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L’italia è una merda, ma…

Due robe su Trump

Questa è tipo la terza bozza che apro nel tentativo di scrivere qualche riflessione a tema Trump dopo il commento a caldo fatto il giorno della sua vittoria. Le precedenti sono finite nel cestino e non c’è al momento molta speranza che questa faccia una fine diversa. Piuttosto che parlare del nuovo Presidente degli Stati Uniti, però, questa volta provo a partire da una prospettiva nuova:

Una montagna di persone che conosco, tra cui anche qualcuna che stimo, sta condividendo questo video di Jonathan Pie come espressione più lucida e centrata delle ragioni alla base della vittoria di Trump e io, onestamente, non mi trovo del tutto allineato.
Cosa dice il tipo del video? Essenzialmente tre cose:
1- Hilary Clinton era un pessimo candidato.
2- Non è corretto pensare che tutti coloro che hanno votato Trump siano razzisti e sessisti quanto lui.
3- La sinistra (sì, parla di sinistra) dovrebbe smetterla di autocompiacersi della propria supposta superiorità etica e intellettuale e tornare a parlare con le persone.
Come dicevo, non è che sia proprio una posizione peregrina quella esposta, eppure è riuscita ad andarmi di traverso. Lasciando stare il punto 1, la cui evidenza era nota anche prima del 9-11-2016, vorrei soffermarmi sul fatto che votare Trump non implicherebbe essere sessisti o razzisti.
Questa a mio avviso è una cazzata.
È ovvio che votare un rappresentante non coincida mai con l’esprimere completa aderenza al suo programma o alla sua idea. Ci sono da fare dei compromessi. Chi vota responsabilmente però a questi compromessi ci deve arrivare dopo una riflessione, una tara di quanto le idee non condivise pesino sul totale e, perché no, sulla propria coscienza etica.
Trump è un razzista e sessista manifesto. Non lo nasconde e, anzi, radica in questi principi le sue proposte. Ignorare lo sia è impossibile per l’elettore, quindi per dargli comunque il voto restano solo due vie. La prima, facile, è essere razzisti e sessisti quanto lui. La seconda è pensare di non esserlo, ma valutare questi aspetti meno rilevanti nella scelta del proprio Presidente e votarlo comunque.
Qui è dove io mi incazzo.
Il razzismo o si sposa o si condanna, non c’è una terza strada. Se si pensa di poterlo ignorare, se non lo si reputa sufficiente a squalificare una persona che mira a rappresentare una nazione, beh, lo si sta sposando. Chi non ha problemi a farsi rappresentare da un razzista è razzista. Può non ostentarlo nella sua vita di tutti i giorni, può addirittura essere convinto di non esserlo, ma lo è. Con ogni probabilità parliamo di quelle persone che dopo “Non sono razzista” sentono il bisogno impellente della congiunzione avversativa.
La maggioranza degli americani quindi è razzista e maschilista. Non credo questo Election Day ci abbia detto nulla di nuovo o sorprendente. Il punto che viene sollevato nel video è che ci dovrebbe essere modo di dibattere con una parte di questa maggioranza e portarla a votare in maniera differente, solo che la strada suggerita è sbagliata.
La battaglia è culturale, prima che elettorale.
Bisogna portare questa maggioranza a comprendere che il razzismo e il maschilismo non sono tollerabili e sono concetti da cui prendere distacco. Bisogna continuare a sostenere, con forza, che le opinioni non sono tutte legittime e le idee non tutte rispettabili. Non me ne fotte un cazzo se questo risulti snob o offensivo, razzismo e maschilismo sono espressioni di arretratezza culturale e chi li supporta o li accetta è culturalmente indietro.
L’obbiettivo è superare questi retaggi del cazzo.
Quindi, se il livello è “Con te nemmeno ci parlo perchè sei un razzista di merda”, ovviamente possiamo e dobbiamo fare meglio (lo so, è difficile, ma è un dovere provarci.), non dovremo però mai scendere a compromessi sul fatto che queste persone hanno torto marcio. Mai.
Non è pensabile che almeno 20 milioni di donne* (VENTI MILIONI) votino per uno come Trump senza che ci sia un problema culturale dietro. Idem se si pensa ai numeri relativi alle minoranze etniche, specie in un Paese dove essere di colore sta in alto nella classifica delle cause di decesso. La scusa non può essere “La Clinton non era un candidato accettabile”. Quello è un problema, certo, ma stiamo pur sempre parlando di un popolo in cui un buon 40% degli aventi diritto a votare manco ci va, in cui il partito astensionista prende la maggioranza netta ad ogni tornata. Chi ha votato Trump ha voluto votare Trump.
Ci sarebbero davvero molte altre cose da dire, ma non riesco a metterle giù come vorrei. Negli anni pensavo di aver smussato non poco la mia intransigenza politica e probabilmente è anche vero, ma non arriverò mai ad accettare come legittime posizioni che la storia ha dimostrato sbagliate solo per il gusto di poter essere politicamente corretto o, peggio ancora, di non sembrare arrogante.
Alla fine, il “mea culpa” del video qui sopra mi risulta più che altro un’immensa posa, quella sì figlia di un tentativo costante di dimostrarsi migliori anche nella sconfitta.

* la stima non si basa sui sondaggi, ancora una volta inattendibili**, ma sul fatto che Trump ha preso 60 milioni di voti. Dire che almeno 1/3 siano donne non credo vada tanto lontano dalla realtà.

** Le persone si vergognano di ammettere quel che votano. Può certamente essere perchè la propaganda di sinistra ha ormai instaurato un complesso di inferiorità in chiunque non si allinei, come dice il tipo nel video, ma forse è più probabile che molti elettori sappiano in cuor loro di stare facendo qualcosa di cui, semplicemente, sono i primi a non essere fieri.

