Vai al contenuto

Manq

Diario dall’isolamento 2: day 4

Giornata strana.
I bimbi sono andati entrambi all’asilo, non capitava da grossomodo un mese, quindi mi sembra di aver fatto mille robe.
Sta mattina ho tenuto un seminario online. Di lavoro mi capita(va) spesso di tenere lezioni/talk durante corsi e conferenze, ma di solito in inglese e di fronte ad un pubblico in carne ed ossa. Farlo in italiano e via web è risultato più complesso del previsto, un po’ perché mi rendo conto che parlare di lavoro in italiano mi è ormai innaturale: penso in inglese e devo tradurre in italiano, una roba aberrante. Un po’ perché parlare ad una platea ti permette di guardare le persone in faccia e renderti conto se sono vive e lottano insieme a te oppure se te le sei perse nei meandri della slide precedente. Se vedi le facce capisci anche solo se stai correndo troppo o se sei soporifero. È un vantaggio non da poco. Online invece parli da solo, fissando uno schermo e non hai la minima idea se quelli dall’altra parte stiano prendendo appunti o siano su Facebook. È molto poco confortevole.
Quindi diciamo che le prime due o tre slides tradivano forse un po’ di tensione, ma poi credo di essere andato bene. Onestamente fare presentazioni penso sia una delle robe che mi riesce meglio nella vita, una delle poche per cui mi sentirei di dire che sono bravo, ed è forse la cosa che preferisco del mio lavoro.
Mercoledì si replica, ma vorrei spingere per farla diventare un’attività costante, visto che dai clienti e ai congressi non si potrà andare per un bel po’.

Mi sa che ho scritto il post meno interessante di sempre, ma va beh.

Diario dall’isolamento 2: day 3

Domenica, terzo giorno del nuovo lockdown e già mi ricordo come fosse difficile scriverci sopra tutti i giorni. Il secondo lockdown è sempre il più difficile nella carriera di un artista.
Oggi però lo spunto è arrivato per posta, grazie alla newsletter di BASTONATE (ci si iscrive qui) e suona come una di quelle robe che si facevano una vita fa sui blog. Io almeno la leggo così e quindi mi accodo volentieri come ho spesso fatto in passato.
Il temino titola Come ascolto cosa (Pandemina Edition) ed è, cito:

una specie di dichiarazione di intenti -tipo “non sono più il tipo di appassionato che ero tre o quattro anni fa” […] aggiornata e molto influenzata dal fatto che i tempi sono un po’ particolari, e come li affronto io.

Per partecipare tengo i titoli dei vari paragrafi e li commento a titolo personale.

QUANTI DISCHI COMPRO
Probabilmente pochi per gli standard di chi si lancia in questi discorsi, ma altrettanto probabilmente più della media della popolazione. Diciamo che ogni anno compro tra i dieci e i trenta dischi, a naso. Non li conto, ma direi che indicativamente la cifra è quella. Compro essenzialmente tre categorie di dischi:
1) roba vecchia che per qualche ragione non mi ero comprato in passato, vuoi perché all’epoca non me la ero cagata o perché all’epoca non mi era piaciuta. Quest’anno, per dire, mi son comprato Full Collapse e i Botch.
2) robe vecchie che compro per una questione di completismo rispetto al fatto che la mia collezione deve in qualche modo rappresentare in modo dettagliato la mia storia musicale. Quest’anno ho investito abbastanza tempo nel recuperare i sei numeri in CD della serie ALBA (Eurodance mid ’90 targata DJ Time) e una compilation di Molella uscita per un programma sempre su Radio DJ che gli avevano messo in mano per qualche mese nel ’94 e che passava la roba se vogliamo più estrema del periodo, in termini di musica dance.
3) roba nuova (non necessariamente appena uscita) con cui entro in contatto magari sui social e che dopo qualche ascolto decido sia imprescindibile. Quel tipo di dischi che poi tra cinque anni manco ricordo di avere. Quest’anno è Speranza o il disco di M83 che hanno usato per la OST del film Suburra, ma forse sarà così anche per RTJ4 e i Dogleg che invece mentre scrivo penso siano i dischi davvero rilevanti di quest’anno.
Per tutti questi dischi di solito compro su Amazon oppure su Discogs se è roba non reperibile su Amazon. Sono servizi comodi. Forse non sono il meglio da un punto di vista etico, ma la giornata ha 24 ore e io tempo per andare a comprare dischi altrove non ne ho. Che poi altrove dove? Un paio di volte ho scritto a Dischivolanti ed entrambe mi ha risposto che per la roba che cercavo era meglio andare su Discogs. Quindi…
C’è in realtà un’altra categoria di dischi che compro e sono quelli di piccoli gruppi indipendenti che “scopro” per qualche motivo e che decido proattivamente di supportare. Quest’anno sono gli Elephant Brain, per esempio. In questi casi mi sbatto un po’ di più per comprare il disco direttamente da loro, magari abbinando la maglia. La mia visione superficiale è che questi siano i casi in cui fare distinguo abbia senso.

