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2020

Marco Crepaldi

Avevo deciso di lasciar passare la questione Marco Crepaldi senza metterci becco perché online “litigo” già abbastanza di mio sul tema della parità di genere, ma poi ho scoperto che lui è uno dei ragazzi di Dunkest e quindi ho deciso di approfondire.
Per iniziare quindi sono andato a vedermi il suo video:

A questo video sono seguiti, come forse ipotizzabile, una catena di eventi: critiche da un lato e campagne di supporto dall’altro che presto, se non subito, sono diventate insulti e benzina nello scenario della guerra tra sessi di cui ancora tantissima gente sente il bisogno.
Ora quindi mi prendo uno spazio per dire la mia.

Non credo sia un segreto la mia visione non sia tanto distante da quella di Marco. Un dilagante senso di avversione generalizzato verso il genere maschile esiste e sui social è abbastanza palpabile. Viene fuori ogni volta che si vira sull’argomento “parità di genere”, ma ormai è facile imbattercisi anche fuori contesto, se ammettiamo ci sia un contesto dove è lecito aspettarselo.
Uno degli ultimi tweet di questo tipo con cui ho interagito personalmente è questo:

Una generalizzazione a cazzo di cane che con bersaglio l’altro sesso (o un’etnia) farebbe quantomeno storcere il naso, ma che in questo caso dovremmo farci andar bene sulla base del fatto che “il sessismo nei confronti degli uomini non esiste“. Quando leggo cose di questo tipo, generalmente, mi incazzo, ma non per il motivo che si potrebbe pensare.
Non mi pesa il giudizio su di me, mi pesa il fatto che provando a mettere in discussione generalizzazioni di questo tipo si finisce per doversi smarcare da accuse di servilismo verso il patriarcato o di maschilismo proattivo, trattati alla stregua di chi vorrebbe la donna unicamente come oggetto sessuale o di cura domestica. Sono più che disposto ad essere attaccato per quel che penso e dico, decisamente meno per le generalizzazioni che da quel che penso e dico possono scaturire in chi ascolta e ancora meno per il semplice fatto di essere nato maschio. La vivo talmente male che quando sono in argomento ormai mi sento costretto ogni volta a mille precisazioni e distinguo, volti unicamente a tenere il punto circoscritto all’opinione specifica e non allo spettro di possibili deduzioni sbagliate che dall’opinione potrebbero scaturire. Il risultato è che chi mi legge pensa che mi stia giustificando, che stia mettendo le mani avanti stile “non sono maschilista, MA…”.
Ecco, il primo concetto che vorrei passasse da questo post è che forse quel che c’è prima del MA non conta, ma certamente conta quel che c’è dopo quindi sarebbe meglio prestare attenzione e valutare se davvero elimini il NON o semplicemente provi a spostare il discorso su un livello meno banale o assoluto.

L’integralismo a cui faccio riferimento poi ha l’aggravante di andare a singhiozzo, almeno sui social. Non posso avere un’opinione sulla questione delle donne che combattono il patriarcato non depilandosi* perché “sono uomo e non posso capire”, ma non mi è mai ancora successo di intervenire in una discussione sulla parità di genere sostenendo le parti “femministe” e venire trattato nello stesso modo. La mia opinione non è rilevante solo quando è disallineata.
Qui arriva il secondo punto che mi preme mettere in questo post. A me le persone che pensano si debba essere parte di una minoranza afflitta per comprenderne le ragioni spaventano. Dimostrano non solo assenza di empatia, ma anche un tremendo egoismo. Io sono piuttosto felice di espormi in favore di qualcuno che ha problemi che io non ho e non credo che non avere un problema equivalga a non poterlo comprendere. Certo da fuori posso necessitare di una guida o di spunti che potrei effettivamente non considerare dal mio punto di partenza, ma in quel caso vorrei me li si spiegasse invece di dirmi che non ho voce in capitolo.
L’impressione che ho, nella mia bolla social, è che le posizioni si stiano radicalizzando. Forse è una risposta al dilagare delle destre o del fronte populista, probabilmente anche io sono più netto di qualche anno fa nel rimarcare cosa sta dalla parte del giusto e cosa no, ma mi pare che la conseguenza principale di questo fenomeno sia che una mega guerra fratricida in cui spendiamo più tempo a fare la punta al cazzo di chi non è abbastanza dalla nostra parte rispetto a quello che investiamo nel fronteggiare chi sta dall’altra. Ci chiudiamo in un recinto in cui tutto ciò che non è perfettamente sovrapponibile a noi sta fuori e va osteggiato nello stesso modo e con la stessa forza. E’ una roba che non capisco e non mi piace, forse perchè la cosa del “Molti nemici, molto onore” mi ha sempre fatto cagare.