Due giorni dopo

Non è che mi sia passata.
C’è un qualcosa, nelle partite della nazionale, che mi coinvolge ad un livello emotivo superiore. E’ sempre stato così, devo dire, ma negli ultimi dieci anni credo la cosa si sia ulteriormente inspessita a causa del doversi relazionare con un sacco di persone straniere, tutte ovviamente provenienti da Paesi che contano. Quelli civili, puliti, onesti, dove la gente è educata e i politici non sono corrotti. Non sono brutte persone, anzi, molti sono anche amici, però non possono fare a meno di farti sentire “sfortunato” quando ti parlano. C’è chi sa farlo meglio, in maniera più sottile, e chi invece per cultura riesce meno a velare il messaggio, ma in generale è una cosa abbastanza trasversale.
Io non sono mai stato nazionalista in senso stretto, però ho questa sorta di reazione protettiva nei confronti dell’Italia quando a parlarne sono gli stranieri. E’ un po’ come quando qualcuno di esterno alla compagnia dei miei amici si permette qualche commento poco carino su uno di loro. Di solito sono morose e mogli, non per forza di cose altrui. Io lo posso dire che ho degli amici imbecilli (<3) perchè me li sorbisco da trent’anni e li conosco bene. Altri non ne hanno il titolo.
Ecco, per l’Italia vale il medesimo discorso. La prendo sul personale.
Ora, lo so benissimo che cercare rivalsa nel calcio è quanto di più puerile, immaturo e illogico ci possa essere, però è qualcosa che mi viene dal cuore e che non riesco proprio a soffocare.
Italia vs. Germania è chiaramente l’apice di questo mio fervore, per ovvie ragioni insite per il 5% nel mio percorso di vita e per il 95% nella natura e nell’indole del popolo tedesco.

Non essendo interista, nella sconfitta non trovo particolare giovamento richiamando alla memoria i fasti del passato. Ho visto in giro gente che a poco dalla conclusione della partita pubblicava sui social la semifinale del 2006. Trovo la cosa piuttosto triste. Abbiamo perso. Gira il cazzo, tantissimo, ma è un risultato che ci portiamo a casa e che non si può discutere. Oltretutto crea un precedente.
I valori in campo, sabato sera, erano spropositatamente sbilanciati in favore dei nostri avversari. Se è stata la partita che è stata, se non abbiamo perso nei 90′ regolamentari, credo si debba ai meriti dei nostri ragazzi (su cui torno dopo), ma anche alla paura dei tedeschi. Paura legittima perchè, in fin dei conti, per loro incontrare l’Italia è sempre significato tornare a casa. Ecco quindi che, mio malgrado, tocca anche inquadrare in quest’ottica le dichiarazioni che hanno rilasciato a fine partita. Hanno parlato con l’euforia di chi fino a quell’ultimo rigore ha avuto paura di perdere ancora una volta. Poi certo, la loro simpatia riesce sempre a venir fuori prepotente, ma se li sentite arroganti non è per sicumera, ma per sollievo.
Il che non mi esime dal leggere certe dichiarazioni e pensare il più classico dei “Le vostre madri…”, ma quello è tutt’altro discorso.
Sta di fatto che ora che hanno vinto questa paura non ci sarà più, la prossima volta, e se i valori restano quelli attuali per noi credo possa solo essere peggio. Certo, prima o poi sarebbe dovuto succedere, ma siamo stati a tanto così perchè ancora una volta fosse poi.
Sono stati, ad onor del vero, perchè il merito è di questi qui.

Verrebbe facile mettersi a fare il giochino di dire “senza google, quanti ne riconosci?”. Potrebbe dare soddisfazioni persino dopo un mese di sovraesposizione mediatica, cosa che lascia facilmente intendere come fosse la situazione prima che il circo dell’europeo iniziasse.
L’armata Brancaleone.
Un gruppo costruito su una difesa fortissima, come da tradizione, con a supporto però la più bassa densità di talento mai vista in una nazionale italiana. Una squadra capace di azzerare ogni aspettativa e velleità anche solo leggendone la rosa. Questa analisi non è stata stravolta dai risultati ottenuti. Aver giocato bene, aver battuto la Spagna ed essersela giocata fino ai rigori coi campioni del Mondo non rende l’italia una squadra di talento. Quello che Conte è stato in grado di fare è cementare un gruppo e far diventare la sua idea di calcio una visione condivisa, una missione per cui dare tutto, dando ad ognuno degli scarsotti in rosa l’illusione di potersi redimere dalla propria condizione di “giocatore modesto” ed innalzarsi a “campione”. Credo Pellé sia l’esempio più eclatante, in tal senso.
Graziano Pellè ha trent’anni e non ha mai giocato nel calcio che conta. Mai. Nemmeno i suoi parenti più stretti possono pensare sia un fenomeno incompreso, un talento restato in ombra per via del destino cinico e baro. Eppure in questo europeo ha giocato in maniera superlativa. Io non vedevo un centravanti così dal vecchio millennio. Non si limitava a mettere giù la palla e difenderla, ma la giocava sempre. Sempre. Sponde, spizzate, per una volta c’era un centravanti capace non solo di accasciarsi reclamando una punizione atta a far salire la squadra (quello che per gli esperti è il metodo Gilardino, di cui Balotelli oggi è il più grande profeta in patria), ma di creare gioco con un tocco, anticipando il difensore e creando spazi. Un europeo da incorniciare, fino al rigore.
Anche se io per primo lo prenderei a frustate per quel rigore, è impossibile non vedere nel suo gesto di sfida a Neuer il tentativo, quantomai goffo, di dissimulare la paura vera che provava in quel momento, con nei piedi la palla di un 3-1 che sapeva di passaggio del turno. Non è un caso se, in partita, l’unico che si è preso la responsabilità di tirare un rigore pesantissimo è stato Bonucci.
Oggi sono tutti bravi a sfottere, l’ironia del web sempre più moderna piaga d’Egitto, ma non c’è davvero nulla da ridere.
Abbiamo perso con la Germania e a me, due giorni dopo, girano ancora i coglioni.

