C’è stato #UltimoConcerto.
Tantissimi artisti e live club italiani si sono messi insieme per organizzare un evento volto a sensibilizzare tutti verso la crisi del settore della musica dal vivo, di fatto fermo da un anno.
L’idea è stata di promuovere un concerto che non c’è stato, sostituito da un silenzio il cui scopo era far prendere coscienza che la situazione è grave e non è sostenibile.
Qui il messaggio.
Sul messaggio non c’è da discutere.
Per il momento sorvolerei anche sul fatto che della questione principale si sia parlato si e no 10 minuti, per poi finire alla classica attribuzione di patentini da parte di questa o quell’autorità competente nel campo del saper vivere. Patentini che non mi interessava avere quando ci si poteva scopare, immaginiamoci ora. Dico per il momento perchè sono livoroso e potrei tornarci su dopo, anche se vorrei provare a stare sul pezzo dell’iniziativa e del tiro che le hanno dato.
Il settore musica dal vivo è fermo da un anno e a farne le spese sono soprattutto le realtà più piccole: artisti che campano di canzoni senza esserci diventati ricchi, maestranze, locali.
Un settore che per la maggior parte dell’opinione pubblica non esiste, un settore che la politica sta deliberatamente ignorando e che, nel bene e nel male, può contare del supporto di una piccola parte di popolazione che con #UltimoConcerto era stata chiamata a contribuire. Alcuni, dopo averlo fatto, hanno ritenuto l’iniziativa mal riuscita/formulata.
Le questioni a questo punto sono due.
1) Davvero chi ha deciso di partecipare a questa iniziativa aveva bisogno di realizzare che da un anno i concerti sono fermi? Non stiamo parlando di Sanremo, il cui pubblico è composto anche da tantissime persone che con la musica entrano in contatto giusto una settimana l’anno perchè se la ritrovano su Rai1. Quello sì che può essere un pubblico inconsapevole, da sensibilizzare, non quello che si è connesso ‘sta sera per supportare il Bloom di Mezzago o i Gazebo Penguins. Per questo sono tra le persone che reputano l’iniziativa fuori fuoco, ma posso tranquillamente sbagliarmi, il che ci porta diretti al punto
2) Giusto o sbagliato che sia il punto di vista di chi ha partecipato e si è preso male, siamo sicuri sia stata una bella mossa tirarsi contro una parte della già esigua porzione di popolazione a cui fregava qualcosa del discorso iniziale?
Magari questa operazione farà il botto e darà la sveglia a chi di dovere, risolvendo il problema (non ci credo manco un po’, ma sarei felicissimo di sbagliarmi), ma ipotizziamo non sia così. Immaginiamo sia necessario continuare a parlare del problema, tenere viva la questione e fare sempre più rumore.
Alla prossima convocazione ci sarà più o meno gente?
Giorni fa quando ho iniziato a sentir parlare di questa cosa dell’ultimo concerto ho provato ad informarmi su twitter.
La prima domanda è stata: “Ok, come posso supportare? Posso pagare un biglietto?” e questo perchè mi è sembrato naturale pensare che per fare qualcosa che desse una mano, una buona idea fosse anche contribuire economicamente.
Forse è anche per quello che mi è venuta la bestemmite a leggere tutti i pistolotti rivolti a chi si lamentava perchè “Eh, pensavi di vederti il tuo bel concertino gratuito e invece suchi perchè la musica si paga e qui c’è gente che non sta lavorando etc…”. Per carità, è ovvio che interessata ci fosse anche gente del genere, ma mi pare un po’ paraculo scegliere di fare questa cosa gratuitamente per poi rigirare il fatto che fosse gratuita come argomentazione trasversale contro chiunque si stesse lamentando.
A sto punto fallo comunque a pagamento, cazzo.
Ognuno degli iscritti versa il contributo al locale/gruppo che vuole supportare via paypal. Offerta libera, così non ti perdi il volume delle persone che hanno partecipato solo perchè era gratis.
Alla fine fai la stessa identica cosa, ma dici anche: “Ehi, se vuoi il rimborso chiedilo, ma se vuoi dare una mano e hai capito il senso di tutto questo, lasciaci i soldi”. Non lo so, almeno sarebbe servito a qualcosa oltre il far scannare tra loro persone che, magari in modi diversi, hanno fatto sì che servisse una pandemia per far chiudere i locali di musica dal vivo e non l’assenza di mercato.
Fare qualcosa di concreto, di utile.
Felson l’ha spiegato molto meglio di me in questo tweet.
Le persone deluse purtoppo non risolvono la situazione di un mondo musicale in crisi totale. A meno che non dai loro la possibilità di aiutarti o spieghi loro come fare per supportarti in modo pratico. Cosa che non è stata fatta con questa iniziativa.
Bon, questo è.
L’altro giorno leggevo una bella intervista di Kappa che tra i problemi lamentava anche la mancata coesione all’interno di quel mondo in crisi, che ha portato come sempre accade ad una riduzione del potere di farsi ascoltare. Lo stesso Kappa, neanche due settimane dopo, è tra quelli che da dentro #UltimoConcerto ha risposto in maniera più violenta alle lamentele di chi, in ogni caso, invece di guardarsi la Juve o attaccarsi a Netflix aveva pensato di supportare un’iniziativa pro settore musica.
E allora boh, capisco che quando le cose buttano male saltino i nervi, capisco che alla fine se tutti ti ignorano e devi sfogare la frustrazione, finisci ad accanirti con chi ti stava dando retta, ma non nel modo in cui avresti voluto.
Capisco tutto e tutti.
Però, per me, così non se ne esce.
Non dico migliori, intendo proprio in piedi e respiranti.
C’è un album che, ogni volta che mi chiedono di dire i 10 dischi della mia vita, metto sempre dentro. Ce ne saranno forse altri due o tre con lui, più di metà della lista varia a seconda del giorno, dell’anno o di come sto in quel momento. A differenza di tutti gli altri però, inamovibili o meno, di questo non ho mai scritto. Non lo so perchè.