Arriviamo adesso a quello che forse mi separa da Marco. Ha senso farsi promotori di una campagna come quella che ha provato a portare avanti lui, nell’ambiente in cui ha provato a portarla avanti lui? Non lo so.
Come detto, io per primo non perdo occasione di infilarmi in quelle discussioni ogni volta che posso e provare a veicolare il messaggio, ma continuo a pensare che le proporzioni del fenomeno non siano tali da renderlo pericoloso quanto lui suggerisce. Per me si tratta più che altro di dare la sveglia a chi passa il limite, lui ne fa argomento di studio e da quel che dice siamo già andati oltre i “pochi casi isolati” e siamo saltati a piedi pari nel “Fenomeno in espansione”. Non ho strumenti per contraddirlo, però anche fosse: è davvero lecito parlare del problema oggi, in Italia? Ovviamente è sempre lecito parlarne, diciamo allora “legittimo”. Diciamo che se non posso comprendere o tollerare gli insulti che gli hanno rivolto, posso comprendere il ragionamento alla base per cui lamentarsi della misandria possa risultare “irrispettoso” in un ambiente in cui la misoginia è un problema decisamente più presente, radicato ed allarmante.
Lui dice chiaramente: “Non stiamo facendo una gara al problema più grave” ed ha ragione, però credo sia anche questione di sensibilità.
Io credo che chi in Italia è in cassa integrazione da Marzo e fatica ad arrivare a fine mese abbia un problema reale e concreto, ma forse non troverei corretto da parte sua lamentarsene al centro di un villaggio africano in cui le persone mangiano due volte a settimana. Non lo so, magari la differenza tra quel che fa lui e quel che faccio io è solo nella mia testa, può essere, ma io ancora la vedo.

Concludendo, a conti fatti questo fenomeno non è altro che una manifestazione tra le tante di quella che in sociologia è nota come Legge Juvenuts:

Una larga maggioranza dei tifosi non juventini non auspica un calcio più equo, vorrebbe solo che la sua squadra, un giorno, diventasse la Juve.


* Ovviamente ho un’opinione in merito alle donne che combattono il patriarcato non depilandosi e sono ben felice di illustrarla: facciano come vogliono, ovviamente.
Tuttavia non serve un genio per comprendere che il patriarcato può aver anche influenzato i canoni di bellezza estetica alle donne verso standard tossici, MA:
1) depilarsi non credo rientri in questi standard essendo di fatto accessibile a TUTTE senza limitazioni fisiche, metaboliche, ecc.
2) tutti quotidianamente siamo sottoposti a pressione sociale per le nostre apparenze, non solo le donne. La libertà di una donna di andare in giro coi peli sotto le ascelle è la stessa che ho io di farmi i capelli fucsia come a diciannove anni. Nessuno ce lo vieta, ma se abbiamo più di diciannove anni capiamo che per quanto formalmente insindacabile sia il nostro diritto, la società non ci permette di esercitarlo e farne una battaglia forse rientra nel focalizzarsi sulle stronzate che non sono propriamente il first world problem, col rischio concreto di far perdere di significato tutta la battaglia agli occhi di chi già era scettico di suo. Tipo: se il problema della parità di genere sono i peli delle ascelle, la parità di genere non è un problema. Lo so, è un ragionamento limitato, ma stiamo parlando di chi ha problemi nel vedere le disuguaglianze di genere, ci aspettiamo qualcosa di meglio? Forse prima sarebbe il caso di prioritizzare (altro concetto che sopra i diciannove anni dovremmo tutti essere in grado di comprendere) e portare la percezione di disuguaglianza alla popolazione nel suo complesso, usando esempi ben più significativi.
3) Il problema alla fine si riduce comunque al fatto che noi uomini, in realtà, di pressione sociale non ne facciamo manco un po’ verso i canoni estetici, perchè alla fine nessuno rinuncerà mai a una sco*ata per quattro peli (per quanto disgustosi) e questo è l’unico motivo reale per cui la situazione è ancora in discussione e non è morta immediatamente. Checchè leggiate in giro “Non ho bisogno di piacere agli uomini, mi tengo i peli” la realtà è che se coi peli avessero la certezza di non piacere più a nessuno, starebbero in coda dall’estetista per la definitiva.
Col punto 3 forse vi sto trollando.

