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Manq

Chi visse sperando…

Domenica sera all’ormai consueto appuntamento al Bar Teatro sono venuti fuori un sacco di discorsi veramente interessanti.
Quei discorsi che fanno gli adulti, solo con i nostri soliti toni da mercato del pesce. Personalmente mi piace molto confrontarmi con gli altri su temi che vadano olte lo sport, la birra o il sesso orale.
Ora però non è di questo che voglio scrivere, sebbene l’uscita di Dani “La Chiesa è come Vanna Marchi” meriterebbe da sola una fittissima pagina di questo blog.
Ora voglio descrivere con un esempio quanto il mio lavoro possa essere strano.
Ho fatto il controllo definitivo sul metodo della mia tesi.
Non è venuto.
Potrei aver fatto una cagata io, oppure potrebbe essere che il metodo sia viziato alla radice.
Non so quanti sul lavoro in una situazione analoga spererebbero di essere l’unica causa del problema.
Io me lo auguro con tutto il cuore.

Biennale

Ieri sono stato alla Biennale di Venezia, nota mostra dedicata all’architettura.
Dico nota perchè pare sia un evento piuttosto rinomato nell’ambiente, seppur io ne ignorassi l’esistenza fino, appunto, a ieri.
Potrei darmi un sacco di pose da intellettuale a riguardo, ma non è una cosa che amo particolarmente fare, quindi meglio essere sinceri.
Sono andato perchè la Bri ci voleva andare (e ci sarebbe comunque andata) e mi ha chiesto di accompagnarla. Nulla di più.
Alla luce di come si è rivelata la mostra il mio giudizio da non adetto ai lavori è piuttosto severo, anche se devo ammetere di averci trovato anche qualcosa di buono. Non c’è dubbio che difficilmente potrei ripropormi una sfacchinata del genere, troppo pesante stare una giornata a guardare pannelli, progetti e modellini di cui si ignora qualunque tipo di significato, tuttavia devo riconoscere che alcune delle cose presentate potevano anche essere aprrezzabili, prese singolarmente e dilazionate in un arco di tempo molto più dilatato.
Mi è piaciuta molto la parte che trattava di Milano, forse anche perchè la sentivo più vicina a me rispetto ai progetti per la nuova Mumbai, ma anche alcuni progetti per la costruzione di stazioni metropolitane e un fantastico modellino per la ricostruzione di New Orleans dopo il disastro ambientale.
Durante le tre ore in Arsenale, invece, in cui abbiamo visto un’interminabile sequela di studi urbanistici e sociologici riguardo alle principali metropoli del globo, avrei volentieri barattato il tutto col l’eradicazione delle unghie dalle dita dei piedi.

Google Hit List [Settembre 2006]

Eccola qui, un po’ in ritardo, la classifica più attesa dai visitatori di questo mio diario virtuale.
Devo dire che ultimamente le visite stanno aumentando e con loro le chiavi di ricerca che conducono a questo non luogo telematico.
Ecco come al solito, le migliori dieci del mese.

1- scozzese annoiato è sempre il solito tartan
2- come andare a lavorare come odontoiatra a dublino
3- ho spiato mia zia
4- ho spiato le mail della mia ragazza
5- la tattica del silenzio in psicologia
6- molare infiammato
7- dove comprare rane vive
8- foto crude
9- cappello neffa
10- video hot da la pupa e il secchione