QUANTO ASCOLTO IN STREAMING
Tempo fa ho disdetto Sky e con quei soldi mi ci sono pagato l’abbonamento Spotify, Netflix, Disney Plus e League Pass per i Playoff NBA. Probabilmente mi è anche rimasto in tasca qualcosa.
Non credo di poter immaginare una vita senza Spotify Premium. Il ricordo di quando all’idea di dover fare un’ora o più di macchina passavo in rassegna tutti i CD per scegliere quelli che avrei voluto sentire mi causa ancora oggi dolore fisico. In più oggi se mio figlio vuole sentire “Tutti Cantano Cristina” oppure la ost di “Tony Hawk Pro Skater 1+2” in macchina posso accontentarlo ed evitare di guidare in balia delle sue recriminazioni.
Di Spotify apprezzo il catalogo, ovviamente, e la possibilità di farmi delle playlist. Le playlist di Spotify invece le trovo offensive: buttare tutti i pezzi di tutti i dischi di un artista in una lista non è fare una playlist. Fare una playlist è calcolo e sacrificio, un lavoro che richiede moltissimo tempo e di cui devi essere insoddisfstto letteralmente il secondo dopo averla chiusa.
Non so invece esprimermi sull’algoritmo perché essenzialmente non lo uso. Vado e cerco roba, dei suoi consigli faccio volentieri a meno.
C’è un ampio dibattito in merito a quanto sia poco etico Spotify nella sua politica di retribuzione degli artisti, ma ho questa opinione stronza per cui è uno di quei casi in cui si cerca di scaricare le responsabilità sulle persone comuni. Gli artisti continiano a stare su una piattaforma che gli ruba i soldi, ma io dovrei rinunciare a tutta la musica possibile a 10 euro al mese per dar loro una mano. Probabilmente la sto mettendo giù malissimo, ma la percezione è quella.

QUANTO SCARICO
Zero. Non scarico dischi a pagamento perché al massimo li compro su formato fisico e se non escono su formato fisico la prendo come una volontà del gruppo di rinunciare ai miei soldi. Con accesso al catalogo di Spotify e le tariffe a giga illimitati, non scarico più neanche roba illegale. Sono ancora nel giro di alcune agenzie che mandano la preview dei dischi, ma non dovendo più scriverne non scarico mai quello che propongono. I miei download sono zero.

COSA ASCOLTO (PANDEMIA EDITION)
Essenzialmente la stessa roba, sempre. Non ho mai capito come facciano i veri appassionati ad avere migliaia di dischi in casa. Io ne ho meno di 500 e ne ascolto grossomodo rutinariamente una cinquantina abbondante. Forse negli ultimi anni ho iniziato a sentire molta più roba senza le chitarre, prevalentemente rap, ma credo sia perché di roba con le chitarre ne esce davvero poca e quella che esce non mi piace quasi mai. Poi ogni tanto arrivano cose così tanto fuori tempo massimo che in qualche modo mi entrano sotto pelle nonostante razionalmente sia conscio del loro essere prive di qualsiasi dignità. Predi il disco di MGK per esempio, che è un normalissimo e neanche troppo ispirato disco di pop-punk che vent’anni fa non avrei ascoltato neanche pagato e che invece oggi mi risulta molto più tollerabile di uno qualsiasi degli ultimi N dischi dei New Found Glory. Oppure il nuovo BMTH che in pratica è un disco dei Linkin Park fatto di extasy e quindi mi sembra buono nonostante io i BMTH non li abbia mai tollerati. Son comunque tutti diversivi rispetto ai miei ascolti routinari, che sono davvero sempre quelli.

QUANTO ASCOLTO
Meno di prima. Molto meno. Non dover più andare al lavoro mi ha tolto il principale momento della giornata in cui mi mettevo roba in cuffia. Io sono sempre stato uno consapevole di non ascoltare per forza di cose roba che piace al prossimo e quindi ho sempre ascoltato musica da solo, in cuffia appunto. I momenti per farlo in questo periodo storico sono diventati pochissimi e probabilmente mi manca la voglia di ritagliarmene altri. Ascolto musica la notte, a letto.

COME VALUTO LA MUSICA
Come ho sempre fatto: se mi piace, la ascolto. A volte è perché mi comunica qualcosa, altre semplicemente mi fa stare come voglio stare in quel momento (che non vuol per forza dire bene). È essenziale suoni bene, almeno per me, tutto il resto viene dopo. Certamente ormai da anni ho smesso di ritenere l’oggettività parte della questione e, anzi, ormai guardo con sospetto misto a compassione chi ancora cerca di sostenere che questo disco è meglio di quello o questo artista ha più dignità di quest’altro. Certo, ci sono una montagna di fattori, extramusicali e non, per cui è possibile fare dei distinguo e discutere di “valore reale”, ma alla fine della fiera quello che conta è se un pezzo mi piace o no, tutto il resto viene dopo e lascia onestamente il tempo che trova.

QUANTO SONO AGGIORNATO
Per niente. Fortunatamente il mio intorno digitale è abbastanza sul pezzo e quindi ancora oggi riesco ad assorbire qualcosa e non vivere propriamente in una grotta, ma è davvero qualcosa che avviene mio malgrado.

Bon dai, è stato divertente.
Ora vado a farmi un giro in bici coi bimbi, che da quanto ho capito è una roba fattibile se si rimane nel comune di residenza. Almeno prendiamo un po’ d’aria.

Diario dall’isolamento 2: day 2

Alla fine ha vinto Biden e direi che siamo tutti contenti. Un po’ perche Trump è un essere abietto che deve sparire dal dibattito politico mondiale, ma più che altro perché l’insediamento sarà a Gennaio ed è un bel modo per il 2021 di presentarsi al suo pubblico.


