia vita domestica ed è qualcosa che magari può interessare altri, quindi eccomi qui.
Ho cambiato servizio di streaming musicale.
Dopo anni di utilizzo, ho disdetto il mio account Spotify Premium per approdare a Tidal e l’ho fatto sulla base di due principali ragioni, che adesso vado a spiegare nel dettaglio.

LA QUALITA’
Non ho mai dato troppo peso alla qualità del suono, quando si tratta di ascoltare musica. Non sono uno di quei fissati dell’impiantino a valvole, quelli del suono caldo del vinile. Ho sempre speso più del necessario per l’impianto audio della macchina, ma l’obbiettivo di massima era che suonasse forte, più che bene. La mia scarsa propensione alla qualità credo derivi essenzialmente dall’ascoltare musica la cui pulizia si piazza tra il rumore dei vicini che tassellano il muro la domenica alle 8:30 e il latrato dei cani, ma anche dall’essermi formato musicalmente ai tempi del walkmen e delle cassette duplicate ad oltranza, in cui il fruscio assurgeva a cifra stilistica. Non sono propriamente uno dall’orecchio fino ed esigente, quindi.
E infatti, a riprova, anni di .mp3 e streaming di qualità infima sono riusciti a farmi sprofondare in una palude di suoni brutti e impastati, che per qualche ragione ho iniziato a considerare come standard anche per dischi che avevo consumato prima della rivoluzione digitale, ma che non ho più avuto modo di ascoltare se non in forma compressa. Questo perchè io sono anche quello che colleziona CD, ma che è stato per anni senza uno strumento capace di farli suonare, per dire. Presa coscienza che la playstation non supportasse più il formato ho comprato un lettore CD per casa, ma lo uso pochissimo, preferendo sempre la comodità dello streaming anche su un dispositivo acquistato all’unico scopo di riprodurre il supporto fisico. Stavo bene così, non avevo letteralmente percezione del problema.
Poi tempo fa ho comprato un disco dei Deafheaven, l’ho messo in auto dopo giorni passati ad ascoltare la sua versione streaming e mi si è aperto un mondo. Ho sempre impostato la qualità dello streaming Spotify al massimo delle sue potenzialità, ma effettivamente anche così resta lontanissima dalla qualità audio del supporto fisico digitale. Quando lo realizzi, è come vedere i fili in un trucco di magia, non riesci a tornare indietro tanto facilmente.
Tidal, nel suo pacchetto base, offre la qualità CD senza compressioni e perdita di dati. Con l’ormai accessibilissima possibilità di connessione 4G a consumo illimitato, non ha davvero senso accontentarsi di qualcosa di meno, visto che la differenza la sento pure io. (ref.)