La mossa Kansas City

Quasi quindici anni fa è uscito un film che si intitola “Slevin”. E’ un gran film, secondo me, con due pregi su tutti:
1) La miglior Lucy Liu di sempre. Non in termini interpretativi, semplicemente figa come mai prima e mai dopo nella sua vita.
2) La definizione di Kansas City Shuffle, ovvero della “mossa Kansas City”.
Su youtube c’è lo spezzone del film in cui il sempre maestoso Bruce Willis spiega cosa sia la mossa Kansas City, ma è uno SPOILER bello grosso quindi se non avete visto “Slevin” non schiacciate play, che tanto ve la spiego io più in basso.
Ovviamente (altro SPOILER) non sarà la stessa cosa.

La mossa Kansas City è quando qualcuno ti porta a guardare a destra per distrarti da quel che sta facendo a sinistra e, come dice Bruce ad inizio film, colpisce chi non vuol sentire.

In questo periodo di COVID19, zone rosse e distanziamento sociale, la mossa Kansas City è quella che stanno portando avanti in massa tutti i più rilevanti esponenti dell’informazione del nostro Paese che, prima coi runner e oggi con la movida, catalizzano l’opinione pubblica verso facili capri espiatori su cui far convergere il risentimento ed il fastidio della popolazione, che è fermamente convinta si ammalerà per via dei ragazzi che fanno l’aperitivo e non per l’aver dovuto continuare a prendere i mezzi affollati per recarsi in un posto di lavoro dove DPI e misure di distanziamento sono stati introdotti, se sono stati introdotti, con almeno due mesi di ritardo e senza verifiche.
Perchè ricordiamolo, abbiamo i droni per inseguire le persone in spiaggia, ma guai a chiedere la verifica della sicurezza sui posti di lavoro. Non ci sono certamente le risorse per farlo.
Da quando questa situazione è iniziata ho discusso varie volte e con varie persone di come il lavoro non sia, a mio modesto avviso, incompatibile con il blocco dei contagi. Alla fine il COVID19 è un virus abbastanza facile da limitare: mascherine, distanze, igiene personale e le possibilità di contrarlo crollano di moltissimo. Con un minimo di raziocinio iniziale si sarebbe potuto evitare di spaventare le persone oltre il necessario, invece la caccia alla notizia, al paziente zero e alla conta dei morti ha creato il panico incontenibile nella popolazione che, giustamente, ha iniziato ad avere paura di uscire di casa.
Questa cosa però mal si abbina alla necessità (purtroppo innegabile) di continuare a produrre e, di conseguenza, di lavorare. E così si è cercato di correre ai ripari. Come? Ovviamente NON costruendo un dibattito sulla possibilità di lavorare in sicurezza (lo so, l’ho già detto).
Il primo tentativo è stato quello di fare retromarcia.
La stampa ha provato a dire che non ci fosse nulla da temere, che non fosse il caso di panicare. Tipo così. Vi faccio notare l’incipit di questo articolo: “Superata la prima crisi di panico che ha portato molti cittadini ad assaltare i supermercati nelle giornate di domenica 23, lunedì 24 e martedì 25, l’Italia sembra aver ritrovato la propria calma.“. Ovviamente i responsabili della paura fuori controllo sono i cittadini, che da soli di punto in bianco hanno deciso che fosse il caso di assaltare gli ipermercati. Ci siamo arrivati tutti insieme, simultaneamente, ma senza nessun tipo di influenza esterna. E’ che abbiamo una mente alveare.
Purtroppo però per fare retromarcia era tardi: si andava verso il momento più drammatico dell’epidemia italiana e la politica stava già visibilmente brancolando nel buio cercando di rifilare colpi a cerchio e botte tra lockdown sempre più restrittivi per i cittadini e salvaguardie sempre meno chiare per le attività produttive. Erano i giorni in cui il dibattito online sembrava tutto incentrato sul definire cosa fosse essenziale e cosa no, senza nessuno che parlasse di norme di sicurezza (lo so, sono un disco rotto).
Con Confindustria in costante pressing per la riapertura, iniziato praticamente da prima di chiudere, era necessario creare una nuova narrazione ed è qui che la stampa nostrana ha iniziato a lavorare sulla mossa Kansas City.
Prima i runner, poi i Navigli ed ora la più generica “movida“.
Più in generale, un assalto frontale ai giovani che, come sempre, sono causa di qualsiasi problema (NdM: lo scrive uno che giovane non è), ma che soprattutto adesso sono evidentemente una popolazione diversa da chi acquista, clicca ed eventualmente finanzia i giornali di cui sopra. Casualmente.
Non è che ci si sia inventati niente di nuovo, in periodi di crisi è abbastanza standard veicolare il disagio delle persone verso un bersaglio e non fa differenza se siano gli ebrei, i meridionali, gli immigrati o gli aperitivers: funziona sempre nello stesso modo. E infatti, anche in questo caso, siamo arrivati alle ronde su base volontaria. Con la Serie A ferma, d’altra parte, qualcuno sentiva la mancanza delle squadre.