Non mi ricordo come mi fosse passato per le mani, ma lo avevo acquistato appena uscito ed infatti ho la prima ristampa, che è poco più di un demo avvolto in un cartoncino.
La copertina è così bella che ce l’ho appesa in casa a mo’ di quadro.
Il disco si chiama Pneuma ed è il primo lavoro dei Moving Mountains.
Ce n’è un secondo, che ho atteso con un’impazienza incalcolabile e che mi ha ovviamente deluso a mille, tanto da non farmelo ascoltare praticamente mai negli anni successivi, e poi ce n’è un terzo che non è piaciuto praticamente a nessuno e che invece per me è stupendo, tanto che basterebbe da solo a mettere i Moving Mountains tra i miei gruppi preferiti di sempre.
Sono riuscito anche a sentirli suonare al Lo-Fi di Milano e c’erano forse 30 persone. Io avevo l’accredito, di conseguenza dubito qualcuno avesse pagato per esserci. Non fu un concerto indimenticabile, i suoni facevano schifo. Comprai comunque la maglietta, probabilmente perchè mi sentivo in colpa per non aver pagato il biglietto di un evento semideserto, ma la presi troppo grande. Per qualche anno è stata un pigiama, poi non è stata più.
Dei Moving Mountains non è uscito nulla per un lasso di tempo che a scriverlo adesso, facendoci caso, è enorme, ma che prima di ora non percepivo tale. Quasi otto anni. In cuor mio avevo smesso di credere esistessero ancora, ma in qualche modo forse covavo la speranza di venire sorpreso un giorno da un disco nuovo.
Su twitter ho scritto che ormai erano come la nonna malata da tanto tempo. Tu sai che è malata, ma ormai la malattia è diventata una condizione che per te andrà avanti per sempre, immutabile, e se anche non credi sul serio un giorno possa guarire come per magia, non sei mai davvero preparato al momento in cui andrai a trovarla e scoprirai che non c’è più.
Circa un’ora fa, non so bene perchè, sono andato sul sito dei Moving Mountians e ci ho trovato un blog con sette post a tema Herpes (?), prova che probabilmente nonna ci ha lasciati per non tornare e in questo momento sto decisamente peggio di come stavo prima di scoprirlo.
Qui sotto metto la playlist della sessione live che avevano registrato per presentare l’ultimo disco, perchè mi piacerebbe qualcuno riascoltasse quei pezzi oggi e provasse a dirmi in faccia che non sono meravigliosi.
Avrei potuto mettere Pneuma, ma avrei dovuto scriverne e probabilmente non è una cosa che voglio fare.
Penso di sapere perchè non ne ho mai scritto: non credo di esserne capace.
“Io capisco se in scaletta ci mettono dopo i Pennywise, ma i BoySetsFire? Chi cazzo sono i BoySetsFire?”
Non so se esistesse davvero una scena punk-rock in Italia tra fine anni ’90 e primi anni ’00, quello che so è che in quegli anni io ed alcuni amici seguivamo alcune band in giro per la Lombardia come fosse un lavoro. Se suonavano da qualche parte ci si andava, che tanto non c’era comunque di meglio da fare.
Una di queste band erano i Persiana Jones.
Erano i primi anni della comunicazione digitale, internet che passava da posto dove cercare le cose a posto dove incontrare le persone. ICQ, MSN, le message board, i forum. Non ricordo bene tramite quale canale successe, ma ad un certo punto a furia di stare dietro ai Persiana Jones avevamo conosciuto Sara, che era una figura all’interno del loro team (non ho idea del ruolo, ricordo che sul telefono avevo il suo numero sotto “Sara Persiana Jones”) e con cui ci si sentiva prima di andare ai concerti, così da passare un po’ di tempo coi ragazzi prima e dopo lo show. Non che fosse necessario avere agganci per fare una roba del genere, l’evento tipo di cui stiamo parlando era una qualsiasi Festa Campagnola di Biassono e i PJ non erano propriamente gli Oasis, però avere una sorta di aggancio per noi era una roba carina.
Ho questo ricordo: fa abbastanza caldo e siamo in un qualche campo brianzolo in cui la giunta comunale ha allestito il classico tendone bianco con i tavoli e la fila per prendere le salamelle, due o tre cessi chimici ed un palco evidentemente sovradimensionato per le band che ci suoneranno sopra. Stiamo bevendoci una birra e a qualcuno di noi viene in mente di dire che andremo anche a Bologna a vederli in un festival grosso, che potrebbe essere il Deconstruction o l’Independent. E’ lì che Silvio un po’ si incazza e tira fuori la frase con cui ho aperto il pezzo. Dice che loro hanno suonato di spalla a tante band e che hanno rispetto per tutti, ma che in Italia muovono parecchie persone e non è giusto che li facciano suonare prima di gruppi americani che non si incula nessuno.
A quel festival ci vado abbastanza prevenuto.
Come si permettono ‘sti BoySetsFire di fare i prepotenti e togliere spazio ai Persiana Jones? Per protesta, me li guardo dalla montagnetta che sta in fondo all’Area Parco Nord. Poi succede che arriva il loro turno, effettivamente piuttosto alto in scaletta, salgono sul palco e attaccano a suonare prendendo a sberle grossomodo tutta la folla presente che, in larga parte, non aveva idea di chi fossero.
A fine set io sono seriamente impressionato, Carlo scende al merch e gli compra tutti i dischi (l’ultimo, in quel momento, era Tomorrow come Today). Qualche tempo dopo me li faccio prestare e li ascolto. Altro tempo dopo li compro pure io. Ancora dopo, diciamo ieri, stavo su twitter a rimpiangere il fatto che di dischi come quelli non ne escano più e che, magari sbaglio, di band come i BoySetsFire non ne esistono più.
Il discorso qui sopra è importante per quel che voglio dire.
Io credo che in questi anni la voglia di dire delle cose, di prendere delle posizioni nette, manchi più delle chitarre distorte nel panorama musicale che ci circonda.