L’ETICA
Lo dico subito, non mi sono messo a boicottare Spotify per via delle cose che ospita, come fossi un Neil Young qualsiasi. Volendo anzi dire due parole sull’argomento, io sono tra quelli che è felice certa roba esecrabile stia in bella vista su Spotify, per una serie di ragioni che vado ad elencare:
1) Non sono del parere che Hitler abbia diritto di fare un podcast, ma trovo molto importante sapere che se Hitler facesse un podcast lo ascolterebbero X milioni di persone. Ho questa idea che nel 2022 sia utopico sperare che chi ha idee dannose non trovi un modo ed un posto per portarle all’attenzione del prossimo, quindi meglio sia una piattaforma nota a farlo, così che si possa avere anche un quadro della portata del problema. Qualsiasi idiozia trova un buon numero di supporter se esposta al mondo intero, ma quantificare quel buon numero è fondamentale per avere una percezione chiara del mondo in cui viviamo ed evitare di farci fuorviare dalle bolle in cui ci nascondiamo ogni giorno.
2) Una piattaforma come Spotify può offrire alternative al podcast di Hitler, metterlo in competizione con altri contenuti ed evitare che chi ci finisce dentro per curiosità ci resti per assenza di metro valutativo. So benissimo che in questa dinamica pesano le scelte che Spotify fa in termini di “spinta” a questo o quel prodotto, che non è un contenitore neutro, ma è (credo) sbagliato pensare queste scelte arrivino su base ideologica e non economica. Spotify spinge quel che fa ascolti, non quel che sposa a livello contenutistico. Di conseguenza, l’idea dovrebbe essere fare una roba opposta a quella di Hitler e farla meglio di Hitler, muovendo gli ascolti di quelli a cui non va tanto bene la linea di Hitler, in modo da invogliare la piattaforma a puntarci sopra. Hitler non sarà l’unico in grado di fare un podcast con numeri grossi, no? Se lo fosse, direi che il problema andrebbe ampiamente oltre Spotify. Non so, posta l’ineluttabilità del libero mercato che definisce il campo da gioco, secondo me conviene che anche i buoni si mettano a giocare invece di lasciare la partita ai cattivi. 
Mi è scivolato un pistolotto non necessario, sorry.
Tornando al punto di partenza, la ragione etica per cui ho preferito lasciare Spotify è la retribuzione degli artisti. C’è tutta una polemica intorno al fatto che i servizi di streaming non paghino a sufficienza chi fa musica, una polemica in cui fatico ad entrare e su cui ho posizioni probabilmente troppo superficiali (eh, invece di solito…). Quel che conta è che nel momento in cui decido di spendere 10 euro al mese per ascoltare musica online, preferisco farlo abbonandomi a chi paga di più gli artisti. Tidal in questo è largamente meglio di Spotify, già con l’abbonamento “base” paga tre volte meglio, fino ad avere una politica imparagonabile ai competitor quando si sceglie l’abbonamento plus. (ref. e ref.)

Sulla base di queste due ragioni, non nego anche spinto da un influencer, ho fatto il salto.
Il costo del mio abbonamento rimane il medesimo, 9,99 euro/mese, e permette di collegare all’account fino a 5 dispositivi.

E QUINDI COM’E’ STO TIDAL?
Se della qualità ho già detto, il secondo punto nodale che ho valutato prima di cambiare è ovviamente relativo al catalogo. 
Al primo impatto, mi è sembrato che su Tidal mancasse un sacco della musica che ascolto e questo mi aveva frenato dall’approfondire. Smanettandoci invece è venuto fuori che c’è grossomodo tutto quello che avevo su Spotify, solo è molto più complesso da trovare a causa di una ricerca interna fatta con il culo. Spannometricamente, in un caso su 20 l’artista non mi è saltato fuori cercandolo per nome, neanche filtrando la ricerca per artista. In quei casi sono riuscito a rimediare cercando un disco specifico, magari qualcosa con un titolo non troppo ordinario, e arrivandoci da lì. In alcuni di questi casi, fallendo anche con il disco, ci sono arrivato da una canzone. Non è sempre necessario farsi tutto questo sbattimento, ovviamente, per trovare quel che si vuole sentire, però potrebbe esserlo, soprattutto nel caso di artisti non propriamente mainstream. Una cosa che si può fare tuttavia è marcare i musicisti che si ascoltano come preferiti, quindi una volta trovati è sufficiente ricercarli in quella sotto lista le volte successive, eliminando la difficoltà.
Altro problema che ho riscontrato è che a volte piccoli gruppi poco conosciuti hanno degli omonimi e ci si ritrova quindi per le mani una discografia mista, fatta di album di gruppi diversi che per Tidal sono invece lo stesso. Non è particolarmente noioso, a meno che si abbia attiva l’opzione per cui al termine di un disco viene riprodotto in automatico quello seguente. Per quanto concerne il mio catalogo di ascolti, si tratta anche in questo caso di una percentuale minima, ma è giusto segnalare la cosa.
Al momento, l’unica roba che mi pare proprio non ci sia e che mi piacerebbe ci fosse è “Amateurs & Professionals” dei Penfold, che invece era presente su Spotify. Si tratta di un disco introvabile anche in formato fisico, di una band emocore durata pochissimo e conosciuta meno, quindi non mi stupisce troppo la mancanza. Per il resto invece, quel che per ragioni di etichetta/territorio/altro non è disponibile in Tidal non lo era neanche in Spotify.
La pecca che per me è davvero dura da digerire al momento, invece, è l’impossibilità di personalizzare la copertina delle playlist, che viene automaticamente assemblata dal software come collage delle copertine dei dischi di cui la playlist è composta. Da maniaco ossessivo, quando faccio una playlist ci butto davvero il sangue e mi piace gestirne ogni dettaglio, dalla selezione, alla scaletta ad appunto la copertina. Per me è una mancanza gigante, ma avendo questa recensione un target non per forza mentalmente disturbato come chi scrive, la riporto tra i “minor issues”.
Per il resto al momento la valutazione è largamente positiva: la app mi pare completamente analoga a quella di Spotify nell’utilizzo e nella navigazione, anche in auto. Mancano forse le finezze più social, ma non ne ho mai sentito l’esigenza neanche quando le avevo a disposizione. 
Consiglio quindi caldamente il cambio a chiunque paghi per ascoltare musica in streaming, ne vale a mio avviso la pena.

