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Manq

#AiBimbiServeIodio

Anche quest’anno le vacanze sono finite e anche quest’anno sono state l’occasione per fare un bel viaggio insieme alla famiglia.
Come nel 2016, un viaggio grosso, impegnativo, ma soprattutto psicologico: per me era importante certificare che l’arrivo di Olivia non ci avrebbe fermati e che, con tutte le limitazioni e le accortezze del caso, dal 12 dicembre scorso viaggiare sarebbe stato ancora possibile. Nell’organizzarlo, ora posso dirlo, ho avuto paura di aver fatto il passo più lungo della gamba e per quanto attento e preciso sia stato in tutta la gestione organizzativa, ci sono arrivato con un livello di ansia impareggiabile. Ancora adesso non me la sento di dire che è andato tutto benissimo troppo ad alta voce, eppure è stato così.
Ci siamo divertiti un sacco, tutti e quattro, ed è un ricordo che mi rimarrà per tutta la vita. Il nostro primo viaggio in quattro.
“I bimbi però non ricorderanno nulla, è un peccato.”
Me l’hanno detto in tantissimi. E’ vero. Per me però la cosa è andare in posti in cui loro possano stare bene e divertirsi, vivere bene il momento. Spero che la vita dia a loro le possibilità che sto avendo io, quindi se vorranno torneranno in posti che hanno visto con noi in modo più consapevole, da adulti. Io devo costruire le mie memorie, non le loro, pur avendo sempre presente al cento per cento che loro ci sono e che hanno esigenze diverse dalle mie. Poi magari viaggiare non sarà una loro passione, non è affatto detto che lo sia perchè viaggiare piace a tutti solo quando se ne parla a cena tra amici (l’ho spiegato qui). Della loro vita decideranno loro. Io intanto mi vivo la mia, che ora li vede certamente al centro, ma che pur sempre mia rimane.
Come di consueto ho raccolto i dettagli dell’esperienza in una guida, ma sto giro sono stato credo ancora più dettagliato e meticoloso del solito. Mi son preso gli appunti mentre ero lì, per dire. Ho pensato infatti che tutto lo sbattimento che mi sono fatto in fase organizzativa potesse tornare utile a qualche altra persona. 
Poi oh, magari qualcuno decide che ho un futuro come travel bloggher. Sai mai. Dubito però, perchè ancora una volta le foto che ho fatto non rendono sufficiente giustizia al posto. Sto giro almeno ho evitato di stare in ballo con la mia macchina fotografica ingombrante e complicata, male per male ho preferito scattare con il cellulare. Ho portato giusto la GoPro per le situazioni umide. Scattare con la mia GoPro (una vecchissima Hero3) è un po’ tornare ai tempi della pellicola perchè non ha il display, quindi fotografi alla cieca e speri ne esca qualcosa di decente, conscio del fatto che lo scoprirai comunque troppo tardi. E’ a suo modo un’esperienza anche quella.

L’hashtag di queste vacanze è #AiBimbiServeIodio, con le maiuscole ad inizio parola in modo che fosse leggibile per tutti. Credevo. Invece per molti ai miei figli servirebbe l’odio e forse, dopo aver dovuto spiegare cento volte questa cosa, inizio a pensare che gli serva sul serio.

Fast Times At Drop-Out High

Sto riorganizzando foto e appunti per il report delle vacanze, ho Spotify in cuffia. Su amazon c’era in offertissima a 4,98 euro “The young and the hopeless” dei Good Charlotte e l’ho comprato, quindi me lo sono rimesso su per vedere che effetto facesse tipo sedici anni dopo (SPOILER: ottimo effetto, anche se scrivere sedici anni dopo mi ha incrinato il cervello).
Va beh, dicevamo, son qui che lavoro e quando il disco finisce ne ascolto un altro, poi un altro, poi un altro. Arrivo al punto che di lavorare alla pagina non ho più cazzi, ma mi va ancora di ascoltare roba e così passo sul tubo. In quel momento avevo in cuffia gli Ataris quindi riparto da lì e arrivo ad un video che mi ricorda come mai, per una certa parte della mia vita, gli Ataris siano stati una roba imprescindibile.
Il mio gruppo preferito.

Il video lo metto qui sotto, la canzone sta tra i miei personalissimi pezzi della vita.


