La cosa di avere un blog funziona se poi ci si scrive sopra, di massima.
Non è che non lo sappia eh, solo non ho tutta questa impellenza di raccontare cose, ultimamente, e se proprio mi è capitato di avere qualcosa da dire sono finito per scriverla da altre parti.
In questi giorni però c’è stata una piccola rivoluzione della mia vita domestica ed è qualcosa che magari può interessare altri, quindi eccomi qui.
Ho cambiato servizio di streaming musicale.
Dopo anni di utilizzo, ho disdetto il mio account Spotify Premium per approdare a Tidal e l’ho fatto sulla base di due principali ragioni, che adesso vado a spiegare nel dettaglio.
LA QUALITA’
Non ho mai dato troppo peso alla qualità del suono, quando si tratta di ascoltare musica. Non sono uno di quei fissati dell’impiantino a valvole, quelli del suono caldo del vinile. Ho sempre speso più del necessario per l’impianto audio della macchina, ma l’obbiettivo di massima era che suonasse forte, più che bene. La mia scarsa propensione alla qualità credo derivi essenzialmente dall’ascoltare musica la cui pulizia si piazza tra il rumore dei vicini che tassellano il muro la domenica alle 8:30 e il latrato dei cani, ma anche dall’essermi formato musicalmente ai tempi del walkmen e delle cassette duplicate ad oltranza, in cui il fruscio assurgeva a cifra stilistica. Non sono propriamente uno dall’orecchio fino ed esigente, quindi.
E infatti, a riprova, anni di .mp3 e streaming di qualità infima sono riusciti a farmi sprofondare in una palude di suoni brutti e impastati, che per qualche ragione ho iniziato a considerare come standard anche per dischi che avevo consumato prima della rivoluzione digitale, ma che non ho più avuto modo di ascoltare se non in forma compressa. Questo perchè io sono anche quello che colleziona CD, ma che è stato per anni senza uno strumento capace di farli suonare, per dire. Presa coscienza che la playstation non supportasse più il formato ho comprato un lettore CD per casa, ma lo uso pochissimo, preferendo sempre la comodità dello streaming anche su un dispositivo acquistato all’unico scopo di riprodurre il supporto fisico. Stavo bene così, non avevo letteralmente percezione del problema.
Poi tempo fa ho comprato un disco dei Deafheaven, l’ho messo in auto dopo giorni passati ad ascoltare la sua versione streaming e mi si è aperto un mondo. Ho sempre impostato la qualità dello streaming Spotify al massimo delle sue potenzialità, ma effettivamente anche così resta lontanissima dalla qualità audio del supporto fisico digitale. Quando lo realizzi, è come vedere i fili in un trucco di magia, non riesci a tornare indietro tanto facilmente.
Tidal, nel suo pacchetto base, offre la qualità CD senza compressioni e perdita di dati. Con l’ormai accessibilissima possibilità di connessione 4G a consumo illimitato, non ha davvero senso accontentarsi di qualcosa di meno, visto che la differenza la sento pure io. (ref.)
L’ETICA
Lo dico subito, non mi sono messo a boicottare Spotify per via delle cose che ospita, come fossi un Neil Young qualsiasi. Volendo anzi dire due parole sull’argomento, io sono tra quelli che è felice certa roba esecrabile stia in bella vista su Spotify, per una serie di ragioni che vado ad elencare:
1) Non sono del parere che Hitler abbia diritto di fare un podcast, ma trovo molto importante sapere che se Hitler facesse un podcast lo ascolterebbero X milioni di persone. Ho questa idea che nel 2022 sia utopico sperare che chi ha idee dannose non trovi un modo ed un posto per portarle all’attenzione del prossimo, quindi meglio sia una piattaforma nota a farlo, così che si possa avere anche un quadro della portata del problema. Qualsiasi idiozia trova un buon numero di supporter se esposta al mondo intero, ma quantificare quel buon numero è fondamentale per avere una percezione chiara del mondo in cui viviamo ed evitare di farci fuorviare dalle bolle in cui ci nascondiamo ogni giorno.
2) Una piattaforma come Spotify può offrire alternative al podcast di Hitler, metterlo in competizione con altri contenuti ed evitare che chi ci finisce dentro per curiosità ci resti per assenza di metro valutativo. So benissimo che in questa dinamica pesano le scelte che Spotify fa in termini di “spinta” a questo o quel prodotto, che non è un contenitore neutro, ma è (credo) sbagliato pensare queste scelte arrivino su base ideologica e non economica. Spotify spinge quel che fa ascolti, non quel che sposa a livello contenutistico. Di conseguenza, l’idea dovrebbe essere fare una roba opposta a quella di Hitler e farla meglio di Hitler, muovendo gli ascolti di quelli a cui non va tanto bene la linea di Hitler, in modo da invogliare la piattaforma a puntarci sopra. Hitler non sarà l’unico in grado di fare un podcast con numeri grossi, no? Se lo fosse, direi che il problema andrebbe ampiamente oltre Spotify. Non so, posta l’ineluttabilità del libero mercato che definisce il campo da gioco, secondo me conviene che anche i buoni si mettano a giocare invece di lasciare la partita ai cattivi.