Per chiudere, provo ad incorporare un disco nel blog giusto per vedere l’effetto che fa e come si presenta a chi non ha l’abbonamento al servizio.
Uso un disco senza senso a cui sono finito completamente sotto negli ultimi giorni, ma di cui forse scriverò più avanti. Schiacciare play aiuta a farsi un’idea più centrata di quel che ho definito “musica la cui pulizia si piazza tra il rumore dei vicini che tassellano il muro la domenica alle 8:30 e il latrato dei cani” qualche riga più su.

It’s not interesting

Mi è capitato un sacco di volte di parlare con persone che misurano la loro passione per la musica con la capacità di associare una canzone ai momenti chiave della loro vita. Di solito rispondo: “Eh anche io sono così…”, ma se vogliamo essere onesti è una mezza cazzata.
Ho anche io avvenimenti o persone importanti che collego a questa o quella canzone, ma il più delle volte a me la musica inchioda in testa momenti onestamente insignificanti che diventano ricordi per via della musica e non viceversa.
Non conosco tante persone che ricordino il momento esatto in cui hanno sentito il loro disco preferito per la prima volta. Io sì. Ero su un treno, vagone cuccetta, e stavo andando in Sicilia per il matrimonio di un cugino che ho visto 4 volte in quarant’anni. Non ricordo nient’altro di quel viaggio in treno, ma il momento in cui mi sono sdraiato e l’ho fatto partire dal lettore MP3 è cristallino.
Oppure possiamo parlare della pandemia, due anni di vita che per me non sono esistiti. È una fortuna, probabilmente, visto che chi ha ricordi del biennio 2020-2021 è perché ha perso qualcuno. Io è come fossi stato in coma, forzato a rivivere 600 e passa giorni indistinguibili tra loro, ancora e ancora. Eppure, se ricorderò un singolo momento emblematico di questa parentesi per via della musica, non sarà quando è iniziata o quando è finita, né il momento in cui le persone a me care si sono vaccinate facendomi finalmente tirare il fiato. Non ricorderò neanche le estenuanti convivenze forzate.
Ripensando al COVID mi verrà in mente il momento in cui ho dovuto accostare perché Forever and a day suonava così forte e io urlavo così forte, che mi son ritrovato a piangere dietro al volante. Non so dire che giorno fosse o dove stessi andando, ma quel crollo emotivo è un’immagine indelebile, associata ad una canzone che avevo ascoltato chissà quante volte nei venticinque (!!) anni precedenti, ma che da quel momento ha tutto un altro peso, tanto che, ancora adesso, se la metto in cuffia mi monta il magone.
Esempi da fare ne avrei una camionata, da quella volta in cui è partita Don’t drive angry mentre ero compresso in metropolitana e per qualche minuto sono stato bene sentendomi una vagonata di gente addosso oppure quando mi sono ritrovato a cantarmi in testa Ridere di te mentre nuotavo in piscina, ininterrottamente, vasca dopo vasca. Ero in terza elementare e ce l’ho chiaro come fosse successo ieri, eppure era un giorno qualsiasi del corso di nuoto che ho fatto per, boh, sette anni due volte a settimana?
Pur sforzandomi di pensarci non saprei associare una canzone alla nascita dei miei figli, ma ricordo alla perfezione quella mattina di prima liceo in cui, sottissimo per Molly4Deejay, ho fatto sentire a Peich gli Stunned Guys.
Non credo di essere l’unico con questo tipi di mindset, ma non è qualcosa di cui la gente tende a vantarsi quando parla di sé, quindi boh.