Non tutta la musica deve portare un messaggio, non tutti i messaggi che la musica porta devono essere condivisibili, ma ad oggi mi piacerebbe veder suonare gente che crede nei propri valori quanto ci hanno sempre creduto i BoySetsFire e magari sono io, magari il mio giudizio è viziato dai sentimenti, ma quel fuoco vivo dentro gli occhi prima che dentro ai testi io non l’ho mai visto uguale in nessun altra band.
L’ultima volta che ho visto suonare i BoySetsFire è stato al Transilvania Live nel 2006 (a naso quindi li ho visti solo due volte).
Ricordo che hanno suonato per cinquanta persone mal contate, in un locale che sembrava se possibile ancora più vuoto di quanto fosse. Saliti sul palco ci buttarono lo stesso livello di energia, impegno e attitudine di tre anni prima, per poi saltare giù dal palco e venire direttamente al bancone per passare un po’ di tempo con tutti i ragazzi che ne avessero voglia.
Dopo quel concerto li ho seguiti ancora per un po’, dal brutto incidente capitato a Josh fino a quando decisero di prendersi una pausa. Lì una pausa me la sono presa anche io e per quanto fossi felice di sapere della reunion nel 2010, non sono più tornato ad interessarmi di quel che facessero o di dove suonassero. E’ possibile io abbia recensito il disco post reunion, While a Nation sleeps, non lo ricordo nemmeno brutto, ma è più onesto dire che non lo ricordo proprio.
Come dicevo poco più su, da ieri sono tornato abbastanza in fissa con i loro tre dischi cardine, After the Eulogy, Tomorrow come Today e The Misery Index.
Son tre ottimi dischi, sebbene io mi dimentichi quasi sempre di citarli tra i miei preferiti. Probabilmente è perchè quando penso ai BoySetsFire penso al mio gruppo preferito non per tanto per la musica che ha scritto, ma per le persone che mi hanno sempre dato l’idea di essere.
Anche se, diciamocelo chiaro, hanno scritto una manciata grossa di canzoni incredibili.
Arriviamo all’HT Factory intorno alle 21.15 forti del fatto che l’evento FB riporta l’inizio del set degli Slimboy per le 21.30. Nel locale, oltre a noi, conto dieci persone.
L’ultima volta che Kris Roe è passato dall’Italia, un paio di anni fa, gli ho dato buca. Credo sia stata l’unica volta dal 1998. Il motivo è che ormai vederlo dal vivo è uno spettacolo piuttosto impietoso e non c’è stata occasione negli ultimi dieci anni (almeno) in cui non mi sia ritrovato a fine concerto a bestemmiargli contro. A volte per la scaletta, altre per la mosceria o per la mancanza di voglia, spesso per un mix delle tre cose.
Qualche mese fa ho attraversato una fase di pesante ritorno ai dischi degli Ataris, spinto dalla necessità di scrivere un pezzo sui vent’anni di Blue Skyes che poi è uscito prima dell’anniversario e sotto tutta un’altra forma (si può leggere qui ed è un bel pezzo, cosa che non mi capita di dire spesso parlando di cose scritte da me).
Nello scrivere quella roba ho anche affrontato un dibattito interiore piuttosto forte il cui risultato è stato essermi sentito una merda per non essere andato a quel concerto di due anni fa. Non mi dilungherò su queste mie menate, la premessa serve solo a spiegare perché io abbia deciso che ieri sera ci sarei stato no matter what. Come dicevo in apertura, ad averlo pensato siamo stati pochi.
La cosa mi prende male.
Indipendentemente dal valore che io do alla sua musica (spropositato), l’idea che un tipo di 42 anni giri l’europa con la chitarra per suonare di fronte a 30 persone mi fa davvero tutto il dispiacere possibile. Sono momenti in cui vorrei andare in camerino e abbracciarlo. Dirgli che mi dispiace, che non se lo merita.
Sono tipo le 23 quando sale sul palco, un’ora più tardi dell’orario indicato sulla pagina dell’evento. Col senno del Poi han provato a tirare lunghi per raccogliere qualche persona in più, compresi quelli che speravano di arrivare a concerto finito per fare serata. Ci mette una decina di minuti a mettersi a posto col fonico: luci, suoni, ritorni in spia. Tutto per una cosa che, a tutti gli effetti, non ha differenze dalle serate in spiaggia con la chitarra intorno al fuoco se non al massimo che qui nessuno vuole limonare. Finito sto teatrino, saluta e dice di avere non solo la bronchite, ma anche un’intossicazione alimentare.
Da tre giorni sta malissimo e non sa quanto potrà suonare, dice.
Voleva annullare la data, ma all’ultimo ha deciso di provarci comunque, dice.
Probabilmente intascarsi il cachet per suonare 20 minuti é più furbo, dico.
Suona dodici pezzi: In this diary, Unopened letter, Saddest song, Summer ’79, SLA, My hotel Year, San Dimas, YBS e 1*15*96. Più tre cover, tra cui ovviamente Boys of Summer.
Scopro oggi che la sera prima a Bologna era andata meglio. Forse c’era più gente e questo lo faceva sentire meno malato. Un po’ lo capisco eh, ma un po’ di più vaffanculo.
La roba che mi sconvolge di più peró è un’altra.
Quanta poca stima per la tua musica devi avere per girare l’Europa chitarra in spalla e poi usare il 25% della scaletta per fare cover?
Magari tutte le altre date ha fatto sold out, non lo so, ma a Milano saranno 10 anni buoni che a vederlo ci vanno una manciata di irriducibili nostalgici e ancora pensa che sia gente che ci va per sentire Boys of Summer. Come può non rendersi conto che il pubblico del grande successo, quello di MTV e di So Long Astoria, non lo caga più da quindici anni?
Kris, mannaggia i preti, è vero che non stai bene, ma il problema ce l’hai in testa, altro che stomaco e bronchi.