Arcade Boyz vs. Tormento

Ognuno di noi ha un passatempo inspiegabile, un’attività che apparentemente non c’entra niente con i propri interessi e che pure occupa una porzione significativa del proprio tempo libero.
Il mio è seguire le storie del rap italiano.
Ho iniziato come un voyeur qualsiasi, solo che invece di cercare in TV qualche programma trash in cui la gente si scanna senza alcuna ragione comprensibile/plausibile io scanalavo su youtube alla ricerca di qualche video di dissing tra rapper. Non ho bene idea di come sia partita perchè io il rap non lo seguo, come suono mi fa generalmente cagare e racconta spesso cose tremendamente lontane dal mio immaginario e dal mio vissuto.
I dissing all’inizio li cercavo nei pezzi, che spesso scoprivo essere gli unici ad interessarmi all’interno della produzione di molti rapper (Evidence#1), ma poi sono passato ai video in cui i pischelli montano insieme le instagram stories dei vari rapper, ricostruendo polemiche sterili in cui gente che spesso non ho idea di chi sia si scanna su questioni che non capisco (Evidence#2). 
Mi ci appassiono a bestia. 
Non giudicatemi.

Non è difficile capire come questa mia perversa passione mi abbia portato presto al canale degli Arcade Boyz. Non che loro si occupino di dissing, anche se star qui a fare distinguo ha un senso relativo, loro fanno video in cui commentano pezzi e videoclip della scena. A modo loro, ovvero in maniera provocatoria, eccessiva e volutamente “violenta”, se mi passate il termine. Non è il linguaggio che mi appassiona, ho vissuto trent’anni in una compagnia scurrile e blasfema quindi sentire gente che bestemmia sul tubo non ha quel fascino esotico o proibito che può avere sui ragazzini. A tirarmi dentro è il loro modo di andare dritti e provare a tirar fuori dei concetti, da cui magari diverse volte sento di essere ultra distante, ma che mi portano sempre a fare il clic col cervello e pensare a quel che stanno dicendo.
Il loro modo crudo e diretto di relazionarsi al pubblico porta a riflettere sul contenuto e quindi ho iniziato a seguirli più per quello che non per il loro concetto di intrattenimento. A volte rido eh, non ho una scopa in culo, però ecco non metto mai un loro video con l’idea di sganasciarmi.

Oggi, mentre rientravo dal lavoro, ho beccato la registrazione di una loro diretta in cui fanno una specie di intervista a Tormento, prendendo spunto da una polemica recente uscita proprio su instagram e ripubblicata sul tubo dagli immancabili gossippari del rap, che dio li benedica (Evidence#3).
Ne è venuta fuori un’ora di discussione che a mio avviso ha molte più cose da dire rispetto alla gran parte del materiale a tema musica con cui quotidianamente entro in contatto, quindi non solo in ambito rap.
E non me lo sarei mai aspettato.
Non è tutto buono, non sono 64 minuti di Verità, ma ci sono una tonnellata di spunti di riflessione, tante questioni analizzate da diverse prospettive e qualche sberlone in faccia a chi ascolta, atto a svegliarlo dal torpore in cui ormai si vive. Quindi adesso la linko qui sotto così ve la guardate/ascoltate.

Tormento, se me lo chiedete, ne esce abbastanza da gigante.

Alla fine, non è questo che dovremmo chiedere a internet? 
Comunicazione non convenzionale, approcci trasversali a questioni ormai trattate sempre e solo con lo stesso format, libertà di espressione e contenuti che ci aiutino a aprire il nostro campo visivo.
Invece usiamo internet e i social con lo scopo esattamente opposto: circondarci di gente che la pensa come noi e selezionare solo contenuti che ci diano conferme. Abbiamo lo strumento per costruire un pensiero critico e lo approcciamo come mia nonna approcciava il vangelo. Lo faccio pure io eh.

Gira voce che gli Arcade Boyz siano vicini agli ambienti di destra, alcuni dicono estrema. C’è un botto di gente in giro che sostiene, non senza motivazioni comprensibili, che in questo momento storico con la destra non ci si debba parlare. Che sia il momento di mettere dei limiti e dei paletti alla tolleranza.
Da parte mia, conosco talmente tanta gente che ragiona come si ragiona a destra professandosi di sinistra (e votando a sinistra) che le appartenenze politiche hanno assunto un peso piuttosto relativo, specie se si parla di questioni che con la politica convenzionale c’entrano molto marginalmente. Preferisco ascoltare quel che si dice e valutarlo in relazione a quel che penso io e, se non ho una posizione sull’argomento, cercare di capire se sia o meno il caso di farsene una. 
Che poi, andando a guardare, ci sono poche cose più Politiche in musica del rap italiano, ma spero si capisca cosa intendo quando distinguo politica e Politica. Nell’intervista c’è tutta una parte relativa alla droga nel rap ed è una delle cose a cui mi riferisco. 