Opinioni personali

Ho provato a non dire nulla, a caldo, su quanto successo a Parigi venerdì notte. Bombardato in ogni direzione dai commenti più diversi, ho tentato in tutti i modi di tenermi il mio parere per me, convinto che se avessi parlato sarebbe stato solo per dire qualche banalità o per dare addosso a qualche idiota.
Di idiozie però ne ho lette davvero troppe e, pur continuando a pensare non abbia il minimo senso dare addosso direttamente a chi le ha scritte*, ritengo sia mio sacrosanto diritto usare questo spazio per fare qualche precisazione.
Segue la lista delle opinioni che reputo stronze. Se sentite vostro uno o più di questi concetti, sappiate che non godete della mia stima e se non ve lo dico direttamente é solo perché non ritengo ne valga la pena. Poi oh, ci sono miliardi di persone che senza la mia stima vivono comunque bene quindi penso possiate farvene una ragione.
1) Qualunque pensiero colleghi le stragi di Parigi a qual si voglia campagna xenofoba, é merda. Non c’è molto da dilungarsi in merito.
2) Associare gli atti terroristici alla religione islamica è una stronzata. Sarebbe come dire che i preti pedofili sono tali per colpa del cristianesimo. Non ha senso. Io non sono religioso, ma la religione non è il problema. Il problema è sempre l’uso che se ne fa. Il discorso è analogo a quello che qualcuno fa per le armi, ma il paragone non tiene perché lo scopo ultimo della religione non è arrecare danno al prossimo. Come in tutte le cose, il problema sono gli uomini. Quindi NO, non è sbagliato o deprecabile che chi crede preghi per Parigi e NO non è asserendo con supponenza che le religioni siano roba da scemi e/o fondamentalisti che si contribuisce alla questione.
Questa cosa non vi entra in testa. D’altra parte siete convinti che il tifo sia la causa della violenza negli stadi e non un pretesto.
3) È davvero necessario condividere una frase dal corano che condanna l’omicidio? Ma soprattutto: quella frase è davvero nel corano? Ne siete sicuri? E anche fosse, nel corano non ci sono anche frasi in contraddizione con quella? Io non lo so. So che nella Bibbia ci sono le stragi E il comandamento non uccidere. Lo so perché la bibbia almeno un po’ l’ho letta. Avete letto il corano? Chi cazzo siete per andare ad insegnare il corano ai mussulmani? E soprattutto, tornando al punto 2, davvero siete convinti che la base su cui fonda il terrorismo sia una scarsa conoscenza delle sacre scritture islamiche e che questa lacuna possa essere colmata dai vostri profili social?
4) “Adesso ti scandalizzi per Parigi, ma dov’eri quando a morire erano i vulcaniani (pregasi inserire nome di popolazione a piacere)?”
Questa è una roba che mi manda davvero il sangue in testa. In primis i media non mi sovraespongono alle continue stragi che capitano. Gente nel mondo ne muore in continuazione ed è ovvio che, per dispiacermi, devo saperlo.
Non basta però. Proprio perché succede di continuo devo non solo venirne a conoscenza, ma essere forzato a percepirla come una cosa più grave di altre. E questo è ancora legato all’azione dei media. Conosco molte più persone che siano andate in vacanza a Sharm almeno una volta di quante siano state ad un concerto alternative in un piccolo locale. Eppure l’aereo turistico russo fatto saltare dall’Isis in rientro dall’Egitto poche settimane fa non ha generato tutto questo moto di indignazione. Questo perché vivere le disgrazie come distanti è parte costituente della nostra natura. Se non veniamo forzati a fermarci e pensare, a sentirle vicine, non lo facciamo. Non riusciremmo ad andare avanti, altrimenti. Quindi ok, non discuto che parte del fenomeno “lutto di massa” si basi su omologazione, sovraesposizione mediatica e scarsa informazione, ma chi cazzo siete voi per pontificare?
La maggior parte delle persone che scrivono “Eh, ma dove eravate quando a morire erano i vulcaniani” io non me le ricordo a piangere per i vulcaniani. Quindi è solo voglia di rompere il cazzo, una cosa di cui in questo momento non c’è bisogno.
5) Sottolineare che il cordoglio social sia nel migliore dei casi inutile e nel peggiore moda non fa di voi persone piú autorevoli. E, se lo chiedeste a me, risponderei che il cordoglio social ormai ha lo stesso impatto di una mobilitazione di piazza. Che voglia dire molto oppure niente non conta, conta il fatto che meriti lo stesso livello di analisi e lo stesso metro di giudizio.
6) Basta dietrologie. Può anche esserci un ruolo di Istraele, degli Usa, del prossimo G20 e di chissà chi altri in quanto successo. Dirlo oggi non aggiunge nulla, soprattutto se lo si dice senza mezza prova o dettaglio al seguito. Se qualcuno ha le basi per dimostrare qualsiasi collusione ai teagici attentati farebbe bene a dirlo, altrimenti son solo ipotesi più o meno fantasiose.
7) EDIT del 16/11 alle ore 9:21. Le foto dei morti. Chi pubblica le foto dei morti è un verme.
8) Al punto uno ho detto che la strumentalizzazione di questi avvenimenti per legittimare propagande xenofobe di intolleranza é da stronzi. Lo ripeto.

Come detto, è probabile queste mie riflessioni non aggiungano nulla alla questione, ma sentivo di metterle nere su bianco. D’altro canto purtroppo quel che penso del terrorismo l’avevo già espresso a gennaio e non credo sia necessario ripetermi. Nulla è cambiato.
La discriminante ormai è solo la fortuna: sperare di non esserci quando capita.
Quando, non se.

* A me di solito “litigare” online diverte. Non trollo mai tanto per fare, ma certamente non manco occasione di commentare ciò che non condivido nella speranza ne nasca un dibattito acceso.
In questo caso non l’ho fatto perché non sarebbe stato divertente.