Sei l’incarnazione del disagio e vederti così mi fa davvero male. Quando mi ascolto i tuoi pezzi ancora oggi mi si attorciglia lo stomaco intorno al cuore, non reggo all’idea di oscillare tra tenerezza e compassione ogni volta che ti incontro di persona. Diobuono riprenditi. A 42 anni ancora vuoi fare il musicista? Fallo. Scrivi dei pezzi, trova altri tre true believers e vai in giro a suonare la tua cazzo di musica.
Non può andare peggio di così.
Smettila di nasconderti, smettila di ostinarti a compiacere un pubblico che non esiste.
Se prima dello show avrei voluto abbracciarti, ora vorrei darti due sberle. Magari ti aiuterebbero a rinsavire.
Saltare la penultima data italiana forse non è stato giusto, ma probabilmente non è andando ai concerti che mostro a Kris Roe la riconoscenza che penso di dovergli. Quindi provo una strada nuova. Gli scrivo tutte queste cose, nero su bianco, una volta per tutte. Non leggerà mai, ma sento di doverci provare.
Non so se sia giusto vivere la musica come la vivo io, ma non posso immaginare di viverla diversamente.
Qualche anno fa mi è finito in mano un EP di cinque pezzi. Non mi ricordo da dove fosse uscito, probabilmente twitter o qualche altro social. Non ricordo di certo chi lo avesse condiviso.
Lo avevo ascoltato e me ne ero innamorato.
Avevo fatto un paio di ricerche su google ed era venuto fuori che l’avessero scritto quattro ragazzi di Modena che avevano la metà dei miei anni. Ricordo che avevo scritto loro per complimentarmi, come il mio parere fosse rilevante.
Qualche mese dopo erano venuti a suonare dalle mie parti di spalla ai Gazebo Penguins ed ero andato a conoscerli di persona. Poi scambi sui social, qualche altra data, il primo disco “lungo”, fino a quella volta in cui avevo deciso di bigiare i Get Up Kids al Magnolia per poi scoprire che avrebbero aperto loro e cambiare idea.
Era già il 2015, Giorgio era appena nato.
Mi ricordo che mi avevano regalato una maglietta taglia bambino per lui con il faccione di Jason e la scritta CABRERA. Forse gli andrà finalmente bene quest’estate. Avevamo fatto quattro chiacchiere prima del concerto, chi fossero i Get Up Kids loro lo avevano scoperto una volta saputo di doverci suonare assieme. Aveva piovuto in modo insensato.
Ieri all’Ohibò* hanno suonato a Milano per l’ultima volta e anche se negli ultimi due anni praticamente non ci si era più visti, mi è sembrato doveroso presenziare. E’ stato bello esserci la prima volta, è stato bello esserci l’ultima.
Prima del concerto ho fatto due chiacchiere con Nic e Gala, ormai gli unici due membri che conosco. Da quel che ho capito sarebbe potuta finire meglio, ma credo sia una cosa sempre vera. Per entrambi la musica resterà parte importante della vita, anche se in modi diversi, quindi faccio ad entrambi il mio in bocca al lupo gigante, che estendo anche a Jason e Marci per tutto quel che con la musica invece non c’entra.
Dopo anni, ieri han suonato di nuovo Nessun Rimorso e forse è l’unica cosa importante, quando si chiude un capitolo.
Prima dei Cabrera hanno suonato i Quercia, straight from Sardegna.
Scoperti unicamente perchè avrebbero aperto ieri, da una ventina di giorni sto mandando a ciclo continuo i loro due dischi senza riuscire a decidermi su quale sia il più bello. In qualche modo è significativo che nel momento in cui un gruppo fa la sua ultima apparizione ce ne sia un altro che per la prima volta viene a suonare dalle nostre parti. La musica va avanti, in sostanza.
Il problema, al massimo, è che dei presenti ieri non so quanti non fossero amici e parenti delle due band e se da un lato questa cosa ha creato un’atmosfera fighissima durante il concerto, dall’altro racconta una scena che, semplicemente, non esiste. Magari però è solo un’impressione mia.
Se c’era un po’ di emozione per la prima data a Milano, i Quercia l’hanno nascosta bene (che poi, boh, dovrebbe esserci? Probabilmente no.). Hanno fatto un signor set, carico e drittissimo, lasciandomi con una gran voglia di rivederli presto.
Hanno chiuso con una versione “elettrica” di Mida che racconta perfettamente entrambi i dischi, ma qui metto il video dell’originale perchè anche così è bella da non crederci.
* come l’anno scorso, anche quest’anno l’Arci Ohibò mi ha chiesto 13 euro per la tessera ARCI e ulteriori 5 euro di ingresso, per un totale di 18 euro. Non mi piace ripetermi, avevo già detto cosa penso della cosa qui.
Ce l’avete un immaginario dello stare bene?
Io sì, ma se ci penso non ha per niente a che fare con me o con la mia vita. Forse è strano o magari capita a tutti, sta di fatto che se chiudo gli occhi e penso ad un posto felice l’immagine che ne esce è fatta di esperienze che non mi appartengono, non in modo diretto quantomeno.
Sono cose che ho visto in TV, su MTV prevalentemente, oppure nelle serie e nei film dell’epoca. Roba che ho sentito nelle canzoni, ma anche (forse soprattutto) idealizzato nella mia testa di adolescente sempre troppo impegnato a sognare quanto sarebbe figo fare delle cose piuttosto che mettersi lì e, tipo, farle davvero.
Quindi se penso allo stare bene e lascio fluire i pensieri senza guidarli è facile finisca ad immaginare feste in piscina, spiagge, gente giovane che si diverte.
Nel mio immaginario dello stare bene c’è sempre il sole e se devo associare un suono a questa sensazione, nove su dieci viene fuori questo riff di chitarra.
A Place in the Sun dei Lit non è un disco da raccontare.