Oggi abbiamo smontato la cameretta dei bambini, che poi era composta da un lettino per neonati, un lettino Ikea di quelli media lunghezza e un armadio tre ante che stava nel bilocale della Polly e che ci eravamo portati dietro temporaneamente ormai quasi sei anni fa. Via anche il tappeto-puzzle con le lettere, quello di gommina che credo sia obbligatorio per chiunque ha dei bambini sotto i 4 anni, tipo il dispositivo anti abbandono per i seggiolini auto. Odiavo quel tappeto e farlo sparire mi ha dato gusto quasi quanto mi è piaciuto liberarmi del seggiolone Chicco. Ci sono cose da cui è difficile distaccarsi perché le associ al ricordo dei tuoi bimbi piccoli e un po’ liberartene è ammettere che quel periodo è passato e non tornerá (NEVER), ma per altre, che magari ti hanno fatto smoccolare quotidianamente per anni e per cui hai contato letteralmente i minuti che ti separavano dal disfartene, caricarle in macchina destinazione discarica ti riempie di quella sensazione che portano con loro le vittorie. Calci al passato che ti trasmettono positività per il futuro. Quindi dai, oggi bene.
Adesso dobbiamo spostare un paio di prese, imbiancare e poi montare la cameretta nuova che arriva il 16 Novembre.
Lavorare per obbiettivi, si dice.
Intanto io, dopo sta giornata massacrante, ho dolori ovunque.

Diario dall’isolamento 2: day 1

E quindi niente, da oggi si riparte con il lockdown fino a data da destinarsi, perchè alle scadenze pronosticate non penso qualcuno creda più.
Questa seconda stagione però ha qualche novità rispetto alla prima, perchè a quanto pare almeno gli asili resteranno aperti e io credo sia una soluzione abbastanza intelligente: se non hai altri contatti con l’esterno, stai esponendo al rischio unicamente persone che, dati alla mano, dovrebbero poterla gestire senza problemi.
Di fatto però è un vantaggio molto relativo visto che dal 7 Settembre ad oggi sono riuscito a mandare simultaneamente a scuola sia Giorgio che Olivia una risicata manciata di giorni. La storia di questo anno scolastico è così avvincente che su twitter la sto raccontando coi meme di Game of Thrones. Da sbellicarsi.
Ad ogni modo almeno per i piccoli dovrebbe essere meno traumatica di Marzo e questo è bene, quindi proviamo a guardare al bicchiere mezzo pieno almeno in questa prima puntata.

Secondo diario giornaliero in partenza quindi e quale potrebbe mai essere l’argomento del primo giorno se non le avvincentissime presidenziali americane?
Commentare i risultati non mi interessa granchè, ci sono opinioni assolutamente più autorevoli della mia grossomodo ovunque, online. 
Una cosa però mi ha appassionato nelle dirette CNN che ho seguito in questi giorni, un fenomeno che coinvolge tantissimi media US in modo trasversale: la condanna alle bugie che Trump sta urlando ovunque nel tentativo di invalidare la sua (probabile?) sconfitta.
La CNN sta ripetendo da giorni in maniera ossessiva che non c’è alcuna ragione per dubitare del corretto svolgimento delle operazioni di voto e parla senza mezzi termini di bugie riferendosi alle parole dette e twittate da Trump. Molti network, tra cui MSNBC, hanno troncato la trasmissione in diretta del discorso di quello che è ancora il Presidente degli Stati Uniti perchè il contenuto era ritenuto non solo falso, ma lesivo nei confronti della democrazia del Paese. Persino Fox News, ancora ampiamente filotrumpiana, sta mostrando segni di non voler passare il limite.
Quale limite?
Semplice, quello dell’amor patrio. C’è proprio un discorso di orgoglio nazionale/ista per cui Trump coi suoi proclami e le sue accuse sta mettendo in discussione la Democrazia Americana, quella che ci hanno insegnato essere la migliore del mondo, quella che si sentono legittimati ad esportare altrove. Non solo, Trump sta minando la sacralità e l’inviolabilità della figura del Presidente degli Stati Uniti e quindi del Mondo Libero. E questo ad un americano non va giù tanto facilmente, democratico o repubblicano che sia. Sarcasmo a parte, la fedeltà alle istituzioni di un popolo che ogni mattina saluta la bandiera e canta l’inno nelle scuole è ben oltre la persona e non mi stupirei per nulla se il Trumpismo, a differenza del Berlusconismo, avesse vita molto breve. Quattro anni sono pochi per spostare il culto dal ruolo all’uomo, ovunque, ma soprattutto negli Stati Uniti. Certo Trump ha costruito un’ampia schiera di fedeli che probabilmente sarebbero disposti a scendere in piazza con le armi per tenerlo alla Casa Bianca. Magari lo faranno anche (incitare alla guerra un popolo armato fino ai denti non è la più grande idea del secolo). Però la mia personalissima ed ignorantissima posizione (supportata da alcuni indizi) è che perfino i repubblicani (intesi come classe dirigente del partito) non vedano l’ora di toglierselo dal cazzo e ripartire.
Vedremo.
E’ comunque di grande aiuto vedere come, nonostante gli stessi media USA stiano impiegando tantissime risorse per non far attecchire il messaggio antidemocratico, falso e violento di Trump, in Italia i nostri sempre bravi giornalisti ci tengano a rilanciare ogni farneticazione dell'(Ex)Presidente con virgolettati privi di commento o rettifiche. Un po’ li capisco: sono abituati a cercare sempre e comunque il taglio controverso, che alimenti polemiche e scandali e che quindi generi click e questo caso, secondo loro, non fa differenza. Eppure questo atteggiamento non ha solo la grave colpa di essere completamente privo di etica professionale e quindi disgustoso agli occhi di chiunque cerchi informazione dagli organi di informazione, ma ha soprattutto la colpa, grave e innegabile, di legittimane dare adito a Salvini di fare sparate cospirazioniste pro Trump venendo tutto sommato percepito come credibile.
Se la stampa italiana avesse passato gli ultimi tre giorni a denunciare e censurare le bugie dell'(Ex)Presidente USA, le dichiarazioni di oggi di Salvini sarebbero state per moltissimi italiani semplicemente irricevibili e per lui stesso per lo meno sconvenienti se non deleterie. 
Invece può permettersi di parlare perchè nessuno si prende la briga di smentirlo, qui.
Altrove la questione è un po’ diversa:

Magari, se anche da noi qualcuno si prendesse la briga di fare il mestiere per cui viene pagato, certi mostri farebbero decisamente più fatica a nascere e, soprattutto, prosperare.

Come va?

Qui ormai non si dorme più.
Un po’ mi sento stronzo perché ultimamente mi pare di fare quello che si piange addosso nonostante sia evidente che i cazzi veri, fortunatamente, al momento stiano altrove. Magari scriverlo mi aiuta a ficcarmelo in testa. Il solito discorso delle prospettive.
Boh.
Che non si chiuda occhio resta un fatto.
Un mix di ansia, paura, stress e stanchezza mentale, credo.
Ho di fatto perso la percezione del tempo, mi ritrovo ogni due per tre a dover far mente locale per collocare temporalmente questo o quell’avvenimento e spessissimo sbaglio. Il 2019 é simultaneamente ieri e l’anno in cui sono avvenute cose lontanissime, cose che comunemente definiamo come “successe una vita fa”. Che poi, fondamentalmente, è vero.
Imbruttirsi, un giorno alla volta. Lentamente ed inesorabilmente. Il peso del tempo che scorre con la sensazione (manco troppo sbagliata) di non poterlo sfruttare è insopportabile. Non per tutti magari, ma qui si fa una fatica fottuta.
È vero, non siamo manco in lockdown. Ancora. Però la bolla che ci separa da ‘sto merda di virus continua a stringersi e mostrare qualche crepa. Poi magari tiene eh. Speriamo. Magari andrà davvero tutto bene.
Se vivi costantemente impegnato a non pensare a tutti i possibili scenari orribili che la tua testa lista alla voce: “domani”, una situazione in cui l’incertezza del futuro è il principale argomento di qualsiasi discussione non è propriamente la tua cosa.
Mangio un sacco, a volte anche se non ho fame. Al mattino non mi peso più da un po’, perché riesco simultaneamente a dire: “Vaffanculo, cazzo mi frega? Al massimo mi metto a dieta POI. Ora non è aria.”, ma poi non ho neanche i coglioni di affrontare le conseguenze di ‘sta presa di posizione. Non mi peso e il problema non esiste.
Ho il drammatico bisogno di avere almeno un problema a cui posso scegliere di non pensare.
Più probabilmente avrei bisogno di cacciare la testa in un cuscino, piangere, bestemmiare e sfogarmi almeno un po’. Far uscire cose.
Invece mi sforzo tantissimo di provare ad essere quello che ha tutto sotto controllo, quello che se si spacca una tubatura mentre il figlio è in isolamento cautelare e quindi non si può chiamare un idraulico, la prende a ridere.
Ma cosa ridi cosa, cretino?
E infatti eccomi qui a lagnarmi nel mio posticino segreto, che è sí accessibile letteralmente al mondo intero, ma è invisibile alle tre/quattro persone che davvero mi interessa proteggere dalle mie debolezze. Quindi ‘sticazzi.
Questi. Grandissimi. Cazzi.
Son le due di notte. In cuffia ho la solita roba tristona che mi sparo quando parto per ‘sti post deliranti.
Adesso spengo tutto, la abbraccio e provo a dormire.
Ci sto credendo. Vedo la meta.
Era davvero questione di allentare le valvole e svuotare il serbatoio, forse.
Domani si riparte con il lavoro, l’asilo che non c’è e i meme di Game of Thrones.
Intanto però, quello che dal 2005 é un blog che non legge nessuno, incidentalemte, é anche il salvagente che mi tiene a galla quando serve davvero.

Lavorare da casa

No, questo non vuole essere un altro articolo che spiega perchè lavorare da casa non dovrebbe essere definito smart working (anche se credo nel proseguo lo farà comunque), il mio è più un tentativo di rispondere ad una semplice domanda:

Il lavoro da casa è la soluzione a cui dovremmo tendere?