Credevo fossero i Maya e invece era un prosciutto

E’ notizia di ieri che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization) ha reso pubblico un documento sulle possibili correlazioni tra le carni rosse, processate e non, e l’insorgenza del cancro.
La comunicazione ufficiale è disponibile qui.
Ovviamente (?) tra giornali e social la notizia è stata recepita e diffusa con la solita pacata volontà di analizzare e comprendere e così il risultato è stato, ovviamente (!), il panico mediatico.
Di primo acchito, la mia reazione è stata stata quella espressa alla perfezione da questo twitt che ho letto:

A mente fredda tuttavia ho pensato, probabilmente sbagliando, di poter dire qualcosa di un filo più significativo e dettagliato in merito e quindi ho deciso di riprendere in mano la questione sul blog.
Partiamo dalla base. Lo studio è uscito sulla rivista The Lancet Oncology (Impact Factor 24,69, terza testata per importanza in ambito oncologico) e registrandosi online è possibile scaricare il pdf gratuitamente. Io l’ho fatto, come immagino tutti coloro che si sono espressi in materia, giornali in primis.
Premetto che lo studio clinico di popolazioni non è proprio il mio pane quotidiano, ma quello che hanno fatto i 22 ricercatori coinvolti è analizzare la correlazione tra incidenza di diversi tipi di cancro e consumo di carne rossa / carne rossa processata in popolazioni differenti, con livelli di consumo differenti. To cut a long story short, è emerso che la carne rossa è da considerare tra gli elementi “probabilmente cancerogenici per l’uomo” (Gruppo 2A) mentre la carne processata tra gli elementi “cancerogenici” (Grupppo 1). Ok.
Se vi interessa sapere su che base le sostanze vengano associate alle diverse categorie ora provo a spiegarlo. Essendo una roba noiosa, la metto in corsivo così chi non vuole sapere può saltarla (come se qualcuno fosse arrivato a leggere fino qui, vabbeh). Chi invece volesse una spiegazione davvero dettagliata, può leggerla direttamente alla fonte.

Per attribuire quale livello di “pericolosità” abbia un certo elemento vengono tenuti in considerazione tre aspetti: gli studi di popolazione su casi clinici umani, lo studio in modelli animali e quelle che vengono definite evidenze meccanicistiche. Il risultato dell’analisi del primo aspetto è stato riportato in questi termini: “… a majority of the Working Group concluded that there is sufficient evidence in human beings for the carcinogenicity of the consumption of processed meat. Chance, bias, and confounding could not be ruled out with the same degree of confidence for the data on red meat consumption, since no clear association was seen in several of the high quality studies and residual confounding from other diet and lifestyle risk is difficult to exclude.”.
Per la parte relativa ai dati da modelli animali, la conclusione è la seguente: “There is inadequate evidence in experimental animals for the carcinogenicity of consumption of red meat and of processed meat.”
I dati meccanicistici costituiscono come detto la terza risorsa per la valutazione finale e sono composti di quelle ricerche fatte in laboratorio in cui si parte da certi elementi o certe risposte biologiche, ne si evidenzia la connessione con la patogenesi e di conseguenza il livello di rischio. Ubersemplificando: l’oncogenesi può essere indotta da una certa risposta cellulare ad uno stress -> questo stress è dimostrato in vitro essere causato anche da certe concentrazioni di una sostanza X -> questa sostanza X è presente nella carne in concentrazioni paragonabili a quelle risultate dannose => la carne può indurre oncogenesi. Per questo tipo di analisi, il responso è: “The mechanistic evidence for carcinogenicity was assessed as strong for red meat and moderate for processed meat.”
In generale però, leggendo il testo dell’articolo, si nota come siano comunissime parole come moderate, mild, slight, modest, ecc. questo non per sminuire la portata della ricerca, ma proprio perchè si tratta di piccole variazioni che, tuttavia, essendo statisticamente significative devono essere prese in considerazione.

Quello che è importante capire di tutta questa faccenda, prima ancora di preoccuparci delle conseguenze, è che si tratta di correlazioni statistiche. Come sempre, quando si parla di studi clinici.
L’incidenza del cancro al colon retto è inferiore a 43 individui su 100K, uomini e donne (ref.). La ricerca ci dice che una percentuale significativa di questi casi correla con il consumo di carne rossa, rendendolo quindi un fattore di rischio. Quanti sono però gli individui che mangiano abitualmente un quantitativo di carne superiore alla soglia emersa come limite nello studio? Il cuore della vicenda sta proprio lì: una piccolissima percentuale di chi mangia carne svilippa il cancro e, contemporaneamente, non tutti coloro che sviluppano la patologia lo fanno in relazione a questo fattore di rischio.
Questo studio è quindi una bufala? Affatto. Io non sto svalutando o discutendo quanto emerso dalla ricerca. Se avete questa impressione è perché sto svalutando e discutendo la percezione che avete avuto della ricerca, trasferitavi da chi vi ha riportato la notizia. Questo perché, con ogni probabilità, ve l’hanno riportata male. Io ho solo esplicitato i concetti presenti nell’articolo.
Fino a qui spero mi stiate seguendo, quindi una volta chiarito il punto statistico resta da esaminare la seconda, grossa, variabile da considerare: il dosaggio.
Qualunque effetto biologico sul nostro organismo dipende dal trattamento, certamente, ma vincolato ad un dosaggio e ad un tempo di esposizione. La traduzione é che non basta consumare carne per essere a rischio, ma bisogna consumarne un certo quantitativo per un certo periodo. Ora, nel 2015 davvero c’era ancora qualcuno ignaro del fatto che consumare grandi quantitativi di carne rossa ripetutamente fosse poco salutare? Io non credo. Questo studio non fa che confermare il concetto, anzi, se vogliamo il cancro è solo una delle problematiche che una dieta troppo ricca di carne rossa può comportare.
Ok, ho detto alto consumo e capisco sia un po’ labile come definizione, ma la verità è che per i diversi casi e le diverse conseguenze, i termini possono davvero cambiare moltissimo. Nella ricerca, ad esempio, i danni al DNA imputabili ai NOC contenuti nella carne (poi torno su sta cosa, tranquilli) sono stati associati a consumi che vanno “dai 300g ai 420g al giorno”. Non proprio uno scherzo insomma. In generale però i dati si riferiscono a consumi di 100g al giorno di carne rossa e 50g al giorno di carne rossa processata. Questo è il dosaggio associato all’incremento dell’incidenza (intorno al 18% per entrambi i prodotti). In numeri, per tornare alla statistica di cui sopra, vuol dire 118 carnivori col cancro ogni 100 vegani col cancro. Non sono un drago della statistica, ma credo di non aver scritto stupidate.
Ci siete ancora? Dubito, ma a sto punto insisto e apro a qualche considerazione personale.
Nella ricerca viene chiarito come ovviamente non sia la carne il problema, ma sostanze e metaboliti in essa contenuti, derivanti dal metodo di cottura o, nel caso degli insaccati, di conservazione. La carne bollita è meno nociva di quella alla brace e con ogni probabilità un salame e un prosciutto affumicato avranno caratteristiche molto diverse. Lo studio è stato fatto sui grandi numeri e difficilmente può quindi considerare il dettaglio del tipo di prodotto o della cottura. Sollevare la questione però è utile perché può aprire ad approfondimenti. Riconoscere che certi processi possano rendere la carne più nociva che altri è importante per la produzione industriale, ad esempio, o per la messa in commercio di nuovi prodotti. Ecco perché si fanno questo tipo di ricerche.
Chi pare non averlo capito è il Codacons, che nella persona di Carlo Rienzi oggi se n’è uscito con una richiesta completamente assurda nelle basi e tremendamente dannosa negli sviluppi, ovvero il blocco della commercializzazione di carne rossa e carne rossa processata.
Sulla questione è intervenuta anche il ministro Lorenzin che, tutto sommato, pur parlando un po’ a casaccio di regole di produzione restrittive e altamente controllate per i prodotti italiani, si limita a ribadire l’ovvio, ovvero che una dieta varia ed equilibrata è l’unica vera regola da seguire. Oggi avevo letto un articolo su Repubblica in cui le veniva attribuita la dichiarazione “Consumare carne fresca” e sul momento avevo pensato che la Lorenzin non avesse mezza idea di cosa stesse parlando. Poi ascoltando la dichiarazione linkata qui sopra ho realizzato che, con ogni probabilità, fosse il giornalista di Repubblica ad aver riportato frasi a casaccio e fuori contesto. Non ne ho la prova, potrebbe trattarsi di un altro intervento, ma diciamo che di Repubblica non mi fido più da un po’.
Cosa resta da dire?
Non molto, grazie al cielo.
Fun fact: nell’articolo che riporta lo studio si trovano frasi come “Red meat contains high biological value proteins and important micronutrients such as B vitamins, iron (both free iron and haem iron), and zinc.” ad indicare, non fosse chiaro, che non stiamo parlando di veleno.
Ok, non è un fun fact, ma a me ha fatto sorridere.