E’ il disco da mettere in macchina a volume alto e poi guidare, senza necessariamente avere una destinazione, ma solo per il piacere di farlo. La prima volta che sono andato in California è stato per lavoro, ben oltre gli anni in cui ho costruito l’immaginario di cui sopra. Avevo un paio di giorni liberi per fare il turista e così, uno di questi, mi son preso una macchina a nolo. Avevo chiesto l’utilitaria più sgrausa per spendere poco, ma è venuto fuori che le uniche auto noleggiabili a San Francisco sono muscle car e pickup giganti, quindi per i 35 dollari pattuiti mi hanno dato in mano Bumblebee. Quel giorno ho guidato quasi 500 km con l’oceano all’orizzonte, il sole in faccia e questo disco a volume da denuncia. Mi son sentito a casa.
Ora, lo capite il disturbo mentale di uno nato e cresciuto nel grigio dell’hinterland milanese che si sente a casa in una situazione del genere? Ecco.
La storia di come sono arrivato a questo disco forse l’ho anche già raccontata, non ricordo, in ogni caso la faccio breve: nel settembre 1999 vado a Bologna per il primo Independent Day festival, quello che qualcuno* pensò potesse essere una buona idea ritrasmettere integralmente il giorno seguente su una TV nazionale. I Lit non sapevo chi fossero, ma il loro set fu incredibile per energia e risposta del pubblico. Mi folgorarono, pur non avendo loro quasi alcun punto di contatto con l’archetipo del gruppo che in quel periodo storico potesse colpire la mia attenzione: non musicalmente, non esteticamente e nemmeno concettualmente. Eppure fu amore a prima vista.
Ora la sparo grossa, ma credo che i Lit di A Place in the Sun siano la cosa più vicina ai Beach Boys uscita dopo i Beach Boys.
Il prossimo 23 febbraio A Place in the Sun compie vent’anni.
A differenza di altre volte, scriverne qui è anche l’occasione per andarmi a vedere cosa è successo loro negli ultimi vent’anni, visto che da allora non li ho più seguiti. Sapevo che il batterista fosse morto di cancro, ma ricordavo fosse successo ben prima del 2009, quindi sbagliavo. Musicalmente non ho sentito la roba che hanno registrato dopo, a parte un paio di singoli usciti nei primi 2000, ma ho scoperto che nel 2018 hanno buttato fuori un nuovo disco dopo tanti anni. Lo sto ascoltando ora ed è un essenzialmente un disco di Bon Jovi, ma buono. Nulla che riascolterò mai più in futuro, a grandi linee.
E’ il 2019, siamo a Febbraio e a Milano c’è un clima primaverile che non si spiega (beh, quasi). Per voi è certamente una coincidenza, ma vi sbagliate, come probabilmente vi sbagliate quando vi approcciate a questo album qui. Non dovete capirlo, non dovete analizzarlo.
Dovete solo chiudere gli occhi e alzare il volume.
* Quel qualcuno è la persona a cui penso quando mi dite che non tutti i super eroi portano un mantello, anche se in effetti non so chi sia e potrebbe tranquillamente indossare un mantello.
Intorno alla metà di Luglio @bidizeta ha scritto il tweet qui sotto:
certo che sarebbe bello un libro “momenti epici di concerti”
quelli che succedono una volta e mai più.
vi ho dato l’idea fatelo (solo io ce ne ho na decina buoni)
A me è sembrata una bella idea, forse anche perchè ho immediatamente pensato al momento che avrei avuto voglia di raccontare, così ho iniziato a scrivere in giro e chiedere se qualcuno fosse interessato a fare, davvero, questa cosa. Molti “sì” e qualche “forse” nei mesi si sono trasformati in molti “forse” e altrettanti “no”, ma alla fine della fiera qualcuno che ce l’ha fatta a mandarmi un raccontino c’è stato e così li ho messi insieme in una raccolta .pdf di una sessantina di pagine.
Non sono un editore, non ho mai lavorato nell’ambito nemmeno di striscio, quindi probabilmente ho commesso una serie infinita di errori nel definire le scadenze e nel modo in cui ho provato a farle rispettare. E’ possibile che, se fossi andato avanti ad aspettare, avrei raccolto qualche pagina in più, ma mi sembrava poco rispettoso nei confronti di quelle persone che invece per arrivare entro i termini ci si sono sbattute. Si tratta di una cosa fatta unicamente per divertimento, quindi immaginavo dal principio che qualcuno alla fine non ce l’avrebbe fatta a starci dentro, spero solo nessuno se la sia presa per la mia decisione di non aspettare oltre.
La raccolta contiene dodici raccontini più l’immagine di copertina, che è un’ulteriore storia che abbiamo provato a raccontare.
Hanno partecipato, in rigoroso ordine di apparizione: Gozer Vision, Steven Senegal, Roberto Gennari, Isidoro Meli, Michele Borgogni, Andrea Giunchi, Enzo Baruffaldi, Nanni Cobretti, vali, Luca Doldi, Claudia e Pietro “Pier” Lofrano.
Li ringrazio tutti per l’ennesima volta.
Tra i raccontini ce n’è ovviamente anche uno mio, racconta un avvenimento di cui avevo già scritto qui sopra a caldo, ma credo messo giù meglio.
Non sono tante le volte in cui sono soddisfatto di quello che scrivo, soprattutto perchè non sono tante le volte in cui mi prendo il tempo di scrivere con calma, senza pubblicazione immediata, potendo rileggere e rivedere il testo diverse volte, modificandolo in più riprese.
L’ho fatto leggere in anteprima a tre persone, prima di definirlo “finito”, e tutte e tre me lo hanno mezzo stroncato, con motivazioni diverse e a volte divergenti. Questo anche per dare un metro del mio essere soddisfatto di me.
Cliccando sulla copertina qui sotto vi scaricate la raccolta.
Questa storia inizia nel 2000.
Sono i primi mesi di università, si fa lezione in aule da 200 cristiani dove se arrivi lungo ti tocca stare seduto sulle scale. Un cambio di vita e prospettiva piuttosto radicale.