Risposta breve: no.
Se avete voglia, ora vi potete ciucciare la risposta lunga.
Premessa d’obbligo: il ragionamento esula dalla contingenza specifica in cui il COVID esiste e ci costringe ad un certo tipo di riflessioni. Il mio punto di partenza è provare a ragionare sul domani, quando in un sistema pandemia-free si dovrà decidere come ristrutturare la normalità lavorativa e pare che la discussione al momento sia polarizzata su due uniche possibilità: tornare al lavoro esattamente come prima, oppure rendere definitivo il passaggio al lavoro da casa per tutti coloro che possono farlo.
Come scenario mi pare povero di fantasia, sinceramente, ma se non credo servano articoli di approfondimento per sancire come un ritorno al lavoro pre-COVID sia un’idiozia sotto tantissimi punti di vista, è meno facile far passare il concetto che anche cristallizzare l’home working come panacea per un domani felice sia un discorso come minimo superficiale, che può andare giusto bene per bestemmiare addosso a Sala su twitter. 
Il primo motivo per cui per me lavorare ognuno nel proprio guscio domestico non è una soluzione sostenibile su larga scala è di tipo sociale. Se c’è qualcosa che ho imparato dal mondo in cui viviamo è che meno contatti ci sono con l’esterno, più diventiamo stronzi. Tutto ciò che non ci tange, letteralmente, diventa nel migliore dei casi trascurabile e nel peggiore fonte di paura, con le facili conseguenze che è inutile stare ad elencare. Ci sarà sempre chi è più empatico e chi meno, chi è più incline a guardare oltre al suo naso e chi meno, ma di base chiudersi nella propria realtà è il modo più semplice per nascondere sotto il tappeto le realtà altrui. E ne facciamo le spese tutti, perchè tolti gli estremi della campana, ognuno di noi ha qualcuno che sta peggio da cui vuole tutelare il proprio privilegio e qualcuno che sta meglio a cui spera di fottere il posto.
Chi più chi meno, ovviamente, ma sui grandi numeri la razza umana funziona così.
Senza rapporti diretti che lo rendano un individuo, il prossimo diventa unicamente un fastidio che limita in qualche modo la nostra esistenza. La frase “non ce l’ho coi gay, ho tanti amici gay” come giustificazione all’omofobia è una minchiata in primis perchè è falsa: se hai tanti amici gay davvero, è impossibile tu ce l’abbia coi gay. Puoi avercela coi gay solo se per te diventano una categoria estranea, astratta ed incomprensibile, di cui l’assenza di riscontri oggettivi rende possibile credere qualsiasi cosa. L’ignoto che fa paura. Questo è anche il motivo per cui l’omofobia nel tempo andrà a sparire, perchè sempre più persone entreranno in contatto diretto con l’omosessualità e capiranno che [SPOILER] non c’è nulla di cui avere paura.
E’ questo il valore di una società, l’interazione che porta integrazione.
In una società dove ormai si può compartimentare la vita privata  (reale ed online) creando vere e proprie bolle, dove grossomodo qualsiasi servizio è domiciliabile e larga parte delle attività non necessità più di coinvolgere il prossimo, il lavoro resta uno dei pochi ambiti in cui non è possibile scegliere con chi ci si dovrà relazionare. Se ci si pensa, questa cosa non è più vera neppure per la scuola, dove l’avvento dell’istruzione privata ha permesso di infilare i figli in contesti “elitari”, che con la scusa di un’istruzione migliore di fatto forniscono a genitori (idioti) la pia illusione di avere i propri eredi al riparo dalle brutture del mondo. Il primo motivo per cui, secondo me, l’istruzione dovrebbe essere forzatamente pubblica, ma sto divagando. Il succo del mio discorso sta nel vecchio detto per cui parenti e colleghi non te li puoi scegliere, con l’aggravante che i parenti puoi decidere di non frequentarli, mentre i colleghi no. Ed è una roba da salvaguardare. 
Oltre a questo aspetto, l’annullamento di confini tangibili tra la vita privata e la vita lavorativa, prima definiti ad esempio dagli spostamenti, rendono molto più sfumati i limiti dell’orario di lavoro e possono comportare difficoltà nell’esercizio del “diritto alla disconnessione”, specie quando sul piatto della bilancia per lo sdoganamento del telelavoro si continua a parlare dell’importanza di lavorare per obbiettivi, in contrapposizione al concetto vecchio stile di “orario lavorativo”. Intendiamoci, l’idea di base per cui chiudere un progetto sia più importane che lavorare 8 ore la condivido anche io, ma spesso si fa finta di non sapere che gli obbiettivi di massima il lavoratore dipendente li subisce, non li definisce e in un contesto in cui lavorare da casa diventa argomento di trattativa, il ritorno che l’altra parte esige per sacrificare la propria smania di controllo è difficile non impatti sulle richieste proprio in termini di obbiettivi. Se il presupposto sarà: “Ok lavorare da casa, ma devi dimostrare di essere efficiente”, per me l’orizzonte diventa un baratro.
Chiudo col discorso produttività, su cui spero sia inutile soffermarsi: chi non ha voglia di lavorare difficilmente lavora, a casa quanto in ufficio. Per tutti gli altri credo il bilancio vada a zero e per ogni persona che riduce un po’ la propria produttività tra le mura domestiche ce n’è probabilmente una che la incrementa. Parlando unicamente della mia esperienza personale, quando lavoravo in ufficio e avevo possibilità di farmi un giorno di lavoro da casa, quel giorno ero iper produttivo. Ora che la routine è lavorare da casa, non credo di essere più efficiente di quando ero in ufficio perchè parte del mio lavoro dipende da altre persone, con cui interagire da remoto è di fatto più complesso, e questo genera alcuni limiti nel circolare delle informazioni. Non dipende da nessuno ed è qualcosa che probabilmente si risolverà nel medio periodo, ma di fatto è uno dei motivi per cui trovo peggiorata la qualità del mio lavoro, da quando sono a casa in pianta stabile.

Quindi dobbiamo tutti tornare in ufficio come prima?