Non vorrei chiudere con uno di quei pensierini che trovate su instagram sotto le foto dei culi, magari attribuiti a illustri defunti che non li hanno mai pensati manco per sbaglio, però sento il bisogno impellente di spararne uno grosso.
Lo scopo della vita è farsi delle domande, non darsi delle risposte. 

(L’ho scritto davvero? Madonna.) 

Che fatica la vita su twitter nel 2018

Forse è il caldo, forse la noia, ma sento l’esigenza di parlare di una questione fondamentale.
Questa:

La Francia ha vinto i mondiali.
E’ una catastrofe, ma ci possiamo fare poco (avremmo potuto provare ad impedirglielo, che ne so, qualificandoci alle fasi finali, ma non vorrei tornare sul fatto che questa sia l’estate più triste della mia vita.).
Han vinto, dicevamo. Bravi.
Va beh, non hanno incontrato mezza avversaria decente e in finale vincevano 2-1 senza aver mai fatto non dico un tiro, ma un’azione d’attacco, ma OK. VA BENE. Lo accetto.
La Francia è campione del mondo.
E’ giusto festeggino. Solo che il social media manager del Louvre non ha trovato nulla di più francese della Gioconda per celebrare la sua nazione e questo a me pare un bel fail. Senza mi pare, anzi, è un fail clamoroso. Questi chiamano il DNA “ADN” e il computer “ordinateur” per non usare parole altrui e poi per auto incensarsi postano la Gioconda?
Son dei babbi, dai. 
Cosa che, tra l’altro, non scopriamo certo oggi.
Siccome però viviamo dei tempi davvero difficili, da questa cosa è scoppiato fuori un putiferio.
Da una parte sono ovviamente scattati subito tutti quei disagiati social che ultimamente a quanto pare costituiscono l’opinione pubblica italiana. Quelli che si esprimono come Salvini, quelli che “LA GIOCONDA E’ NOSTRA CE LAVETE RUBBATA!1!”. Va beh. Che in Italia ci sia una fetta importante della popolazione con la sabbia nella scatola cranica non credo sia una scoperta sensazionale. Si sono giustamente fatti blastare dallo stesso social media manager di cui sopra e questo fa un po’ da riferimento, avendo noi appena accertato non si parli di una faina.
Dall’altra parte sono invece insorti tutti quelli che ogni scusa è buona per buttare la questione in politica da bar. Non fossero bastati due giorni di dilemma senza senso tra il tifare Croazia “eh, ma così sto con Bargiggia e Casa Pound” o Francia “che però Macron lascia le donne incinte sui treni e ci fa la predica sull’accoglienza”, mettiamoci anche il carico con centinaia di inutili tweet a cavallo tra la storia dell’arte e il social shaming della propria nazione ignorante.
Non so quale delle due posizioni mi dia più i nervi, dovendo scegliere, ma il peggio è che sia impossibile provare a mettersi in mezzo, a definire una posizione diversa.
O stai coi derelitti che usano la gioconda per ricordare che la Francia in realtà è piena di africani, o stai con quelli che vedono nell’odio sportivo verso i transalpini una vena forzatamente legata ad un rigurgito nazionalista e sovranista.
Me lo spiegate come si tira fuori il nazionalismo da una competizione tra squadre nazionali, per la carità del vostro Dio?
E’ ovvio ci sia, ma è un nazionalismo sportivo. E’ sano? Va bene? Non lo so. Forse è un concetto che nel 2018 dovrebbe risultare anacronistico, forse invece è bene che ogni due anni i paesi europei sfoghino le loro rivalità secolari su un campo da calcio invece che invadendosi a vicenda. Però non si parlava di quello, santa madonna.
Si parlava di un tweet sbagliato fatto dal social media manager del Louvre per celebrare il proprio Paese. Non è complicato, basterebbe leggere le argomentazioni e rispondere a quelle, invece di continuare a sfogare la propria convinzione ideologica quale che sia l’interlocutore.
Poi se volete venirmi a dire che quel tweet non fosse un tentativo di innalzare i colori francesi dopo la vittoria mondiale, ma una più o meno velata operazione di perculaggio ai danni di noi italiani gufi e perdenti allora va bene. Non ci credo manco per un minuto, ma posso concedere il beneficio del dubbio (non si fa processo alle intenzioni).
Come presa per il culo è sicuramente efficacissima.
Permettetemi però di dire che se nel momento della massima vittoria il loro primo pensiero è sfottere un avversario che manco era in competizione, beh, è legittimo gli si imputi una mentalità perdente.
E forse è vero che da quel 2006 si devono ancora riprendere.