Da un po’ di giorni sono finito dentro ai dischi degli Spanish Love Songs e mi ci sono impantanato. Scrivendone sui social dicevo che tutto sommato sono dischi non particolarmente interessanti, sul piano musicale. Non so perché io debba ancora stare dietro al giustificare i miei gusti, come se intorno a me gente titolatissima non passasse il tempo a spingere, legittimamente, la peggio merda o, soprattutto, come se davvero il fatto che io passi il tempo a spingere roba non ritenuta “universalmente” valida fosse in qualche misura un problema per l’universo che mi vive intorno.
Che poi non è che possa illudermi questo sia un approccio mentale che mi contraddistingue solo quando parlo di dischi.
Passo ampia parte delle mie giornate in un ambiente virtuale che tratta la verità come fosse un Rolex: sei contento di possederla, poterla ostentare ti fa sentire meglio degli altri e, tutto sommato, preferisci rimanga una cosa per pochi così da continuare a sentirti speciale nell’averla tu. Che poi andandoci a guardare in molti casi si rivelino dei grossi fake è irrilevante, tanto chi li sfoggia o lo sa e dissimula, oppure è talmente fiero del proprio status da non accorgersene neanche. Esattamente come succede coi Rolex.
Io invece tendo a giustificarmi sempre, sa il cazzo perché. Non sono davvero convinto sia necessario, probabilmente, eppure forse ho paura qualcuno possa prendere le robe che dico come io spesso prendo le robe dette da altri, per buone. Il mio problema non è realizzare di non contare un cazzo per nessuno fuori da quelle dieci persone mal contante per cui davvero farebbe differenza non avermi intorno (che poi di massima sono le persone che farebbe differenza per me non avere vicine), il mio problema è venire a patti con lo smettere di cercare nel resto della popolazione mondiale persone a mia immagine e somiglianza, fino a derubricare finalmente il prossimo come qualcosa di tutto sommato irrilevante.
Non lo so.
Forse il mio problema con le bolle non è solo il fatto che siano spesso degli agglomerati acritici fatti per fare gruppo/branco, ma che proprio per quello io non creda di poterne davvero avere una in cui sentirmi così e, di massima, nella mia bolla finisca col sentirmi ancora più solo.
Fa abbastanza ridere perché se chiedete ai miei amici probabilmente mi descriverebbero come una persona socievole e non è che siano stronzi loro, è che sono quarant’anni che lavoro per dare questa immagine di me.
Tempo fa twittavo questa cosa:

Oltre al fatto che ovviamente ricordo nel dettaglio il pezzo che avevo in cuffia in coda al Gigante mentre la scrivevo, è forse la roba più vera che possa dire di me stesso. Ci vuole un certo impegno ad essere quel tipo di persona e sbattersi 24/7 per una vita nel tentativo di non darlo troppo a vedere.
Ma sai cosa? Ho fatto un buon lavoro. Vaffanculo.
Ho solo bisogno di prendermi qualche momento in cui faccio il punto, in cui mi metto nelle orecchie qualcosa che mi aiuti. A volte a stare bene, altre volte a stare male, di massima a venirne fuori meglio di come ci sono entrato.