Dopo il rodaggio iniziale ho finalmente un mio “gruppo di studio”, inteso come insieme di persone che provi a cercare nei corridoi prima delle lezioni per bere un caffè o con cui cerchi di stare mentre sei in ateneo. E’ composto al 35% da gente disposta in ogni momento a mettere su una partita di briscola chiamata e per il 60% da ragazzi intenti a provarci con la Simo, una delle due persone del mio liceo in tutto il corso. Il restante 5% della comitiva era composto dalla Ros, l’altra frisina, e da Alessia, da qui in poi Lale (inteso proprio dal 2000 in avanti).
Lale non aveva mire sessuali nei confronti della Simo e, se la memoria non mi inganna, non giocava a carte, però stava con noi. Io ci ho legato subito perchè in comune avevamo la passione per un certo punk-rock. In relazione alla mia vita, le riconosco tre grandi meriti:
3) Dopo mesi passati a cercare di capire di chi fosse un pezzo che avevo sentito al Rainbow e che mi aveva folgorato, lei una mattina mi disse “E’ Alien 8 dei Lagwagon” con tutta la naturalezza del mondo.
2) Ha fatto sì che nei ringraziamenti della mia tesi di laurea scrivessi: “ringrazio la mia mamma che mi ha fatto così funky” per tener fede a una promessa/scommessa.
1) Mi ha passato Blue Skies, Broken Hearts…Next 12 Exits degli Ataris, che sarebbe diventato per tantissimi anni il mio disco preferito della mia band preferita.
Conoscevo gli Ataris di nome, era scritto su un cappellino che ogni tanto metteva Dani dei Murder, We Wrote quando suonava all’Arci di Arcore. Non sto a divagare ulteriormente, ma i MWW erano un’altra bella fissa per me, quindi l’endorsement dal Dani mi aveva acceso una certa curiosità.
Mi ricordo quando ho messo su il disco la prima volta perchè il primissimo impatto mi fece incazzare.
Io ho questo problema: odio, letteralmente e visceralmente, i dischi belli registrati col culo. Se vieni su con i miei gusti musicali ne incroci una cifra di dischi così: canzoni stupende e suoni da bestemmie, che fanno sì prima o poi io molli il colpo e smetta di ascoltarli, dimenticandomene. Ci sono pochissime eccezioni a questa regola, la più eclatante è The power of failing perchè lì i suoni orrendi diventano addirittura un valore aggiunto, ma è appunto un’eccezione.
Fatto sta che i primi 15″ di Blue skies hanno quell’effetto che li fa sembrare una roba DIY anni ’80. Penso: “Se suona così speriamo sia anche una merda”, poi però salta fuori che si tratta di una scelta estetica e i suoni esplodono nella loro perfezione.
Io regalo il mio cuore a Kris Roe ora, per sempre e nei secoli dei secoli amen.
E’ un disco fondamentale, nella mia crescita musicale, questo qui. Ci sono i dischi preferiti, che ti si inchiodano addosso per la vita, e i dischi importanti, grazie ai quali ti formi e cresci. Nell’intersezione tra i due insiemi ci stanno in pochissimi, ma Blu skyes è uno di loro.
Per prima cosa ha messo in discussione l’unico dogma che ho sempre avuto, ovvero che la musica figa dovesse essere veloce. Stiamo sempre parlando di un disco punk-rock, mica di Bach, però fino a quel punto lì io cercavo robe che andassero più spedite delle precedenti e questo è stato il momento in cui mi sono fermato e ho iniziato ad aprirmi a soluzioni diverse. In Your boyfriend sucks per esempio c’è questa coda che dura quasi metà pezzo, costruita su un riff ossessivo e una voce che ci parla sopra. Non dico sia una roba ostica, ma certamente per me era spiazzante.
In secondo luogo aggiungeva una nuova dimensione allo scopo per cui io ascoltavo musica: non era più solo per stare bene o per sfogare sentimenti di pseudo ribellione tardo adolescenziale, ora avevo il disco per quando ero “preso male”, un mood in cui alla fine ho imparato a crogiolarmi, soprattutto nei primi anni del nuovo millennio.
Quando penso a Blu skies penso ad un disco perfetto, ma non lo è. E’ troppo lungo ed ha una seconda metà decisamente sotto al livello della prima, per dire, eppure è proprio il suo lato A ad avergli cucito addosso quest’aura di capolavoro. Voglio dire, fino a The Last Song I Will Ever Write About a Girl è una roba oltre il clamoroso, non mi viene in mente un altro disco che tenga il livello così alto per otto tracce consecutive. Non esagero eh, nella mia vita ci sono dischi che ho amato anche più di questo (pochi, onestamente), ma a nessuno riconosco un nucleo più lungo di pezzi senza il minimo calo, neanche accennato, in termini di intensità dell’emozione che si tira appresso.
In mezzo a queste otto tracce poi c’è questa doppietta:
Ho sempre faticato a vederle come due canzoni separate, per me sono una roba sola. Una prima parte emotivamente devastante ed una seconda per dare sfogo alla frustrazione e al malessere nel modo più violento possibile.
I guess that I’m wrong for falling in love
Record mondiale di pelle d’oca, distanza corpo di Manq, insuperato da 18 anni circa.
Risparmiatemi i pippotti sulla portata del contenuto perchè quali che siano i temi che possano starvi a cuore, a vent’anni quella roba lì sta in cima alle priorità di tutti, in positivo o in negativo che sia.
E’ difficile tirare fuori singoli aspetti da sottolineare in un disco che si venera come io venero Blue skyes perchè è tutto giusto nel suo insieme, eppure c’è una roba che per me è sempre stata la chiave di volta: la batteria.
Non credo che Chris Knapp sia stato il miglio batterista che ho visto suonare, ma è certamente tutt’ora uno dei miei preferiti di sempre. Non so se fosse una questione di stile, di ritmica, di precisione o di tutte queste cose insieme, ma aveva la capacità di cappottarti facendo robe che sembravano semplicissime. Potrei sbagliare, ma gli Ataris sono la prima band di cui ho ascoltato i dischi concentrandomi solo sulla batteria, fissandomi sui dettagli. Anche in questo mi hanno formato e se ancora oggi perdo ore a guardare video di gente che suona la batteria su youtube è per questo disco qui.