E il lavoro? Non si parla di eventuali rischi legati alla ripresa grossomodo totale del lavoro?
Certo, qui un esempio tratto dal Corriere della Sera:

Il lavoro non c’entra nulla con i contagi perchè prendendo dati arbitrari ed interpretandoli a cazzo di cane diventa evidente che sia più pericoloso starsene in casa che non andare al lavoro.
Dove, ribadiamolo, tutte le aziende hanno messo in atto al millimetro ogni possibile azione preventiva e di sicurezza, ne siamo talmente certi che non è neanche necessario verificare. L’assunto tanto è che chi fa impresa è gente coscienziosa, mica come chi fa l’aperitivo.
Ed è giusto ribadirla questa cosa, a costo di assumere delle persone e pagarle perchè infrangano di proposito ogni regola esponendosi ad eventuali contagi in modo da girarci uno spot volto a sensibilizzare. Dove sensibilizzare è più che altro stigmatizzare.
Così mentre le persone deputate alla nostra sicurezza e salvaguardia se ne vanno in TV a delirare sul concetto di R0 ed Rt, riaprono le celebrazioni religiose tanto care alla porzione di popolazione più a rischio (cosa potrà mai andare storto?) e continui a non esserci mezzo piano per la collocazione dei bambini nemmeno ora che papà e mamme sono costretti a tornare al lavoro, noi possiamo tranquillamente guardare altrove e focalizzare i nostri travasi di bile verso chi si beve uno spritz.
Notate: quella di Gallera è una gaffe, una strana teoria, mentre per chi va a bersi una birra serve la tolleranza zero.
Che peso vuoi che abbiano le parole nel giornalismo?

Se ho fatto questa lunga, lunghissima sfilza di esempi è solo per dire che non abboccare a questa mossa Kansas City è possibile.
Dire: “Eh, ma se apri i bar e i ristoranti e non pensi che poi la gente ci vada sei scemo…” è sbagliato perchè implicitamente alleggerisce le responsabilità di chi ha preso questa decisione, che poverino non ci ha pensato, e le carica sulle spalle di chi l’ha messa in atto, secondo l’assurdo principio per cui “se riaprono i bar non vuol dire che ci si debba andare per forza”.
Non sono stupidi, tanto meno ingenui.
Stanno solo costruendo un alibi.
Ed è un alibi di ferro perchè, senza tracciabilità dei contagi, nessuno avrà mai la prova non sia stata colpa dei maledetti runner.

La fase 2

A Brugherio c’è una panchina.
È in via XXV Aprile, di fronte a casa dei miei e a pochi metri da un parcheggio. Per almeno 15 anni è stato il centro pulsante della mia esistenza, il punto da cui tutto partiva e dove tutto succedeva, anche quando non succedeva niente.
Ci si trovava lì tutte le sere, ma in settimana non era un semplice punto di ritrovo, era la meta ultima. Ci si accampava con qualche birra portata da casa e si faceva serata. Spesso saltava fuori un pallone e si giocava a centrare il lampione del parcheggio fino a che la buon’anima della Dirce usciva dal cancello a dirci che avevamo rotto il cazzo. Una disciplina innegabilmente affascinante la cui federazione, denominata FICP*, contava purtroppo solo una decina di iscritti. Noi.
Per quasi un anno siamo andati a sradicare il cestino dell’immondizia della piazzetta 500 metri avanti per portarlo alla panca, così da avere un modo comodo per buttare i rifiuti. Noi lo portavamo lì e il comune lo rimetteva a posto, una sorta di guerra fredda conclusasi con l’installazione di un secondo cestino dove noi lo volevamo. L’atto politico più rilevante della mia vita.