I’m trying to be fine
I swear I’m trying to be my best

Non so se ricorderò questo momento, non ho ancora capito come funzioni la mia testa sufficientemente bene da poterlo prevedere, ma se questo inizio di 2022 troverà uno spazio tra le mie sinapsi sarà probabilmente collegato alla musica degli Spanish Love Songs. Un gruppo per nulla rilevante che ha stampato il suo miglior disco solo in vinile, ma che nonostante questo mi ha aiutato a mettere un po’ tutto in prospettiva ancora una volta e fino alla prossima.
Il titolo del post è quello di un pezzo del disco, direi che ci sta.


Ultimamente mi è capitato di scrivere un paio di cose per Spento, un blog di musica figo in cui sono iper fiero di aver trovato un piccolo spazio (ref1, ref2). 
L’idea era di mandargli anche questo pezzo qui, ma prima di spedirlo mi son preso la briga di controllare e degli Spanish Love Song avevano già scritto ampiamente senza bisogno di me, come giusto che sia visto che si parla di roba uscita mille anni fa. C’è un pezzo su Brave faces, everyone e uno su Schmalz, che poi è il disco di cui credo di aver scritto io. 
Forse è meglio così, che mi sa che ho un filo sbragato ‘sto giro.

Sul greenwashing magari andiamo oltre Cosmo

Ieri sera sul palco più importante d’Italia Cosmo se n’è uscito con lo slogan “Stop greenwashing”, raccogliendo il puntuale abbraccio virtuale delle forze del bene in tutta la giornata di oggi.
La cosa facile per parlare della questione sarebbe scrivere un pezzo di quelli che scrive la Soncini (forse lo ha fatto davvero anche sull’argomento, non mi interessa verificare), che della crociata contro la sicumera di quelli che vengono definiti Social Justice Warriors ha fatto una professione. Nello specifico mi darebbe anche gusto, forse, ma è una roba che detesto e vorrei evitare. Voglio provare invece ad analizzare la situazione, perché la sto vivendo dall’interno e credo meriti un’analisi un filo più complessa di uno slogan.
Partiamo dal principio: cos’è il greenwashing? Di massima è il tentativo di sbandierare politiche green da parte di persone, politici e aziende che non ci credono davvero, ma che lo fanno come mossa di marketing per cavalcare una moda e il relativo consenso.
Una roba ipocrita, che spesso arriva da entità che hanno una responsabilità concreta sul piano dell’inquinamento e che quindi comprendo benissimo faccia incazzare, di pancia, ma le reazioni di pancia non sono note per essere le più centrate e certamente questa non fa eccezione.
Il punto chiave è che la società in cui viviamo è portata a selezionare il profitto sui valori e, spoiler allert, purtroppo non usciremo tanto in fretta da questo modello. Di conseguenza, ho paura che l’opzione migliore che ci rimanga sia quella di approfittare dei rari casi in cui i valori generano profitto e cavarci fuori il meglio, come il proverbiale sangue dalle rape.
Io lavoro per la filiale italiana di una multinazionale americana. Non mi interessa crediate al fatto che, da dentro, la reputi “il migliore degli inferni possibili” nel settore, se si parla di ecologia resta comunque una realtà con delle responsabilità.
Non mi interessa neanche vendervi un’idea di me come accanito sostenitore delle politiche green perché non lo sono.
Il punto però è che quest’anno sono riuscito a farmi approvare un investimento di alcune migliaia di euro per sostenere progetti di recupero delle foreste pluviali nel terzo mondo e il motivo per cui la mia azienda non mi ha mandato affanculo è che su questa cosa può fare comunicazione, marketing, e avere un ritorno di immagine. Questo non vuole necessariamente dire che io, il mio capo o il CEO global non si creda nel valore etico e sociale del progetto, così come ovviamente non basta per sostenere sia un’operazione genuina. Su quello ognuno può farsi l’opinione che crede*, ma certamente se anche tutti i citati fossero ultras della politica green non si sarebbe mosso un euro se questa iniziativa avesse potuto nuocere all’immagine dell’azienda o al suo fatturato.