Riascoltatevi la batteria di I won’t spend another night alone, fatevi un favore.
End is forever è uscito l’anno successivo, nel 2001. Nel complesso è certamente più omogeneo, si prende un paio di momenti per alzare l’asticella ai livelli della prima parte del precedente, ma se si ignora quella porcheria inspiegabile che è Teenage Riot, fila via senza dare l’impressione di avere parti drasticamente inferiori ad altre. Dentro End is forever ci sono due canzoni della vita, una è Fast times at drop-out high, di cui ho scritto brevemente giorni fa, quando sono caduto in questo pesantissimo trip per gli Ataris. L’altra è questa qui.
Le canzoni della vita nel mio caso non sono poche, ma neanche tantissime. Che più di una di queste sia stata scritta da Kris Roe ribadisce ancora una volta la dimensione della faccenda.
Nel complesso questo disco ha suoni meno fighi di quello prima, credo soprattutto per via delle chitarre più “impastate”, però compensa con una struttura dei pezzi generalmente più complessa, che non disdegna di provare ad aggiungere qualche sovrastruttura al classico suono chitarra-basso-batteria su cui si fonda il punk-rock. Un altro step di evoluzione in cui mi sono fatto guidare e che mi ha aperto il campo visivo di qualche ulteriore grado.
Messi in fila, Blue skies e End is forever sono quello che intendo quando parlo di Ataris. Il primo disco, …anywhere but here, è una robetta piacevolissima, ma di cui a mente fredda non riuscirei a ricordare molto più di un paio di tracce, tipo questa. Con quelli dopo invece iniziano i guai. So long, Astoria è il disco che li ha consacrati al grande pubblico, grazie soprattutto alla cover di Boys of summer. Non credo ci siano cose più frustranti del consegnare alla storia due dischi spaventosi e ricevere i favori delle masse per una cover, se esistono spero vivamente di non viverle mai. Mentre scrivo ipotizzo siano passati quindici anni da quando ho messo su l’ultima volta So Long, Astoria dall’inizio alla fine, quindi l’ultima volta deve essere successo poco dopo la sua uscita nel 2003.
Io facevo ancora l’università e il giorno in cui uscì sfruttai un buco nel palinsesto delle lezioni per andare a Mariposa, sempre con Lale, per comprarlo. A scatola chiusa. E’ una roba che ho fatto meno di cinque volte nella mia vita quella di comprare un disco il giorno dell’uscita e senza ascoltarlo prima, è andata quasi sempre male.
Non saprei dire se sia davvero brutto come lo ricordo, a rimetterlo su non ci penso manco per il cazzo. I pezzi di cui la memoria è sopravvissuta, probabilmente perchè infilati in qualche mixtape sentita negli anni successivi, non sono poi così terribili. Non so se il fatto che quel disco sia stato quello del passaggio su major abbia avuto un peso nella realizzazione e nel risultato, però di nuovo, se ha fatto successo l’ha fatto per via di una cover e questo non può essere un buon segno, comunque la si voglia leggere.
E infatti, di lì a poco, è andato tutto grossomodo affanculo.
La band, che già nella sua storia fino a quel momento aveva avuto una vita più travagliata della media, collassa su sè stessa. Kris ne prende atto e fa l’ennesimo salto in avanti sul percorso che ha in testa e che, a quel punto, vede onestamente solo lui. Mette insieme una line up di tipo sette elementi per cavar fuori un disco a tutti gli effetti indie/alternative talmente votato a distanziarsi da quel che era stato prima da seppellire sotto una tonnellata di effetti pure la sua voce, unico elemento che avrebbe riportato l’ascoltatore all’ovile qualunque fosse il suono del disco.
Vuoi il fatto che Chris non fosse più nella band, vuoi l’impatto completamente spiazzante che i primi secondi di Not capable of love possono aver avuto su uno che con gli Ataris ha avuto la storia che ho avuto io, Welcome the night lo sto ascoltando per intero oggi, 4 settembre 2018, per la prima volta.
Chiariamo: non è che allora non avessi gli strumenti per digerire una cosa così, ormai ero un ascoltatore “maturo”. E’ più che vivo la musica a mio modo.
Ho talmente tanti ricordi legati a doppia mandata con canzoni e gruppi da considerare questi ultimi parte della mia vita, alla stregua degli amici. Accettare che uno di loro cambi vita o se vogliamo evolva, qualunque cosa significhi, è destabilizzante. Ci si sente traditi, anche se in realtà è più il fatto che in una vita con fin troppe variabili avere cose su cui fare affidamento è un salvagente gigante. E’ vero oggi, ma era drammaticamente più vero nel 2007.
Poi spesso è più questione dell’essere spaventati all’idea di dover evolvere a nostra volta, quindi si stigmatizza il percorso degli altri arroccandosi su posizioni che poi ci rendiamo conto di aver mollato per strada senza nemmeno rendercene conto perchè troppo impegnati a vivere.
Il succo è che ignorare Welcome the night per undici anni non è tra le migliori decisioni della mia vita.
Scrivere questo interminabile post mi sta portando ad affrontare un processo riabilitativo di cui non ho avuto bisogno nemmeno per ricucire rapporti grossi, reali, che ad un certo punto della mia vita si sono spaccati.
Ripenso alle ultime volte che ho incrociato Kris Roe: dalla volta in cui si è presentato chitarra e voce per celebrare i dieci anni di Blue skyes senza suonare gran parte dei pezzi che lo compongono, a quando l’ho rivisto full band nel 2013 fare un concerto a mio avviso privo della benché minima logica in termini di suoni, scaletta e atteggiamento. L’ultima volta che è passato di qui non sono nemmeno andato, tanto per dire, ed è uno sgarro che riservo davvero a pochi dei miei eroi di infanzia.
E che probabilmente KR non si merita.