On stage: Plus 44

Sono andato a sentire i Plus 44.
Chi sono?
Sono il nuovo gruppo di Mark Hoppus e Travis Barker.
Chi sono questi due?
Beh, questa domanda non merita risposta.
Il disco uscirà a Novembre, quindi mi sono presentato al Rainbow completamente digiuno del loro sound.
Solitamente non è facile assistere ad un concerto di cui non si conosce nemmeno una canzone, o almeno non è facile restarne soddisfatto.
Per questo credo che ci siano buone possibilità che il cd sia un buon lavoro visto che a me il concerto è proprio piaciuto.
In 55 minuti circa il quartetto è riuscito a coinvolgermi e divertirmi grazie ad un sound piacevolissimo e ad una presenza scenica notevole.
Impossibile non fare paragoni con l’altra faccia della medaglia, ovvero gli Angels and Airwaves, ed il verdetto è di una vittoria “tanto a niente” per i prefissi londinesi di Mark e Travis.
Sebbene io sia da sempre fan assoluto di Tom Delonge, credo che questa sera sia arrivata la dimostrazione di dove stava il talento artistico nei defunti Blink 182.
In questo show non c’è stato spazio per scenografie sfarzose, cambi di strumentazione inutili, effetti sonori da Holliwood o pose da rock star. Il palco era striminzito e l’unico effetto scenografico concesso è stata la splendida batteria verde fluorescente che brillava nel buio sotto i colpi di un Trevis in forma smagliante. Per tutto il tempo l’unica cosa che interessa al gruppo è presentare alla gente i nuovi pezzi. Niente cenni a ciò che fu, niente commenti sull’ex socio Tom, niente riproposizione di pezzi vecchi.
Se anche loro sono stati parte dei Blink, il messaggio pare essere che la vita continua e questo non pare proprio essere un problema.
Probabilmente se si è sicuri di quanto si propone a livello musicale, diventa superfluo ogni contorno “fuomoso”. Unica nota forse non felice sono però i due nuovi membri. In realtà solo uno di loro mi ha veramente deluso, il pelato. Non tanto dal punto di vista musicale, invalutabile ad un primo ascolto live, quanto per l’assenza assoluta di personalità. Pareva nascondersi, come avesse paura di rubare scena a ciò che il pubblico voleva in realtà vedere.
Mai una parola, mai un gesto.
Il secondo chitarrista, quello “punk style”, non era poi tanto meglio, tuttavia almeno provava a fare un po’ di show e si concedeva cori e pezzi cantati. Insomma, se realmente si vuole dare l’immagine di una nuova e solida band, cosa che non credo risulterà difficile a questo progetto, è a mio parere necessario che tutti e quattro i mebri se ne sentano parte integrante.
Magari per questo è solo questione di tempo.
Ciò che più mi è piaciuto, però, olte alla maestria di Trevis dietro le pelli, è stato l’atteggiamento di Mark sul palco.
Lo stesso di una volta.
Geniale, simpatico, coinvolgente, ma mai eccessivo o demenziale.
Per fare un esempio, a metà show il ragazzo presenta un pezzo in questo modo: “Kids, this is the pretty one. Are you ready for a pretty song?”.
Casino.
Suonano il pezzo (realmente carino) ed alla fine in nostro eroe cosa dice?
“Ok, the next one is a little prettier.”
Idolo.

E’ ora di aprire gli occhi

Non volendo appesantire troppo il post e non ritenendo necessaria una sola parola in più rispetto a quanto leggibile in quanto segue, mi limito a citare il testo integrale della lettera che P. Welby ha scritto giorni fa al Presidente della Repubblica.
Voglio anche rendere disponibile la versione video di tale scritto, forse ancora più funzionale al messaggio che Welby sta cercando di lanciare.

“Caro Presidente,
scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese.
Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita.
La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A mezzogiorno con l’aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perchè sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per un’ora una posizione differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio, ma la ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l’aiuto di mia moglie Mina e mio nipote Simone. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina.
Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio … è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà.
Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una “morte dignitosa”. No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte.
La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: “Ostico, lottare. Sfacelo m’assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m’accerchia senza spiragli. Non esiste approdo”.
L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è “morte dignitosa”, ma morte opportuna, nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ciò che “spinge verso il porto”; per Plutarco, la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce il solo “luogo” dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro.
In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non “esista”: vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che consentono al paziente “terminale” che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso di “approdo” alla morte opportuna.
Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato Nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell’alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.
Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire. Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per anni. Noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza.
Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all’eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il dolore altrui.
Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’ – io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico.
Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo confronto.
Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui.
Il mio sogno, anche come co-Presidente dell’Associazione che porta il nome di Luca, la mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi. “

Piergiorgio Welby

Soddisfazioni

Oggi il mio capo mi ha detto che sarebbe intenzionato a tenermi nel post laurea.
Il succo era che si riteneva molto soddisfatta del lavoro svolto.
Non ho voglia nè tempo di stare qui ad imbrodarmi, però è indubbio che mi abbia fatto un grande piacere.
Per il momento ho garantito che sarei rimasto sicuramente a finire quanto cominciato, dando come disponibilità sicura quella approssimabile ad un anno solare.
Più di così al momento sarebbe stato troppo per entrambe le parti.
Il futuro è ancora abbastanza lontano e questo è bene tenerlo a mente.
Questa soddisfazione tuttavia è assolutamente presente e spero mi aiuti a stringere i denti per il rush finale.
Serviva proprio un po’ di carica.

Leaving Capeside

Con i tre episodi che mi sono guardato questa mattina ho concluso la visione della sesta ed ultima serie di Dawson’s Creek.
Mi resterebbe da guardare solo il puntatone finale che ne ha definitivamente sancito la conclusione, ma non ne ho voglia perchè non è che mi fosse piaciuto poi così tanto.
Preferisco considerare gli episodi di questa mattina come la fine del serial più bello di sempre.
Nel guardarli avrei persino potuto piangere.
Una volta qualcuno mi disse che non c’è nulla da trarre come insegnamento dalle storie di Capeside.
Secondo me, se si scrosta sotto alla facile morale e ai clichè su amore e amicizia, di spunti per riflettere e imparare ce ne sono moltissimi e le vite finte di quei cinque ragazzi possono essere più vicine alle nostre di quanto ci si possa immaginare.