Hipsterismo alimentare®

La notizia è che il franchise americano Domino’s Pizza sbarca in Italia, ovviamente a Milano.
L’inaugurazione del primo negozio è oggi, ma nel piano aziendale ne dovrebbero seguire molte altre nell’immediato futuro. Io metterei un euro sul fatto che Napoli resterà fuori da questo disegno di business, ma potrei anche sbagliarmi visto che, me lo avessero chiesto prima che apprendessi la notizia, avrei risposto che per me importare il brand di una catena di pizzerie statunitensi in Italia è una scelta senza senso.
Immaginando abbiano fatto un’appropriata ricerca di mercato prima di partire con il progetto, pare ovvio io non veda così lungo sull’argomento.
Ora, io non sono tra quelli che tengono particolarmente al concetto di eccellenza italiana e al made in Italy a tutti i costi, però trovo assurda questa operazione a più livelli.
Il primo è chiaramente legato al discorso pizza. Io la pizza di Domino’s l’ho mangiata, negli States, più di una volta. Prima di partire, puntualmente, mi prometto che qualunque cosa accada non dovrò finire a mangiare Italiano oltre oceano perchè so quanto ogni volta mi penta di averlo fatto. Poi succede che sei lì e al quarto giorno, colmata ogni ragionevole voglia di prodotto USA, hai talmente poche opzioni da non poterti permettere di scansarne nessuna, nemmeno una pizza che sai a priori essere orrenda. La pizza di Domino’s fa schifo. Non è una questione di gusti nè di paragoni, è proprio un prodotto di merda in senso assoluto. Di conseguenza, se il progetto è portare in Italia la pizza di Domino’s “originale”, non posso che essere fortemente perplesso.
Più probabile quindi si decida di utilizzare solo il brand Domino’s per spacciare una pizza semplicemente mediocre (questa volta sì in senso relativo, ovvero nel contesto nazionale medio) trainata da un marchio che sappia imporsi nella moltitudine. Un progetto di questo tipo è certamente più verosimile e potenzialmente vincente, ma il suo esserlo evidenzia non pochi limiti nel target. In italia non è che la pizza la facciano solo gli italiani eh, anzi. Nel mio piccolo, statistica vuole che le migliori pizze del circondario siano tutte di pizzerie italiane, ma conosco certamente molte pizzerie italiane che fanno una pizza orrenda così come kebbabbari e cinesi che fanno una pizza buona. Ecco, io se vado da un kebabbaro mangio il kebab, come se vado al cinese mangio cinese, ma non è che posso aspettarmi una società a mia immagine e somiglianza. Il punto quindi non è “L’Italia La Pizza agli italiani!” come diktat. Ben vengano realtà straniere che si propongano qui con un buon prodotto. Credo sia anche stimolante, da un certo punto di vista, venire qui e imporci la pizza. Tipo quei film in cui il protagonista arriva in un posto e ci mette un po’ a farsi accettare, ma poi conquista tutti facendo proprio quello in cui la comunità eccelle e diventa un idolo. Una sorta di Karate Kid 2 della pizza. Divagazioni a parte, dicevo che non è importante che la pizza sia italiana, ma che sia buona. Di conseguenza nessuno va a mangiare la pizza in un posto per il nome sull’insegna, ma per la qualità di quel che arriva nel piatto.
Domino’s punta a spostare completamente l’approccio: è evidente che chi ci andrà, perlomeno all’inizio, andrà per il nome, probabilmente aspettandosi o addirittura sperando che la pizza sia meglio di come sarebbe entrando in un qualsiasi Domino’s americano. Quindi non sarebbe nemmeno un discorso di brand associato alla qualità, ma puro e semplice hipsterismo alimentare®. La cosa fa incazzare perchè è uno di quei casi in cui la moda punta ad abbassare il livello e per cascare in un tranello del genere bisogna essere piuttosto fessi. Da qui, ecco perchè dicevo che il problema è il target.
Prima di scrivere il post ho commentato la notizia su twitter e qualcuno mi faceva notare che la mia posizione oltranzista non tiene effettivamente conto del fatto che Domino’s potrebbe invece avere senso perchè offre qualcosa di diverso. Non ci credo molto. Dal punto di vista del prodotto, ho già spiegato che non credo potrà distaccarsi più di tanto da una mediocre pizza italiana. Il marchio è noto, ma non è MacDonald e se servissero la loro pizza TRUE continuo a pensare chiuderebbero esaurito l’effetto novità. In questo c’è molta differenza con altre operazioni insensate che possono venire in mente. La prima è Starbucks (che, tuttavia, se non erro ancora non ha aperto pur avendo in giro molti più estimatori di Domino’s). Starbucks offrirebbe qualcosa di diverso da quanto si trova in molti bar: beveroni, muffin, donuts e via dicendo, eppure quanti italiani ci andrebbero se non una tantum? Pochini. Andrebbe meglio con gli stranieri, che è noto non apprezzino sempre il nostro espresso in piedi per colazione. Ma quanti stranieri, in italia, rimpiangono la pizza di casa loro? Quindi abbiamo un marchio più noto, con un prodotto che si differenzia dallo standard nazionale per tipologia e non solo per qualità e con una nicchia di mercato garantita che, tuttavia, all’idea di stanziarsi da noi ancora non è sicuro il gioco valga la candela.
Se la differenziazione non arriva dal prodotto, quindi, si potrebbe pensare al prezzo. Ma onestamente, quanto meno si può pagare una pizza da Domino’s? Se parliamo di Milano vedo anche del margine, sebbene anche qui non sarebbe così semplice surclassare in rapporto qualità/prezzo uno Spizzico qualsiasi. Estendendo poi il concetto su scala nazionale, cosa a cui Domino’s punta, io la vedo davvero maluccio. Sempre che il prezzo conti. C’è chi paga 4 euro per un Magnum quando con 2 può avere un buon cono artigianale, ma ancora una volta non credo che Domino’s da noi valga Magnum sul piano del riconoscimento del brand.
Insomma, non vedo molte ragioni per cui questa idea non si riveli un fiasco clamoroso, ma è sempre vero che le mie supposizioni non hanno mezza base concreta nè studi alle spalle. Più probabile quindi che abbiano ragione loro.
Io però ho come il sospetto sarà tutto legato all’hype e alla moda che sapranno generare e, in tal senso, non vedo l’ora di vedere quanto se ne parlerà sui vari social.
Chissà quante twitstar ci diranno di essere da Domino’s, magari proprio a partire da questa sera.
#AcquaCalda