Risposta breve: no.
È ovvio ci siano evidenti limiti al sistema che abbiamo considerato normale nell’era pre-COVID, limiti che non solo tendono a rendere insostenibile quel meccanismo nel prossimo futuro, ma che alla luce di quanto sperimentato in questo 2020 non ha senso rimettere in atto senza trarre il minimo insegnamento. 
Se prima dicevo che i tempi di trasferimento sono un modo per scandire lo stacco tra lavoro e vita privata, il fatto che per molti questi tempi fossero di ore, in situazioni molto poco confortevoli e/o ad impatto ambientale drammatico è qualcosa che non può e non deve passare inosservato ora che abbiamo potuto dimostrare non si tratti di una necessità inderogabile.

Quindi?

Io non ho una soluzione certificabile, ma se devo pensare ad uno scenario che credo possa essere in ogni caso meglio dei due estremi di cui si discute, su cui scommetterei come investimento per il futuro, questo prevede spazi di lavoro condivisi in ogni centro abitato, in proporzione al numero di abitanti.
Luoghi dove si può andare a piedi o in bicicletta, vicino casa, magari sulla strada da e per la scuola dei figli. Luoghi dove si può interagire con altre persone, pranzare e bere il caffè con altre persone, che fanno lavori diversi e hanno stipendi diversi. Luoghi che potrebbero rendere vivi centri abitati che di fatto sono dormitori per lavoratori che poi migrano in città dalle 7 alle 20, congestionandola. Luoghi che potrebbero creare esigenza di attività corollario di ogni tipo: tutto ciò che facciamo in posti comodi perchè “vicini all’ufficio” potremmo farlo in posti comodi vicino a casa. Lavoro che genera altro lavoro.
Magari questa idea ha seimila risvolti negativi che la rendono utopica o più semplicemente stupida, non lo so, fortunatamente il futuro della locazione dei posti di lavoro non dipende da questo blog. Resto tuttavia convinto che una società senza interscambio tra persone sia destinata a gravissimi problemi e, purtroppo, l’interscambio va spinto perchè la tendenza dell’uomo è alla segregazione.
E a me la segregazione fa schifo.

Niente di speciale

La retorica dell’essere speciali ha rotto il cazzo.
Non vuol dire niente, a pensarci. Ognuno di noi è speciale a suo modo e per qualcuno, cosa che rende l’essere speciali tremendamente normale. Se poi parliamo di dischi, il discorso diventa se possibile ancor meno rilevante. Cosa dovrebbe poter rendere un disco “speciale” in senso assoluto?
Niente, appunto.
Adesso vi racconto un disco che hanno scritto dei ragazzi di Perugia che si fan chiamare Elephant Brain. L’ultima traccia, che dà il titolo a tutto il lavoro, chiude così:

Non pensare male
Se tu
Se io
Se noi
Non siamo niente di speciale

Ne parlo perchè non sarà certo un disco speciale, ma è un disco bello. Uno di quei dischi che mi mette la voglia di aprire il blog e buttarmi a sproloquiare opinioni non richieste con l’unica scusa di risentirmelo una volta in più. Come ce ne fosse bisogno.
Dovendo scegliere da dove partire per raccontare queste nove tracce, inizierei dai dettagli più o meno nascosti dentro ognuna, quelle piccole cosine che in questo lavoro sono tutte al posto giusto. Alcune le becchi al volo al primo ascolto, altre magari le noti dopo un po’. Alcune a me sono scoppiate in testa dopo tantissimi ascolti, all’improvviso, magari mentre avevo il pezzo in sottofondo e lo stavo ascoltando distrattamente, un po’ come quando becchi i typo di quel che scrivi non ad una rilettura attenta, ma a cazzo due giorni dopo mentre scrolli la pagina.
Prendi le chitarre di Weekend per esempio. Che belle sono le chitarre di Weekend?
C’è un lavoro minuzioso e certosino dentro questo disco, costruito di dettagli che messi in fila fanno la differenza, sia a livello compositivo, che di produzione e suoni che per una volta son davvero cuciti sulle canzoni con una precisione chirurgica (nota polemica, che se no non sono io: leggo che l’ha prodotto Jacopo Gigliotti, ma mettere sti suoni nell’ultimo disco dei FASK no??).
Anche la parte ritmica mi fa abbastanza volare, perchè ancora una volta non fa nulla di speciale, ma trova sempre il modo più azzeccato per rifinire ogni traccia. Prendi la batteria di Soffocare, per esempio. Che bella è la batteria di Soffocare? Anzi, che bella è Soffocare in toto, con quella sua strizzatina d’occhio ai Touché Amoré che non credo possa essere involontaria neanche se vengono qui a giurarmelo di persona.
Ecco, un’altra cosa bella di questo disco è che coi riferimenti pesca in roba meno immediatamente associabile al genere che spinge. E’ facile infatti associarlo proprio ai sopracitati Fast Animals and Slow Kids, come macroarea: alt-rock in italiano con un buon tiro e di derivazione più punk che indie, volendo ipersemplificare. A differenza dei primi però, gli EB sporcano tutti i posti giusti con tonnellate di sfumature emoeggianti, sia di stampo più mid-west come gli arpeggini di Scappare Sempre e Restiamo quando ve ne andate, sia di tradizione più nostrana come i cori grassi e caciaroni che ci sono sempre in Restiamo quando ve ne andate o in L’unica cosa che conta davvero per me
Che bella è L’unica cosa che conta davvero per me?
Alla fine del disco, Niente di Speciale sfuma in un ticchettio di chitarra che è lo stesso con cui si apre Quando finirà, dando quel senso di ciclicità che, personalmente, mi soddisfa sempre parecchio e che poi altro non è che una scusa per ricominciare da capo e sentire tutto una volta in più. Come se ce ne fosse bisogno.