POOOOO-PO-PO-PO-PO-POOOO-POOOOOOO.

Il calcio è uno sport meraviglioso.

E’ il 115° minuto di Danimarca-Croazia, ottavo di finale mondiale.
Modric inventa una palla clamorosa per Rebic che, solo davanti al portiere, potrebbe fare qualunque cosa. Sceglie di cincischiare saltando il portiere per farsi poi abbattere dal difensore. Jørgensen cerca la palla, quindi  è cartellino giallo, però in questo momento conta solo una cosa.
E’ rigore.
Sul dischetto va proprio Modric. Il fenomeno del Real Madrid. Il capitano.
Calcia in modo orribile. Schmeichel Jr. non solo para, addirittura la trattiene.

Sbagliare un rigore al 115° vuol dire che la devi perdere.
Non ti rialzi da un colpo del genere. 

Si va quindi ai rigori.
La chiamano “lotteria” perchè azzera le differenze tecniche e tattiche, almeno in teoria. Può vincere chiunque. Contano solo tenuta mentale e fortuna, ma su quest’ultima nessun croato sarebbe pronto a scommettere, visto quanto appena successo. 
La Danimarca calcia per prima.
Ci va Eriksen, il più forte dei loro. Sbaglia.
Forse non è finita, forse la sorte ha deciso di pareggiare i conti. La fiammella della speranza agguanta una boccata di ossigeno e rinvigorisce un attimo. Giusto il tempo di vedere Schmeichel Jr. parare il penalty di Badelj, calciato anche peggio di quello di Modric nei regolamentari. La Croazia butta alle ortiche la seconda chance di vittoria in pochi minuti.

Non è cosa.
Gli Dei del calcio si stanno esprimendo chiaramente.
A ribadirlo è il proseguo dei calci di rigore. La Danimarca segna con Kjær, la Croazia impatta con Kramarić, ma Krohn-Dehli riporta ancora una volta avanti i danesi.
Modric ha sul piede la palla pesantissima della disfatta. Di nuovo lui, dopo quella per la gloria di 10 minuti prima.
GOL.
Ancora un rigore brutto, bruttissimo, che passa a pochi centimetri dal piedone di Schmeichel Jr., ma che questa volta si insacca alle sue spalle. I pochi centimetri che dividono tragedia e trionfo.
Parità. Di nuovo.

Solo che ora la sensazione è davvero che la sorte sia girata perchè Subasic, già fondamentale sull’errore di Eriksen, neutralizza Schøne e porta la Croazia al terzo possibile match point. Questa volta nei piedi di Pivarić.
La rincorsa è lunghissima.
Schmeichel Jr. para.
Schmeichel Sr., portierone anni novanta, in tribuna è letteralmente pazzo di suo figlio.
E’ t
ripudio danese sugli spalti.

Devono passare loro. E’ scritto. Come per Italia-Olanda nel 2000. Non ti puoi divorare tre possibilità di passare il turno senza pagare dazio alla fine. Non ai mondiali.
Credevo.
Invece Subasic fa un nuovo miracolo mettendo il piedone sul tiro centrale di un altro Jørgensen. 
Il quinto ed ultimo rigore tocca a Rakitić.
Se segna è vittoria, se sbaglia si va ad oltranza.
Palla da una parte, portiere dall’altra e Croazia ai quarti di finale.

Madonna che bello il calcio.


Questo post è nato su Facebook, ma poi ho pensato che meritasse di stare qui sopra. Che senso ha avere un blog, se le cose che scrivo le metto altrove?

Il guacamole GIUSTO

Questo non è un blog di cucina e io non sono un cuoco. Cucino eh, anche con risultati discreti se mi ci metto (mi sto dilettando col bbq ultimamente), ma non è una mia passione. La mia passione al massimo è mangiare, cucinare solo una via per soddisfarla.
Non mi piace scrivere ricette esattamente come non mi piaceva scrivere i protocolli in lab, quindi non essendo le prime parte integrante del mio lavoro evito volentieri. Ci sono peró una manciata di piatti a cui sono affezionato e che negli anni, vuoi per moda o per altro, sono stati massacrati dalla più massiccia ed ingiustificabile dose di SBAGLI possibile, arrivando a farmi odiare non tanto il piatto in se, ma chiunque lo proponga. Specie se si tratta di quei posti pretenziosi in culo che per educazione mi limiterò a definire “Gourmet”.
A queste bestemmie culinarie ho deciso di contrapporre delle ricette GIUSTE, linee guida da scolpire nel marmo e tenere presenti come unica verità possibile. Tempo fa ho scritto quella dell’hamburger e quella della cassoeula, ora è il momento vi mostri la via del guacamole.