Oggi alle 21.30 sono arrivato alla panca in macchina, come facevo negli ultimi anni in cui ci si trovava lì e non avevo più la fortuna di viverci di fronte e poterci andare a piedi. La vista delle auto parcheggiate in fila mi ha scaraventato indietro nel tempo.
In macchina avevo un paio di birre fredde e un apri bottiglie. Vent’anni fa non avrei mai dovuto portarmelo perché:
1) avevo sempre con me, appeso al portachiavi, l’apribottiglie di mio nonno. “Cantina sociale gonzaga” scritto sopra a lettere cubitali. Insieme alle chiavi di casa è rimasto da qualche parte in Francia durante una vacanza e forse è stato meglio così, non rimpiango il non aver dovuto ammettere non fosse più il caso di averlo appeso al passante dei jeans ogni santo giorno.
2) sapevo aprire una birra con letteralmente qualsiasi cosa. Avrei potuto tentare anche sta sera, ma non avrei retto il fallimento.
Avevo anche un pallone, nonostante uscendo il cielo fosse solcato da lampi minacciosissimi. Prendere l’acqua è qualcosa che ho messo in conto senza remore: k-way sul sedile passeggero e via andare, non sarebbe certamente stata la prima volta.
Pian piano sono arrivati tutti, mascherine e distanziamento come diktat, ma simultaneamente la ferma convinzione di dover celebrare questo 18 Maggio 2020.
Il giorno in cui si può tornare a vedere gli amici.
Non credo avessi bisogno di questa epidemia di merda per realizzare quanto siano importanti per me, ma certamente il COVID ha aiutato a mettere in prospettiva le volte in cui mi è pesato il culo buttarmi in macchina per uscirci insieme quando nulla mi vietasse o impedisse di farlo.
“Ti rendi conto delle cose importanti solo quando le perdi” è una frase abbastanza del cazzo, ma è vero che certe rinunce si fanno spesso dando per scontate cose che scontate non sono.
Chiudendo subito questa possibile deriva riflessivo/filosofica mi concentrerei sul fatto che è stata serata bellissima, di cui avevo sicuramente bisogno.
Dubito sia vero che i 40 siano i nuovi 20, ma per una volta fare a 39 quello che facevo a 19 non è risultato strano o fuori luogo. Solo bello.
Alla fine abbiamo pure giocato a colpire il lampione e Max ha sparato la palla sul tetto della palestra come vuole la tradizione.
Il trofeo, oggi intitolato alla memoria della Dirce in segno di rispetto, è rimasto inassegnato.
Toccherà riprovarci settimana prossima.

* Federazione Italiana Centra il Palo

Diario dall’isolamento: day 57

E quindi eccoci alla fine, domani è il 4 Maggio 2020 e si conclude ufficialmente il lockdown in casa Manq.
L’isolamento finisce esattamente come era iniziato, con un decreto lacunoso ed interpretabile che per noi, popolo di pirati, risulterá più che altro una traccia. Con la fine della quarantena finisce anche questo mio diario giornaliero. Non credo di smettere del tutto di scrivere di questa situazione, ma farlo ad appuntamenti quotidiani credo non abbia più senso (se mai ne ha avuto). Da domani si torna in ufficio, si possono rivedere i propri cari. Pian piano si proverà ad iniziare una convivenza forzata con questo maledetto virus e sarà un casino, per qualcuno purtroppo ben peggiore di quanto sia stato fino ad ora, ma ho l’impressione che indietro non si tornerà, indipendentemente da come andranno le cose. Da domani faremo solo passi avanti verso la nostra vita normale. Forse ci vorranno un paio di mesi, magari molto di più, ma io credo che sarà una strada a senso unico.
Fa paura, come scenario, ma forse dá anche la speranza e la carica giuste per arrivare in fondo, auspicando che ci dica bene e che la farmacologia ci venga incontro nel più breve tempo possibile.
Sono stati 57 giorni complicatissimi, mentalmente devastanti, ma forse ciò che segna la data di domani va oltre le reali differenze di restrizioni tra Fase 1 e Fase 2. Se saremo furbi la vivremo soprattutto come il primo scatto mentale verso la rinascita. Togliersi la tuta o il pigiama ed infilarsi dei vestiti normali, iniziare a darsi degli obbiettivi.
Io, ad esempio, ho tre chili abbondanti da buttare giù.