La volta che sono stato all’Expo

Alla fine sono andato all’Expo.
Ci ho messo un po’ a decidermi, non per chissà quali questioni ideologiche, quanto perché non avevo davvero molta idea di cosa fosse. Grossi padiglioni in cui le varie nazioni presentano la loro cultura gastronomica in relazione alla biodiversità territoriale e alle tecnologie agroalimentari per la sostenibilità nutrizionale. Figo eh, ma a me interessava più che altro mangiare robe strane. Immaginavo Expo come una sorta di mercato con le bancarelle di design, insomma, e tutto sommato non è che sbagliassi di molto, anche se dopo esserci stato la sensazione è più quella di un grosso parco divertimenti a tema cibo, con tanto di parata delle mascotte e spettacoli i vari. Come Gardaland, ma senza le giostre.
In una giornata piena, circa 12 ore, sono riuscito a visitare 13 padiglioni: Nepal, Thailandia, Cile, Cina, Giappone, Messico, Marocco, Austria, Kazakistan, Emirati Arabi, Azerbaijan, Cuba e UK. Avendo con me un bimbo di neanche 3 mesi ho saltato qualunque coda, quindi ho visto molto più di quanto avrei potuto in condizioni normali (certi padiglioni arrivano fino ad un’ora di attesa, senza contare le interminabili file all’ingresso dell’area Expo), il che significa che per vedere tutta la fiera senza “favoritismi” è presumibile siano necessari almeno tre giorni pieni, se non quattro. Dei padiglioni che ho visitato, col senno del poi trovo evitabilissimi UK (che ho scelto solo nella speranza, vana, di beccare una buona birra), Cuba (che è un bar di 3x3m che serve mojito a 8 euro), Azerbaijan e forse Messico. Menzione speciale in positivo alla Thailandia e al Giappone, che sono senza dubbio i migliori tra quelli che ho visitato. Volendo fare un podio metto al terzo posto il Marocco.
Un discorso particolare andrebbe fatto per il padiglione degli Emirati. Come dicevo all’inizio ho cercato di sorvolare sulle questioni ideologiche legate all’evento, però è difficile stare a sentire un pippone di 20′ sugli sprechi d’acqua nello stand di chi costruisce piste da sci nel deserto. Tutto il percorso del padiglione (disegnato da Foster, giusto per non farsi mancare nulla) è incentrato su un video il cui messaggio che ho colto è: se sei ricco vale la pena mobilitare elicotteri per trasportare una palma del cazzo dal cantiere dell’ennesimo grattacielo fino al giardino della reggia di tua nonna, sprecando 1000 volte più risorse di quante quella Palma di merda riuscirà mai a produrre. Qui il video, se ci trovate un messaggio diverso fatemelo sapere.
Cosa rimane da dire? Beh, in primo luogo che se uno ci va per mangiare robe strane e assaggiare prodotti del mondo, è facile rimanga deluso. Tolto il latte di cavalla fermentato offerto dallo stand Kazako con l’evidente scopo di trollare i visitatori (“Ehi, nello stand mostriamo storioni un po’ ovunque, ma la nostra chicca non è il caviale, è questa merda qui. Assaggia!”) e la frittellina al miele offerta dagli emiri (che tanto loro possono), per il resto nulla da segnalare. Mi sono fatto sapientemente inculare dai colombiani, che per 20 euro mi hanno rifilato due empanadas meno significative di un sofficino findus, e mi sono fatto ingolosire dal foodtruck americano, come il tipo che va nel birrificio artigianale e prende una nastro azzurro (cit.).
Ho evitato con estrema accortezza tutti gli stand “sponsor” ad eccezione di Chicco, che se hai un bambino di tre mesi con te risulta l’azienda con le istallazioni migliori, e il duo Moretti/Poretti perchè in 12 ore di caldo una birretta te la devi anche bere e piuttosto che spendere 5 euro per una birra colombiana il duo di casa nostra resta la soluzione migliore. Lo stand Poretti, anche noto come 50 sfumature di luppoli, presenta settecento alternative, lo stand Moretti ha SOLO il baffo d’oro (io le cose alla frutta non le conto, che non è birra). Il baffo d’oro, ovviamente, piscia in testa a tutte e settecento le alternative Poretti dimostrando, in Expo come nella vita, che il baffo è e sarà sempre il TOP.
Il mio giudizio finale in sostanza è questo: riuscendo ad avere un biglietto a prezzi ridotti (io ne ho avuto uno in omaggio da Sky, per dire, quindi ho speso 39 euro per due persone) ed un infante per saltare le code, l’esperienza Expo è piacevole e vale la visita. Non imparerete molto sul futuro del pianeta, ma vi verrà voglia di visitare posti in cui non siete stati. Se un certo tipo di architettura vi diverte, vedere gli stand è sicuramente piacevole. Oltre a questo, onestamente, non credo si possa andare.
Come detto all’inizio ho cercato di tenermi fuori dalle questioni ideologiche, ma se proprio volete un mio parere veloce e superficiale anche su quello, cito da un blog che dovreste leggere:

… Dovete sapere che l’Expo è un’esperienza che permette selfie praticamente a ogni passo, ed estremamente twittabile, quindi a noi giovani piace molto, esclusi naturalmente i giovani noExpo, secondo i quali un altro mondo è possibile.
Secondo me, no.
Eh. Spiace.

Alla fine speravo ci fosse una maglietta con la scritta “I went to Expo Milano 2015 and all I’ve got is this stupid t-shirt”, ma no.

Pubblicazione #6

Durante gli ultimi mesi a Colonia, dopo la discussione del dottorato, ho lavorato ad un nuovo topic come post-doc.
Quando a fine 2011 ho lasciato il lab per rientrare in Italia il progetto era ben avviato, con anche dati robusti, ma ancora acerbo. In questi anni il gruppo ha portato avanti il lavoro e con un po’ di fatica, un po’ di aiuto esterno e tanta pazienza, qualche giorno fa lo ha finalmente pubblicato su Plos Genetics. Bravi.
Con ogni probabilità questa sarà la mia ultima pubblicazione scientifica e la cosa mette addosso un po’ di malinconia. La mia non è stata una carriera da premio Nobel, ma in otto anni ho cavato fuori sei paper di cui due primi nomi ed un ultimo nome. Ho pubblicato grossomodo tutti i progetti a cui ho lavorato, ad eccezione dell’ultimissimo di cui avevo comunque messo giù un abbozzo di articolo che una volta cambiato lavoro nessuno (me compreso) ha più avuto tempo e voglia di completare come si dovrebbe ed inviare in peer review.
Fare ricerca non è un lavoro che si può fare per tutta la vita. Non per un discorso di soldi o stabilità, che comunque pesa, ma perchè per farla ad un certo livello (e parlo del mio, che è certamente più che dignitoso, ma non è l’eccellenza) serve una dedizione fuori dal comune. Ora mi capita di girare per i laboratori. Vedo gente che lavora bene e gente che la prende come una vacanza, gente che ci mette il cuore e gente che tira a sera. La mia esperienza non è quindi certamente estendibile alla totalità del campione. Se lo chiedete a me, non credo ad uno solo di quelli che dipinge il laboratorio come una miniera in cui si lavora praticamente gratis tutti i giorni fino a tardi week-end inclusi, ma percepisco un discreto prurito alle mani quando sento dire che in laboratorio “non si fa un cazzo”. Per otto anni ho dedicato a questa cosa tutto l’impegno di cui ero capace, senza eccessive rinunce, motivato unicamente dalla soddisfazione che si prova quando la comunità riconosce quanto hai prodotto e lo consegna ai posteri sotto forma di articolo. Forse i presupposti su cui si fondano i miei lavori verranno completamente stravolti o addirittura smentiti in un futuro più o meno prossimo, o forse saranno alla base di scoperte maestose. Comunque la si guardi posso dire di aver contribuito al progresso e alla conoscenza scientifica. Sia anche in minima, infinitesima parte, è molto più di quanto la maggior parte delle persone potrà mai dire di aver fatto.
E di questo sono incondizionatamente fiero.

Alcune delle immagini che ho prodotto per questo paper sono davvero belle, checcazzo.