Il guacamole è quella cremina di avocado che vi rifila a tradimento qualunque ristorante tex-mex insieme a nachos di cartone. A me è sempre piaciuta, un po’ come agli americani piace Pizzahut, ma quando sono stato in Messico ho realizzato quanto fossi radicato nello sbaglio e così ho chiesto ad un’amabile signora di spiegarmi come si facesse il guacamole GIUSTO.
Si fa così.

INGREDIENTI:
– Un avocado maturo
– Mezza cipolla bianca
– 1/4 lime (succo)
– Sale
Tutto è ovviamente scalabile in proporzione. So cosa stai pensando, ma no, non manca niente. Poi nelle FAQ ti spiego.

PROCEDIMENTO:
Per prima cosa devi scegliere l’avocado. Non ti mentiró, gli avocado che trovi qui fanno cagare. Anche quelli bio. Anche quelli che paghi oro. Ovviamente il guacamole dipende al 90% dall’avocado quindi è un bel problema, ma ho la soluzione che limita i danni. Se devi fare il guacamole subito, tipo che fai la spesa la mattina per prepararlo la sera, devi tastare gli avocado e sceglierne uno che pensi sia marcio. Deve essere molliccio e darti quella sensazione che per qualsiasi altro frutto si tradurrebbe in un tuffo nell’umido. Se invece vuoi farlo dopo giorni prendine pure uno duro e mettilo in una pentola con delle mele ad incubare fino a quando è pronto. It’s science, bitch.
Quando hai il tuo avocado bello maturo lo tagli a metà, poi scavi con un cucchiaio la polpa mettendola in un recipiente e la innaffi subito col succo di lime.
A questo punto devi schiacciare la polpa con un mortaio fino a che tutto diventa una cremina. Se non hai un mortaio va bene schiacchiare la polpa con una forchetta. Non. Devi. Frullare. Usa la forchetta (cit.).
Il tutto deve diventare cremoso e liscio, ma non troppo. Nel guacamole piccoli grumetti di polpa sono un plus.
Ora triti a coltello la mezza cipolla in modo che sia più fine possibile e aggiungi il trito alla crema insieme ad un pizzico di sale. Quindi riprendi la tua bella forchetta (do per scontato tu non stia usando mortaio e pestello perché sei un pigrone) e ricominci a passare la crema, per due motivi:
1) la cipolla deve integrarsi e scomparire.
2) di sicuro non avevi tirato a sufficienza la polpa di avocado e invece dei piccoli grumi qua e la avevi una sorta di poltiglia che sembra pre masticata.
Fai tutto questo almeno un paio d’ore prima di servirla in modo che si amalgami bene. Lasciala riposare con la pellicola a contatto se no fa la crosticina opaca. Non è un dramma, ma già che sei in ballo fai le cose a modino.
Bon, hai preparato il tuo miglior guacamole da mangiare con quel che ti pare, anche i tuoi affezionatissimi nachos di cartone.

FAQ:
– Hai dimenticato i pomodori?
No. So che li mettono sempre, ma non ci vanno. Porcodue.
– Hai dimenticato il peperoncino/i jalapeños?
No. Il guacamole non è piccante. Porcodue.
– Ho preso l’avocado che sembrava marcio ed era marcio. Perché?
Eh, capita. Però statisticamente è più probabile trovarsi con uno acerbo e inutilizzabile prendendone uno che non faccia senso al tatto. Fidati. La selezione si impara col tempo.
– L’ho fatto e sa troppo di cipolla. È normale?
Si. Però capisco ad alcuni dia fastidio (Signore perdonali.). Alternative possibili sono scendere ad un quarto di cipolla, oppure usare la cipolla rossa di Tropea. Alla mal parata anche lo scalogno, ma sappiate di essere sul bordo dello sbaglio con un piede già nel vuoto.
– Non ho il lime, uso il limone?
No. Cambia proprio sapore. Non mi chiederesti di usare il mango perché non hai l’avocado, no? VERO?
– Non ci sono varianti accettabili?
L’unica licenza che mi prendo io è metterci una grattata di pepe nero macinato. Per me ci sta proprio bene, ma se tornassi dalla signora che mi ha trasmesso la GIUSTA via, non credo le farei questa confessione. Per il resto no, non ci sono varianti accettabili.
– Non ho cazzi di schiacciare tutto nel mortaio o con la forchetta, tanto col frullatore viene uguale.
No, non viene uguale, ma sei così scemo che nella sezione domande hai postato un’affermazione, quindi spiegartelo non servirebbe.
– Se i nachos fanno cagare con cosa lo mangio?
Sta da dio con un sacco di cose, la prima che mi viene in mente è la salsiccia alla griglia. Fai delle prove e sviluppa un tuo gusto. Poi se proprio hai il tarlo dei nachos, ma non vuoi cedere al cartone, puoi farteli in casa. Non sto a scrivere la ricetta, ma funziona così: fai le tortillas di grano bianco (acqua e farina, a memoria), le cuoci, le tagli in quattro e poi le friggi ad immersione in olio di semi. Non comprerai più un pacchetto di nachos nella tua vita.
Si chiamano totopos, tra l’altro.