Mi è scivolato un pistolotto non necessario, sorry.
Tornando al punto di partenza, la ragione etica per cui ho preferito lasciare Spotify è la retribuzione degli artisti. C’è tutta una polemica intorno al fatto che i servizi di streaming non paghino a sufficienza chi fa musica, una polemica in cui fatico ad entrare e su cui ho posizioni probabilmente troppo superficiali (eh, invece di solito…). Quel che conta è che nel momento in cui decido di spendere 10 euro al mese per ascoltare musica online, preferisco farlo abbonandomi a chi paga di più gli artisti. Tidal in questo è largamente meglio di Spotify, già con l’abbonamento “base” paga tre volte meglio, fino ad avere una politica imparagonabile ai competitor quando si sceglie l’abbonamento plus. (ref. e ref.)
Sulla base di queste due ragioni, non nego anche spinto da un influencer, ho fatto il salto.
Il costo del mio abbonamento rimane il medesimo, 9,99 euro/mese, e permette di collegare all’account fino a 5 dispositivi.
E QUINDI COM’E’ STO TIDAL?
Se della qualità ho già detto, il secondo punto nodale che ho valutato prima di cambiare è ovviamente relativo al catalogo.
Al primo impatto, mi è sembrato che su Tidal mancasse un sacco della musica che ascolto e questo mi aveva frenato dall’approfondire. Smanettandoci invece è venuto fuori che c’è grossomodo tutto quello che avevo su Spotify, solo è molto più complesso da trovare a causa di una ricerca interna fatta con il culo. Spannometricamente, in un caso su 20 l’artista non mi è saltato fuori cercandolo per nome, neanche filtrando la ricerca per artista. In quei casi sono riuscito a rimediare cercando un disco specifico, magari qualcosa con un titolo non troppo ordinario, e arrivandoci da lì. In alcuni di questi casi, fallendo anche con il disco, ci sono arrivato da una canzone. Non è sempre necessario farsi tutto questo sbattimento, ovviamente, per trovare quel che si vuole sentire, però potrebbe esserlo, soprattutto nel caso di artisti non propriamente mainstream. Una cosa che si può fare tuttavia è marcare i musicisti che si ascoltano come preferiti, quindi una volta trovati è sufficiente ricercarli in quella sotto lista le volte successive, eliminando la difficoltà.
Altro problema che ho riscontrato è che a volte piccoli gruppi poco conosciuti hanno degli omonimi e ci si ritrova quindi per le mani una discografia mista, fatta di album di gruppi diversi che per Tidal sono invece lo stesso. Non è particolarmente noioso, a meno che si abbia attiva l’opzione per cui al termine di un disco viene riprodotto in automatico quello seguente. Per quanto concerne il mio catalogo di ascolti, si tratta anche in questo caso di una percentuale minima, ma è giusto segnalare la cosa.
Al momento, l’unica roba che mi pare proprio non ci sia e che mi piacerebbe ci fosse è “Amateurs & Professionals” dei Penfold, che invece era presente su Spotify. Si tratta di un disco introvabile anche in formato fisico, di una band emocore durata pochissimo e conosciuta meno, quindi non mi stupisce troppo la mancanza. Per il resto invece, quel che per ragioni di etichetta/territorio/altro non è disponibile in Tidal non lo era neanche in Spotify.
La pecca che per me è davvero dura da digerire al momento, invece, è l’impossibilità di personalizzare la copertina delle playlist, che viene automaticamente assemblata dal software come collage delle copertine dei dischi di cui la playlist è composta. Da maniaco ossessivo, quando faccio una playlist ci butto davvero il sangue e mi piace gestirne ogni dettaglio, dalla selezione, alla scaletta ad appunto la copertina. Per me è una mancanza gigante, ma avendo questa recensione un target non per forza mentalmente disturbato come chi scrive, la riporto tra i “minor issues”.
Per il resto al momento la valutazione è largamente positiva: la app mi pare completamente analoga a quella di Spotify nell’utilizzo e nella navigazione, anche in auto. Mancano forse le finezze più social, ma non ne ho mai sentito l’esigenza neanche quando le avevo a disposizione.
Consiglio quindi caldamente il cambio a chiunque paghi per ascoltare musica in streaming, ne vale a mio avviso la pena.
Per chiudere, provo ad incorporare un disco nel blog giusto per vedere l’effetto che fa e come si presenta a chi non ha l’abbonamento al servizio.
Uso un disco senza senso a cui sono finito completamente sotto negli ultimi giorni, ma di cui forse scriverò più avanti. Schiacciare play aiuta a farsi un’idea più centrata di quel che ho definito “musica la cui pulizia si piazza tra il rumore dei vicini che tassellano il muro la domenica alle 8:30 e il latrato dei cani” qualche riga più su.