Una su X Factor 8

Poco fa @disappunto ha linkato su twitter un pezzo del Fatto* a tema X Factor 8 dicendone essenzialmente male. Io ho letto l’articolo e ne condivido larga parte. Non riuscendo per una volta a spiegare i miei motivi via tweet mi prendo qualche minuto per scriverne qui, conscio che il pezzo uscirà con tempi inconciliabili a qualunque tipo di discussione online caratterizzi l’epoca contemporanea, vale a dire più o meno due ore. Tempo fa ho steso la bozza di un post a tema “i tempi del web” che non ho mai concluso perchè io stesso a metà pezzo mi ero ritrovato ormai privo di interesse per la cosa.
Tornando in tema, l’articolo del Fatto* è questo qui e se si esclude l’ultimo paragrafo e la sua deriva sui problemi della discografia a me pare un pezzo piuttosto centrato su questioni in merito alle quali a sto punto dirò anche io la mia. Una cosa certamente vera è che a X Factor si ripete come un mantra la questione centrale dell’essere vendibile. Anche gli scorsi anni eh, ma in questa edizione è tutto ancora più marcato, con Fedez che sente particolarmente suo questo metro di valutazione. A rifletterci, la contraddizione in termini è evidente e se per qualcuno tirarla fuori dopo otto anni è un nonsense, per me è semplicemente basarsi su una robusta casistica. Vado ad elencare i motivi per cui “la contraddizione in termini è evidente” (cit.). Innanzi tutto, nessuno dei vincitori di X Factor vende. Non è del tutto vero, ci sarebbe Mengoni, ma proprio grazie all’ampia casistica a disposizione si può concludere che Mengoni sia un caso. Quindi il punto è che o consideriamo il format come uno dei più fallimentari della storia della televisione, ciclicamente incapace di raggiungere l’obbiettivo per cui parte, oppure il punto della vendibilità come criterio di valutazione è una cazzata. Io propendo comunque per la prima ipotesi: i giudici di X Factor puntano davvero a trovare un soggetto vendibile, ma non ne sono capaci. In più, il format non li aiuta. Sempre volendo puntare i miei due centesimi, gli autori questo lo sanno benissimo, ma nessuno di loro va in TV a dire che l’obbiettivo della trasmissione è “Trovare un talento vendibile” piuttosto, se glielo chiedessero, “portare a casa un’altra stagione di buona televisione”. Ora, volendo dare per buono il concetto per cui oggi esista qualcuno in grado di sapere come fare a far vendere i dischi ad un artista, di certo questo qualcuno non sta al tavolo dei giudici del programma. Non c’è quest’anno come non c’era gli anni scorsi, ma è di questa edizione che si parla e quindi è questa che analizzo.
E’ facile dire che Victoria non sappia cosa serve per vendere i dischi. Non è il suo mestiere. E’ più simpatica della Ventura (grazie al cazzo), ma la portata è la stessa. Il secondo in ordine di inutilità però è proprio l’osannatissimo ed autocompiaciutissimo Morgan, che a conti fatti non è mai stato buono di vendere manco i suoi, di dischi. Qui si capisce la netta separazione di intenti tra autori e programma. Morgan è fondamentale per lo show perchè è l’equivalente di Benigni che legge la Divina Commedia, solo che nessuno si azzarderebbe ad andare in giro a dire che il secondo punti a far vendere più copie di Dante. E’ ovvio anche alle mie pantofole che chi guarda X Factor non è chi compra i dischi. Fine. Così non fosse, non ci sarebbe una crisi della discografia comunemente detta. Morgan, all’atto pratico, è il fallimento più grande dell’X Factor che punta ad invadere il mercato. Restano gli altri due giudici, che quantomeno hanno un’idea di cosa voglia dire vendere dei dischi, anche se ho già detto della profonda differenza tra vendere e far vendere.
A farmi riflettere più di tutti c’è Fedez, ragazzo che stimo essenzialmente sulla base della musica che ascolta e della maggior parte delle cose che gli ho sentito dire. Valutassi la musica che fa avrei un parere diverso, ma non è questo il punto. Il meccanismo legato al “successo” di Fedez è talmente all’antitesi di una cosa come X Factor che infilarcelo dentro a fare il giudice/coach risulta una scelta assurda da qualunque direzione la si guardi. Penso si sia tutti d’accordo sul suo non essere personaggio televisivo, non ha i tempi né il mestiere e una sua performance alla Arisa credo non sia nemmeno quotata dalla SNAI. Non credo nemmeno sia da prendere in considerazione per l’aspetto tecnico/teorico della faccenda. Non è uno che sa come si fa bene la musica. Non parlo di gusti eh, parlo proprio di sapere quello che si sta facendo, di “preparazione”. Potrò non essere sul pezzo per valutare le sue conoscenze del RAP o dell’Hip-Hop, ma quelle volte che prova ad uscire dal suo per entrare nel mio, che non sappia quello che sta facendo o quantomeno come fare a farlo bene è evidente. Fedez fa la sua cosa credendoci il giusto e divertendosi di conseguenza. E fa benissimo. Però da lì a poter spiegare agli altri come fare altrettanto secondo me il passo è lungo. Usando una metafora che credo gli piacerebbe, è come far fare l’allenatore in Serie A ad uno solo perchè è forte a Pro Evolution Soccer. Che poi, giusto per aprire un’altra parentesi nel discorso, che cazzo di senso ha continuare a puntare su questo discorso della qualità, del fare buona musica, delle armonizzazioni, dell’intonazione e via dicendo? Ci rendiamo conto di chi “vende i dischi” in casa nostra o no?
Per quanto mi riguarda quindi, X Factor è un programma che con il vendere i dischi c’entra relativamente poco. Meno di Amici, per dire, che trovo decisamente più onesto nel suo invertire gli addendi e lavorare sulla costruzione di un pubblico che ami quello che propone invece che sul costruire qualcuno perchè piaccia ad un generalissimo pubblico senza volto. Ed infatti ad Amici non si parla mai di “cercare uno che possa vendere”, pur avendo tirato fuori più gente con i numeri in classifica del rivale con la X.
Quindi? Quindi sono d’accordo con il pezzo del Fatto* in quasi tutte le sue parti, pure quando fa una critica alla prima puntata ed ai suoi contenuti artistici. Due ore e passa di bello spettacolo: curato, ben fatto e ben diretto, dove però sotto questi chili di sovrastrutture produttive non resta nulla di cui valga la pena parlare. Nessuna voce che spicca. Nessun personaggio che spicca. Nessuna interpretazione che spicca. Tantissima insipienza su cui è stato costruito dell’ottimo intrattenimento. E va bene così, perchè io guardo X Factor per lo show, non certo perchè comprerò i dischi che ne escono. A me piace vedere l’assegnazione dei pezzi, gli arrangiamenti, i costumi e, quando va di lusso, grassa polemica sterile su questioni completamente risibili fatta da gente che è lì a fare un lavoro che non sa fare.
Ho questa idea che stare dentro a X Factor per i giudici sia tipo il Truman Show.

*Abbiamo un quotidiano comunemente chiamato IL FATTO a cui tutti si riferiscono dicendo: “Hai letto cosa ha scritto IL FATTO?” ed è bellissimo.