Di Maio ha un problema / Di Maio è un problema.

Il 27 maggio, in seguito all’ormai celebre discorso di Mattarella, Di Maio sbrocca e inizia a vaneggiare di impeachment e traditori della patria prendendosi del buffone perfino da Scanzi.

Il 28 maggio, ignaro o non curante dell’esistenza di quel che i tecnici definiscono “verbali”, Di Maio accusa pubblicamente la prima carica dello Stato di aver mentito sulla proposta di alternative del M5S per l’economia, facendo reiterare l’accusa anche da Di Battista.

Il 30 maggio, Di Maio torna a far visita al Colle per chiedere la possibilità di fare un passo indietro su Savona e provare a mettere finalmente in piedi sto benedetto Governo del Cambiamento®.

Tralasciando per un attimo come in tutto questo bailamme il giornalismo italiano abbia vissuto uno dei momenti più bui della sua storia, tra comizi trasmessi ovunque senza il minimo contraddittorio e fake news, io vorrei proprio parlare di Di Maio.

In questi ultimi tempi si è fatto un gran parlare di “competenza” come chiave per discriminare chi può dirigere il Paese e chi no. Per molti il tutto si è fermato alla questione laurea/non laurea, diventando presto argomento da meme piuttosto che da analisi politiche.
Non starò qui a dire per la milionesima volta che anche per il sottoscritto la mancata laurea di Di Maio abbia un peso, quel che mi preme analizzare adesso è come negli ultimi tre giorni sia emerso il vero nocciolo della questione: fare politica è una cosa difficile e bisogna saperla fare. Bisogna sapere, ad esempio, che non è ambito in cui essere impulsivi e rilasciare la prima dichiarazione che passa per la testa, magari in preda alla rabbia. Oppure bisogna saper comprendere quando gli “alleati” ti stanno mettendo nel taschino e tirando una sola. Se non per evitarlo, per essere pronti a reagire senza fare danni ancora più grossi di quello subito.
Questo intendevamo quando parlavamo di un Di Maio inadeguato, impreparato, non competente. Non si parlava solo della sua formazione, ma delle reali capacità, di cui in questi giorni abbiamo avuto dimostrazione.

Di Maio è un dilettante a capo di un gruppo di dilettanti.
Quanto è successo con Mattarella è grave, ma ancora gestibile. Se davvero si metterà alla guida del Paese non è detto ci sia sempre spazio per recuperare alle cazzate che fa quando si trova suo malgrado in situazioni impreviste o che scoprirà in corsa di non saper gestire.

Per dirla semplice: butta malino.

Una per BASTONATE che chiude

Srivere un blog è una delle tante cose che ho iniziato a fare senza sapere cosa fosse. Era un pomeriggio del 2005 e mi ci sono infilato convintissimo avrei poi mollato entro breve e senza rimpianti. Vai tu a sapere mi avrebbe preso così bene scrivere.
Son passati davvero tanti anni da quel pomeriggio e questa cosa dei blog sta sempre più diventando l’equivalente dei giapponesi nella foresta alla fine della seconda guerra mondiale. Eppure per un certo periodo se internet ha avuto senso è stato per via dei blog.