End is closer

Nella vita capita che alcune cose finiscano.
Oggi, ad esempio, ho finito con gli esami scritti e con quelli a moduli.
Basta.
Per sempre.
Per mettere la parola “Fine” all’esperienza più angosciante e traumatica della mia non più tanto breve esistenza mancano solo due orali.
Due stramaledetti orali.
Ognuno di questi porterà sul mio libretto un voto a completamento della lista necessaria a poter presentare finalmente domanda di laurea.
Voglio riscriverlo: due orali.
La data ultima per consegnare libretto e documenti vari è il 31 Gennaio 2007 e questo vuol dire avere a disposizione quattro mesi e mezzo, anche se la mia speranza è di finire il tutto prima dell’anno nuovo.
Non ho mai avuto a cuore in modo particolare la mia media, ma adesso è forse il caso di fare due calcoli.
Al momento sono sul 25 secco e l’obbiettivo finale è lasciare esattamente tutto com’è. Nell’ultimo anno ho preso a colpi di scure il margine di vantaggio costruito nel 2004/2005. Come la formica che accantona provviste per l’inverno anche io ho potuto sopravvivere al mio momento di terribile magra senza troppo scompormi. Ora però le scorte sono finite e non ho minimamente intenzione di intaccare quanto ho costruito in sei lunghi anni.
Spero di farcela.
La cosa buona è che per la prima volta da molto tempo, ci credo.
End is closer.

Le mie prime diapositive

Sono appena rientrato in casa dal laboratorio.
In attesa che venga pronto da mangiare ho deciso di scrivere due righe su un importante passo della mia vita nel magico mondo della ricerca: oggi ho preparato le mie prime “slides”.
Domani mattina mi attende il turno mensile del labmeeting, incontro settimanale in cui a rotazione illustriamo ai colleghi i progressi e gli intoppi del nostro lavoro, in modo da essere tutti più partecipi dell’operato altrui e, magari, di poterci aiutare insieme a superare momenti di eventuale stallo.
Essendo il mio gruppo di lavoro costituito da sole cinque persone, questa routine mi ha visto protagonista più o meno una volta al mese fin dal mio ingresso nel laboratorio, quindi non è affatto una cosa nuova per me.
Allora dove sta il grande passo?
E’ presto detto.
Essendo queste riunioni molto informali, di solito vengono fatte con fogli, appunti e quaderni, in maniera molto spartana. Il caso ha però voluto che io abbia ottenuto la maggior parte dei dati che domani presenterò nel periodo estivo in cui queste riunioni sono state sospese. Questo ha fatto sì che la mole di cose da illustrare domani sia piuttosto ampia e, quindi, ho deciso di aiutarmi facendo alcune diapositive in powerpoint.
Very professional.
Volendo però mantenere il clima di sobrietà, le ho fatte piuttosto semplici. Ci ho messo solo figure e grafici, senza nemmeno una didascalia o un titolo. Le userò solo per aiutarmi nella spiegazione vocale che spero così non risulti troppo confusa.
C’è comunque un po’ di tensione.
Prima di chiudere faccio un salto dal palo del lavoro alla frasca della politica.
Non amo Prodi.
Oggi però l’ho adorato.
E’ abbastanza scandaloso che in Italia ci debba essere un dibattito politico sul prestare protezione al capo di uno stato confinante deciso a recarsi in visita in un terzo stato ameno. Quando c’è di mezzo il Papa, tuttavia, siamo sempre pronti a dare il peggio di noi e quindi ecco la diatriba serrata sul fornirgli “protezione militare” per la sua visita in Turchia.
Ritenendo inutile precisare il mio parere a riguardo, o forse avendolo già svelato, mi limito a citare il Presidente del Consiglio:
“Protezione al Papa? Ci penseranno le guardie svizzere…”

Cerchiamo di capirci

Non so perchè ultimamente farmi i conti in tasca sia diventato sport nazionale, oggettivamente non mi interessa nemmeno troppo. Mi interessa di più chiarire a tutti coloro non ce la fanno proprio ad arrivarci per conto loro, che è ora di finirla.
Per essere ancora più chiaro: mi sono rotto il cazzo.
Non passa giorno senza che qualcuno mi faccia pesare qualcosa che ho fatto come neanche avessi rubato dalla cassetta delle offerte in chiesa.
Una persona normale probabilmente nemmeno ci si metterebbe a rispondere a queste cose, ma per me è più complicato.
A 25 anni l’idea di non essere ancora economicamente indipendente è la cosa che mi fa stare peggio in assoluto e chi mi conosce veramente (fortunatamente qualcuno c’è) sa quanto questo mi faccia stare male. Per questo non riesco a lasciar correre pur sapendo che quello di cui sto parlando sono solo occasioni che certe persone perdono per stare in silenzio e riflettere un po’ di più sulle loro situazioni.
Anche fossi un parassita e scroccone che gode nel fare la vita del nababbo sulle spalle altrui non c’è nessuno che può permettersi di farmi le pulci.
Nessuno.