Niente di Speciale degli Elephant Brain sta su Spotify da qualche tempo e anche su bandcamp. Io l’ho comprato proprio su bandcamp, dove ci sono dei bellissimi bundle per voi nostalgici del vinile. Io che invece sono fissato coi CD la maglietta me la sono presa a parte. Ho comprato tutto esattamente il giorno prima del bandcamp friday, come un boomer qualsiasi.
Lo metto in streaming qui sotto, così almeno vi fate un’idea visto che di quel che ho scritto io probabilmente non si capisce nulla.

Il caso Suarez

Questa mattina mi sono divertito a scribacchiare questa cazzata sul caso Suarez e l’ho messa sui social. Poi mi sono ricordato di avere un blog e quindi mi pare giusto metterla anche qui. E’ una cosa davvero fatta solo per ridere, quella di Suarez è una vicenda che non mi interessa e non mi sposta, il calcio è ormai una delle mie ultime preoccupazioni e quello che penso della Juve l’avevo già scritto qui e vale oggi come allora.

Il caso Suarez
a fiction movie by Manq (da un’idea di Stefano Accorsi).

Prologo:
Il caso scoppia esattamente 12 ore dopo che la Juve molla il giocatore per firmare a sorpresa letteralmente il primo che passa.
Per la stampa: coincidenza incredibile.
Capitolo 1:
Si evince immediatamente che siamo di fronte ad una porcheria enorme che può essere pensata solo da qualcuno molto stupido o che si sente davvero intoccabile.
Per la stampa: tutto nasce da Suarez, colto improvvisamente dall’Italian Dream. Juve parte lesa.
Capitolo 2:
E’ palesemente tutta farina dell’Università di Perugia e del giocatore e sarebbe meglio smettere di fare domande ed indagare, ma ormai non si può e tocca andare a fondo.
Per la stampa: Juve tranquilla.
Capitolo 3:
Escono le prime intercettazioni (ma che cazzo), saltano fuori nomi del tutto impronosticabili. Per lo sconcerto di tutti, quelle che sembravano solo fortuite coincidenze si dimostrano invece nessi causali.
Per la stampa: bisogna indagare, ma GARANTISMO.
Capitolo 4 (da qui SPOILER):
Diventa impossibile non vedere il mandante della faccenda, la Juve, che per quanto mossa da ovvie motivazioni encomiabili ha superficialmente fatto un illecito.
Per la stampa: la burocrazia che blocca lo sport italiano – a case study.
Capitolo 5:
Niente, son colpevoli e non si può fare a meno di punirli in qualche modo. Ci si prova eh, grandi discussioni e giri di valzer, ma alla fine tocca cedere.
PENALIZZAZIONE DI X PUNTI IN CLASSIFICA.
Per la stampa: La Juve paga per tutti, giustizia ad orologeria.
Capitolo 6:
L’armata del Maestro Pirlo, che in campionato ha forse una sola rivale credibile, macina punti e vittorie senza fatica mentre le avversarie fanno un percorso normale e perdono qualche punto.
Per la stampa: Juve più forte di tutto.
Capitolo 7:
Negli scontri diretti la Juve vince. C’è qualche caso da moviola dubbio, ma ehi, smettiamola di dare addosso alla Juve che già è penalizzata. L’inter viene derubata con Parma, Spezia e Crotone. La Juve è avanti.
Per la stampa: MIRACOLO BIANCONERO.
Gran finale:
La Juve vince il decimo scudetto consecutivo SUL CAMPO. Tifosi in delirio. Più forti di tutto e tutti. Campioni nonostante le vostre macchinazioni meschine. Guido Rossi. Maalox.
Per la stampa: lo scudetto EPICO contro le avversità. Il più bello di tutti.