Ho iniziato a leggere BASTONATE quasi da subito. Non ho idea di come ci fossi arrivato, dovessi metterci due centesimi direi da Junkiepop (rip.), probabilmente per la cosa della classifica delle copertine più fighe dei dischi usciti tra il 2000 e il 2009. Forse addirittura prima, ma conta poco.
Quello che conta è che non me ne sono mai andato. Mi son letto tutti i pezzi, anche quelli scritti dagli autori che non mi piacevano (qualcuno), anche quelli che parlavano di roba che non mi piace (la larga maggioranza). Per Francesco è una roba normale appassionare qualcuno parlandogli di musica che non gli piace, per me non lo è mai stato, eppure ero sempre lì.
In nove anni ho mandato a BASTONATE tre “pezzi”, spinto da quella insana voglia di far parte di qualcosa che ti piace no matter what. Il primo è passato, ma non c’era scritto niente. Era solo il link a un video con un titolo. Uscì senza il titolo.
Il secondo aveva addirittura un contenuto, una micro recensione di tre righe all’album di Natale dei Bad Religion. Uscì esattamente come l’avevo inviato. Anni dopo in un altro pezzo Francesco dimostrò di averlo completamente rimosso dalla memoria, come capita coi traumi.
Il terzo era una roba entusiasta sulla reunion dei Mineral che non solo fu cassato, ma suscitò addirittura un contro-post volto a bastonare la reunion stessa. Va beh, anche BASTONATE ogni tanto cappellava male, chi non?

Oggi BASTONATE chiude i battenti dopo nove anni in cui, tra le tantissime robe fatte, dette e promosse, si son tolti pure la soddisfazione di un paio di premi come miglior sito musicale italiano, in faccia a gente che non era propriamente allo stesso livello in termini di mezzi e “impegno” (leggi: gente che lo fa di mestiere). Credo sia una cosa bella, ma soprattutto giusta, in un mondo dove se si pensa a una penna per dirigere Rolling Stones viene in mente Selvaggia Lucarelli.
A differenza di tanti, troppi blog che ho seguito con passione e che se ne sono andati senza manco salutare, BASTONATE lascia un post di addio a sancire ancora una volta quel gradino di stile che li ha sempre tenuti più in alto degli altri nella mia classifica personale dell’internet (nota anche come la Esticazzi? Chart). La cosa buffa è che nel post citano addirittura una band che mi piace, cosa che in nove anni sarà successa in una manciata scarsa di altre circostanze. Nel senso, mi ha fatto sorridere, cosa che visto il contesto non era pronosticabile.

Tutto questo per dire che, bon, BASTONATE mancherà abbastanza anche se ormai pubblicava pochissimo, perché saperlo lì era un piccolo stimolo ad andare avanti nell’ignorare che i blog hanno rotto il cazzo. Nella foresta di cui sopra inizio a sentire l’eco dei tasti del mio pc mentre scrivo e forse dovrei riflettere su cosa vuol dire.
Forse invece mi sta bene sia cosí, la recente discussione a tema Primo Maggio ha già sancito il mio comfort nel collocarmi tra i vecchi tromboni e credo che non ci sia nulla di male nel vivere le cose del proprio tempo anche oltre la fine della loro rilevanza. Può farlo il vinile, magari capiterà anche ai blog.
Di mio voglio solo ringraziare per tutto Francesco e gli altri. Per celebrare questo avvenimento c’era solo un alternativa a scrivere ste righe ed era sentirsi un disco dei Fugazi, cosa che anche no.
I Fugazi sono quel gruppo che se dici che ti fan cagare prendi scoppole da chiunque, ma mi pare il momento giusto di fare outing. Anche solo per suscitare disappunto e quindi chiudere con una gag che per tutto il post mi sono pregato di evitare.
Il titolo del post vorrebbe essere un omaggio, ma probabilmente è sbagliato.