Quello che conta, alla fin della fiera, è che quei soldi:
– io non avrei mai potuto devolverli all’ambiente di tasca mia.
– la mia azienda non era in alcun modo tenuta ad investirli nelle politiche verdi.
Eppure la donazione è stata fatta.
A volerla vedere come una sconfitta ci vuole parecchia malafede, secondo me. Mi tocca spiegarlo ad un cliente su tre però, quando mi spara la sua versione diplomatica del: “Lo fate solo per darvi una posa”.
Nel 2022 è complicato ricordarsi che la politica la fanno i governi e non le corporation, ma per il momento è ancora così. È la politica che dovrebbe lavorare per non relegare l’ecologia delle multinazionali al reparto marketing, fino a che questo non succederà** tutto ciò che questi colossi faranno in questa direzione è grasso che cola, che lo facciano per immagine, per vocazione o per detrarlo dalle tasse. Non è qualcosa che possiamo controllare.
La riflessione però non finisce qui.
Parlando su twitter con un paio di persone e leggendo i commenti di altri mi sono ritrovato a chiedermi cosa faccia davvero incazzare i sopracitati SJW del greenwashing e la risposta che mi sono dato è “la frustrazione”.
Come dicevo, è complicato credere in una causa che si ritiene giusta e rendersi conto di non contare grossomodo un cazzo nella determinazione dell’esito finale della battaglia. Spiego con un esempio: Lufthansa ha dichiarato di dover far volare 18K aerei vuoti quest’inverno essenzialmente per questioni risibili (ref.). Ogni ora, uno di questi aerei produce la CO2 che una persona produrrebbe in un anno, quindi diventa abbastanza semplice (se non si è lobotomizzati) mettere in scala il peso specifico del nostro sciampo solido e delle maledette cannucce di carta.
Il punto quindi diventa il fatto che chi combatte queste battaglie spesso (direi sempre, ma non mi va di essere assoluto nonostante ci sia di mezzo la natura biologica della nostra specie) lo fa anche per il piacere di tirare la riga tra i buoni ed i cattivi, posizionarsi tra i primi e antagonizzare i secondi. Noi crediamo nelle politiche ecologiche, le multinazionali sono la causa del problema. Easy peasy.
Se però quelle stesse multinazionali possono decidere di avere un impatto positivo sulla questione che io da privato cittadino non avrò mai la possibilità di esercitare, quella riga si sposta o comunque diventa meno netta. Siccome poi in uno scenario senza cattivi è complicato essere i buoni, nessuna redenzione ci sembra possibile, nessun aiuto dal nemico ci risulta ben accetto e trasformiamo il trend delle multinazionali che investono nel green in un ulteriore capo d’accusa sul loro conto.
È un comportamento umano che comprendo e da cui non sono esente, in altri ambiti (ad esempio l’inclusivismo coatto di hollywood, anche se credo siano analisi non sovrapponibili***), ma che razionalmente mi sembra figlio del nostro ego più di quanto sia delle cause per cui ci spendiamo.
Cause che, di massima, superata l’autogestione è difficile ridurre a slogan senza passare per superficiali.


* a margine ci si può fare l’opinione che si crede anche di uno che grida uno slogan sul palco, se si è proni a fare un processo alle intenzioni.

** vedo arrivare l’obbiezione: “Eh, ma le multinazionali controllano la politica, quindi non succederà mai! Da un lato lavorano per restare libere di fare come cazzo gli pare e dall’altro ci sbattono in faccia questo impegno d’accatto…”. Vero. O meglio, plausibilissimo. Se questa è la realtà peró, ha ancora meno senso rompere il cazzo su quel poco che fanno. È legittimo sentirsi presi per il culo e avercela a male, ma chiedergli di smetterla è remare nella direzione opposta.

*** grazie al cazzo, pensassi che è la stessa cosa non avrei opinioni opposte nei due frangenti.