Onestamente non ho idea di che fine abbia fatto Chris Knapp. So che Mike Davenport, quello che nei miei dischi preferiti suonava il basso, oggi è in galera per una maxi truffa immobiliare. E’ certamente successo qualcosa in quel 2003 che ha mandato tutto a rotoli, su più livelli.
Kris Roe però è sempre lui. Uno che nel 1999 viveva in un furgone a Santa Barbara pur di non darla su e potermi regalare alcuni dei momenti più indimenticabili della mia vita. Uno che nel 2009, ormai rimasto solo, girava l’europa zaino e chitarra in spalla per portare in giro i suoi pezzi. Uno che nella sua vita ha combinato probabilmente più casini di quanti fosse in grado di gestire, tra figli avuti troppo presto e soldi finiti chissà dove. Uno che ancora oggi è convinto che presto o tardi uscirà un nuovo disco a nome Ataris perchè la sua vita è quella cosa lì e lo sarà sempre.
Uno che, comunque sia, resta tutt’ora capace di scrivere grandi canzoni.
Sulla mensola della mia libreria di casa c’è una cornice nera.
Dentro c’è una foto, raffigura un’insegna blu con la scritta Blu Skyes.
E’ una stampa originale dello scatto usato per la copertina del disco, fatta proprio da Kris Roe.
Me l’ha data lui e in un angolo c’è la sua firma.
Con ogni probabilità è l’oggetto che per me ha più valore in tutta casa.
Scrivo un blog da tredici anni, questo post sarebbe dovuto uscire molto prima.
Questo pezzo in linea teorica sarebbe dovuto uscire il 13 aprile 2019 per il ventennale di Blue Skies. Sì, ho in calendario gli anniversari dei dischi di cui vorrei scrivere, ma non è questo il punto. Il punto è che recentemente sono entrato un po’ in fissa con gli Ataris e mi sono reso conto di non averne mai scritto in maniera esaustiva. Pensandoci su un attimo avrebbe poco senso farlo tirando in mezzo un solo disco, tantomeno aspettare sei mesi. Quindi eccoci qui.
Ieri sono andato in Santeria alla presentazione del documentario LA SCENA, ovvero la storia del punk-rock italiano anni 90 raccontata dalla viva voce di chi c’era.
A me è piaciuto tanto.
Mi è piaciuto non fosse un documentario a tesi, ma solo una raccolta di testimonianze. Leggi il titolo e pensi sia un’operazione nostalgia che punta a dire quanto fosse figo quel momento lì, invece è un’operazione nostalgia (su questo torno dopo) che prova a capire cosa sia successo in quel momento lì. Senti le testimonianze e non è neanche vero per tutti esistesse, questa benedetta SCENA.
Si racconta il periodo e ne viene fuori un’immagine abbastanza centrata agli occhi di uno che non c’è mai stato dentro davvero in termini di amicizie e relazioni, ma che ci ha vissuto dentro almeno cinque anni pieni della sua vita.
Ho st’immagine in testa in cui siamo al forum al concerto degli Offspring post Americana, ’99 direi, e al banchetto del merch incrociamo il trombettista rasta biondo degli Shandon, che aprivano il live. Ci guarda e ci fa: “Oh raga, ma anche qui siete venuti?”. Non ci avevamo mai parlato con quel tipo.
Questo per dare un riferimento di cosa intendo con viverci dentro.
Per il resto sì, è un’operazione nostalgia che gioca molto sul ricordo di un momento preciso fatto di suoni, contesti e persone precise. Non ha la pretesa di essere omnicomprensivo o esaustivo, non credo almeno, ne tanto meno di aggiungere chissà quale profondità di dettaglio storico al racconto. Potremmo stare qui a dirci sia fatto per raccontare a chi non c’era cosa è successo, ma non so quanto sarebbe onesto. Credo che l’interesse per questo bel lavoro arrivi quasi totalmente da dentro e per me va bene sia così. Voglio pensare non esistano nati nel 2000 oggi in fissa coi Punkreas o coi Derozer. Sarebbe triste, in un certo senso.
Alla fine quindi questo documentario è esattamente quello che ti aspetti possa essere prima di vederlo, nella stessa misura in cui sai come suonerà un disco punk-rock prima di ascoltarlo. Proprio come in un disco punk-rock ci sono i pezzi che ti spostano, anche in questo LA SCENA ci sono due o tre perle. Commenti centrati, spunti di riflessione, testimonianze che ti lasciano attaccato qualcosa e che arricchiscono, o magari semplicemente tolgono la polvere a concetti rimasti in angoli reconditi della memoria un po’ troppo tempo.
Tutto quello che ci succede è influenzato da come lo viviamo, dal nostro stato d’animo nel momento. Ieri io compivo 37 anni e stavo vivendo la cosa con l’ormai classico mix di sbattimento e ansia.
Finire a guardare un documentario su quando ero ragazzino poteva prendermi malissimo, invece è stato bello e credo sia soprattutto merito di come il documentario è stato fatto.
Metto qui sotto il trailer, andate a vederlo.
Il 5 settembre 1999 una televisione nazionale mandava in onda la registrazione integrale di un festival alternativo alla sua prima edizione.
Il concerto, registrato il giorno prima dall’Arena Parco Nord di Bologna, vedeva alternarsi sul palco Tre Allegri Ragazzi Morti, Verdena, Punkreas, Lit, Hepcat, Silverchair, Joe Strummer e Offspring, che però furono gli unici a non concedere i diritti per la ritrasmissione del concerto in TV.
Per quanto tutta la replica televisiva sia rilevante ai fini di questa rubrica, il culmine furono certamente i 40 minuti del video qui sotto.
Il canale si chiamava TMC2 e il concerto era l’Independent Days Festival. L’esperimento non fu mai più ripetuto.
Once upon a time nasce come rubrica di manq.it che racconta momenti che hanno fatto la storia della musica. O forse la storia in generale.
L’uscita di Once upon a time #3 è da considerarsi altamente improbabile.
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