Cobra Kai

Era tanto tempo che non divoravo una serie TV.
Le ultime serie che ho approcciato le ho mollate quasi tutte per strada e se ripenso alle ultime sessioni di binge watching vero l’unica cosa che mi viene in mente è il rewatch di Scrubs*. Non esistono più serie interessanti? Non credo, ma sono diventato tremendamente pigro e soffro un po’ l’effetto buffet di fronte ai cataloghi sconfinati di Netflix e compagnia. Tantissime portate, la curiosità di vederle tutte, ma al contempo il terrore di iniziare una cosa che non mi piace e quindi sprecare tempo prezioso che posso invece dedicare ad attività molto più sensate tipo il refresh compulsivo del mio feed Twitter.
Ne usciremo tutti migliori, dicevano.
Ad ogni modo la scorsa settimana è uscita su Netflix Cobra Kai, la serie che racconta le avventure di Johnny Lawrence dopo Karate Kid e ho deciso di guardarla con Paola. Ne avevo sentito parlare bene già ai tempi in cui uscì su youtube, ma non avevo mai approfondito perchè convinto prima o poi di poterla vedere, solo che a distanza di anni ancora non l’avevo fatto. Un side effect noioso che le piattaforme di streaming legale hanno avuto su di me è la totale mancanza di sbattimento nel voler vedere roba pirata. La pazienza di trovare i link, la qualità che spesso fa schifo, le pubblicità ed i rischi per la sicurezza informatica: tutte menate che i servizi a pagamento ti risparmiano, viziandoti. Per questo ormai o una roba esce in uno dei siti che pago (al momento Amazon Prime Video, Netflix e Disney+) oppure per me non esiste. Sono un anziano e gli anziani, oltre a divagare continuamente mentre scrivono il loro blog, sono pigri.
Tornando sul punto, sto giro se dio vuole per rimanerci, due giorni fa io e la Polly abbiamo approcciato questa nuova serie finendoci dentro con tutte le scarpe e guardando due stagioni in grossomodo un giorno e mezzo. Il motivo è semplice: è una serie stupenda.
Ok, la prima stagione è stupenda, la seconda piuttosto sotto tono, ma ha comunque i suoi momenti ed un buon finale e quindi nel complesso promuovo anche quella.
Quel che fa Cobra Kai è essenzialmente prendere l’idea alla base di una gag pensata dagli sceneggiatori di How I Met Your Mother (ref.) e farci sopra una serie vera e propria in cui si prova a guardare il mondo con gli occhi del cattivo, per scoprire che WHAT A SURPRISE la realtà è un po’ più complessa di quel che poteva apparire e quindi che è sempre utile provare ad analizzare tutti i punti di vista di una storia prima di parlare di buoni e cattivi, visto che la storia la scrivono i vincitori. Lo so, uno legge una cosa del genere e pensa che lo step successivo a Cobra Kai sia “Mussolini ha fatto anche cose buone”, ma non è lì che voglio andare a parare. La cosa interessante nel vedere le cose da più prospettive è che si può trovare conferma dell’impressione iniziale e corroborarla con uno spessore nuovo. E il Johnny Lawrence di Cobra Kai non è tanto diverso da quello del film, non diventa magicamente “un buono”, però è un po’ meno bidimensionale e fa affiorare le ragioni alla base dei suoi comportamenti sbagliati permettendo di empatizzare e quindi aprendo la porta ad una certa autocritica sociale: se empatizzi con gli stronzi e ne comprendi le ragioni, sei un po’ stronzo anche tu. Come è stronzo Daniel LaRusso che però, a differenza dello spettatore, è radicato nella sua convinzione di stare dalla parte del bene per via di tutti quei pistolotti zen di Miyagi, vede il mondo unicamente dalla sua prospettiva e non realizza quanto sia bullo e prevaricatore pure lui, invaso di una autoassoluzione che trova pari solo in Adinolfi e nei Talebani. La serie si gioca tutta lì: non vuole rivalutare nessuno, sposta solo il confine tra buoni e cattivi (anzi, diciamo che praticamente lo toglie) e infila tutti sullo stesso piano, cosa che fanno notare grossomodo tutti i personaggi di contorno, a turno. Perchè non è una serie particolarmente sottile eh, non pensiate ci voglia chissà quale bilancino per misurarne i contenuti. E’ scritta in indelebile a punta grossa, ma è scritta bene.
Il motivo per cui però vale davvero la pena guardare Cobra Kai è che è davvero uno spasso. Durante la prima stagione, soprattutto, io ho riso tantissimo (e pure mia moglie). E poi, finalmente, non è un prodotto hipster che prende l’estetica anni ’80 e la ricicla unicamente per moda e senza alcun tipo di necessità reale (penso a 13 o Stranger Things, per esempio). Qui gli anni ’80 hanno un peso specifico serio e, come Johnny Lawrence, vengono ripescati e presentati nella prospettiva giusta, che spesso li espone ad un giudizio severo, ma altre volte spinge a riflettere su quanta ipocrisia ci sia in chi li vuole denigare a priori. La chiave di lettura infatti è anche quella: il messaggio machista del cinema e della TV anni ’80 è evidentemente uscito sconfitto dal giudizio del tempo, viva dio, ma non per questo oggi lo si deve guardare come ad un male assoluto e degenere capace di produrre solo disadattati e persone prive di capacità relazionali. Anzi, forse la risposta a quel tipo di cultura ha spostato il piano eccessivamente oltre, creando nuove problematiche e fragilità a cui quel tipo di approccio, diciamo alpha, potrebbe fare del bene. Insomma, l’importante è trovare un equilibrio e usare la testa, invece di tapparsi occhi e orecchie gridando “è sbagliato e basta”.
Io almeno l’ho letta così.
Per chiudere, se devo dare un riferimento di cosa sia Cobra Kai, per me la similitudine migliore è “L’ispettore Coliandro del karate”, perchè per quanto le serie siano diverse tra loro, hanno il medesimo scopo e due protagonisti scritti con la carta carbone.
– Buone queste banane fritte.
– Sono platani.
– Ah, qui le chiamiamo BANANE.
Se non è una battuta di Coliandro questa allora non avete mai visto Coliandro. E non è l’unica.

* Sì, ho riguardato Scrubs e mi è piaciuto di nuovo perchè sono una persona orribile che non riesce a cambiare prospettiva sul mondo come dovrebbero fare tutte le persone cool e veramente di sinistra. My bad.

The Sadist Nation

One Nation under the gun
Where forward thinking is shunned
A morbid tradition
Of archaic value systems
Where violence justified
Is just another pride
Under the surface lies
A holy plastic empire
With guarded golden fences
Where misfortune
Shelters decisions
A pain wrought from blood flowing green
The myth of protection
Is a sick fascination
A culture of violence is what you are feeding
Fear is an heirloom
And hate is contagious
A Nation of sadists is what you are breeding
It’s everywhere
It’s everywhere that you see
But who decides
If you watch or turn the other cheek
And only in your mind
Is it your given right to be armed to the teeth
It’s a common disease
The only immunity is to disarm
This holy plastic empire disease