Andrés Iniesta

La stagione 2017/2018 sarà l’ultima di Iniesta al Barcellona, il che vuol dire l’ultima stagione nella sua squadra di sempre. Forse si ritirerà, forse finirà in qualche campionato assurdo, ma di certo non giocherà più nella Liga, tantomeno in competizioni che potrebbero costringerlo ad affrontare il Barça.
Iniesta è con ogni probabilità il giocatore più forte che io abbia mai visto giocare. Non viene mai fuori nei discorsi “da bar” perchè si pensa sempre a quei giocatori spettacolari o alle macchine da gol, ma pochi di questi sono riusciti ad essere costanti quanto lui, decisivi quanto lui, completi quanto lui o anche solo vincenti quanto lui. 
Negli anni della costante sfida tra Cristiano Ronaldo e Messi per il pallone d’oro, Iniesta ne avrebbe probabilmente meritato più di uno eppure non si è mai gridato allo scandalo, neppure nel 2010 quando vinse i Mondiali con la Spagna. Lo diedero a Messi, che quell’anno non vinse nemmeno la Champions League per quella strana congiuntura astrale che i milanesi brutti chiamano Triplete.
Una vita nel Barcellona, una vita come pilastro di una delle squadre di club e delle nazionali più forti di sempre, che per almeno 5 o 6 anni hanno brutalizzato il calcio mondiale.
Accanto a lui continuavano a passare fenomeni ultrapagati e ultrasponsorizzati: Ronaldinho, Messi, Neimar, Suarez, Eto’o, Ibrahimovic, per dire i primi che mi vengono in mente. Gente che infiammava le pagine di calciomercato ogni estate, giustamente, ma che deve a Iniesta un bel po’ della propria fortuna. Lui e Xavi, il cui percorso è stato simile, sono sempre passati in secondo piano quando in realtà erano il vero diamante in quei contesti. Tra i due, per me, Iniesta un po’ più brillante.
A 34 anni Andés Iniesta chiude dopo aver vinto TUTTO:
1 Mondiale (2010)
2 Europei (2008, 2012)
1 Europeo under 20 (2012)
4 Champions League (2006, 2009, 2011, 2015)
3 Supercoppe Europee (2009, 2011, 2015)
3 Mondiali per Club (2009, 2011, 2015)
9 Campionati Spagnoli (2005, 2006, 2009, 2010, 2011, 2013, 2015, 2016, 2018)
7 Supercoppe di Spagna (2005, 2006, 2009, 2010, 2011, 2013, 2016)
6 Coppe di Spagna (2009, 2012, 2015, 2016, 2017, 2018)
Mai una parola fuori posto, mai un atteggiamento sconveniente, sempre “under the radar”. 

E noi stiamo dietro a Buffon.

La Scena

Ieri sono andato in Santeria alla presentazione del documentario LA SCENA, ovvero la storia del punk-rock italiano anni 90 raccontata dalla viva voce di chi c’era.
A me è piaciuto tanto.
Mi è piaciuto non fosse un documentario a tesi, ma solo una raccolta di testimonianze. Leggi il titolo e pensi sia un’operazione nostalgia che punta a dire quanto fosse figo quel momento lì, invece è un’operazione nostalgia (su questo torno dopo) che prova a capire cosa sia successo in quel momento lì. Senti le testimonianze e non è neanche vero per tutti esistesse, questa benedetta SCENA. 
Si racconta il periodo e ne viene fuori un’immagine abbastanza centrata agli occhi di uno che non c’è mai stato dentro davvero in termini di amicizie e relazioni, ma che ci ha vissuto dentro almeno cinque anni pieni della sua vita.
Ho st’immagine in testa in cui siamo al forum al concerto degli Offspring post Americana, ’99 direi, e al banchetto del merch incrociamo il trombettista rasta biondo degli Shandon, che aprivano il live. Ci guarda e ci fa: “Oh raga, ma anche qui siete venuti?”. Non ci avevamo mai parlato con quel tipo. 
Questo per dare un riferimento di cosa intendo con viverci dentro.

Per il resto sì, è un’operazione nostalgia che gioca molto sul ricordo di un momento preciso fatto di suoni, contesti e persone precise. Non ha la pretesa di essere omnicomprensivo o esaustivo, non credo almeno, ne tanto meno di aggiungere chissà quale profondità di dettaglio storico al racconto. Potremmo stare qui a dirci sia fatto per raccontare a chi non c’era cosa è successo, ma non so quanto sarebbe onesto. Credo che l’interesse per questo bel lavoro arrivi quasi totalmente da dentro e per me va bene sia così. Voglio pensare non esistano nati nel 2000 oggi in fissa coi Punkreas o coi Derozer. Sarebbe triste, in un certo senso.
Alla fine quindi questo documentario è esattamente quello che ti aspetti possa essere prima di vederlo, nella stessa misura in cui sai come suonerà un disco punk-rock prima di ascoltarlo. Proprio come in un disco punk-rock ci sono i pezzi che ti spostano, anche in questo LA SCENA ci sono due o tre perle. Commenti centrati, spunti di riflessione, testimonianze che ti lasciano attaccato qualcosa e che arricchiscono, o magari semplicemente tolgono la polvere a concetti rimasti in angoli reconditi della memoria un po’ troppo tempo.

Tutto quello che ci succede è influenzato da come lo viviamo, dal nostro stato d’animo nel momento. Ieri io compivo 37 anni e stavo vivendo la cosa con l’ormai classico mix di sbattimento e ansia. 
Finire a guardare un documentario su quando ero ragazzino poteva prendermi malissimo, invece è stato bello e credo sia soprattutto merito di come il documentario è stato fatto.
Metto qui sotto il trailer, andate a vederlo.