Quest’anno è proprio il caso di dirlo: May the 4th be with you.

Diario dall’isolamento: day 56

Oggi pomeriggio il Dany ha fatto un concertino acustico suonando i pezzi dei Murder, We Wrote.
Me lo sono guardato insieme ad una trentina di irriducibili in diretta su Facebook ed è stato stra bello cantare tutti i pezzi come fossi stato sotto al palco. Potrei fare il romanticone dicendo che le so ancora tutte a memoria, ma la realtà è che i Murder li riascolto ciclicamente e quindi sapere ancora i pezzi non è poi questa impresa.
A mio insindacabile giudizio i MWW sono stati la cosa migliore successa all’hardcore melodico nel nostro Paese.
Oggi Dani diceva che il Demo ha compiuto 20 anni in questi giorni. Ricordo che la sera in cui uscì suonavano all’ARCI di Arcore, ma i miei amici avevano organizzato un ICQ party al Rainbow per conoscersi tra gente con cui si stava in chat.
Ricordo che presi la mia Y10 pervinca e andai all’ARCI a comprare il demo senza poter restare a sentirli (a conti fatti uno dei pochissimi loro concerti che ho perso, non saranno più di 5), prima di schizzare a Milano sparandoli in auto a volume disumano. Poi a quella festa ci divertimmo un botto e conobbi un tot di gente.
Era la primavera della maturità e della gita a Monaco. Avevo diciannove cazzo di anni. La cassetta del demo ce l’ho ancora ed è uno dei miei dischi della vita.
Il video della diretta intera lo si può vedere qui, io sotto metto una delle mie preferite nella versione originale.

Diario dall’isolamento: day 55

Oggi con gli amici abbiamo fatto un contest di ribbs all’americana.
Siamo stati connessi su Zoom per otto ore di fila, cucinando e cazzeggiando mentre provavamo a domare uno dei mostri sacri del bbq a stelle e striscie.
Alla fine ho portato a casa un gran bel risultato e questa volta non ho davvero recriminazioni: ho fatto le migliori ribbs che avessi mai assaggiato. Se interessa, su twitter ho postato tutte le fasi della preparazione ed è stato davvero un lavoro gigante. Vale la pena? Probabilmebte no, se l’obbiettivo è fare da mangiare. Sia perché ci sono posti in zona che le fanno molto buone (anche se non così buone) a sbattimento zero, sia perché se devo scegliere una preparazione lunga al bbq scelgo tutta la vita il pulled pork.
Se invece l’obbiettivo è passare una giornata diversa con gli amici, beh allora vale la pena sempre e soprattutto in un momento come questo.
E infatti sabato prossimo si replica, probabilmente con un mexican contest.
Que viva mexico!

Diario dall’isolamento: day 54

Le mie domande di ieri non hanno avuto risposta. Peccato.
Oggi però Nature ha pubblicato uno studio che vede la presenza di anticorpi contro COVID19 nella totalità dei pazienti in esame. Lo si legge qui.
E’ una bella notizia perchè questo implica la totale attendibilità dei test sierologici, ma soprattutto perchè se questi anticorpi hanno un’azione protettiva (cosa ancora da chiarire) chi si è preso l’infezione non la può prendere una seconda volta, almeno nella finestra di tempo in cui è coperto. E questo è uno dei principi dell’immunità di gregge.
Possiamo dire che finalmente è arrivata una bella notizia.

Altre notizie dal fronte non ne ho. Mi sono guardato i primi sette episodi di Mandalorian ed è davvero molto carina, così come la prima metà della prima stagione di Justified.
Siccome questo post ha tutto sommato un tiro positivo è giusto chiuderlo con un pezzo SKA che lo rovini irrimediabilmente.
Nota di colore: sto pezzo ha almeno vent’anni, però del video c’è anche una versione recentissima e non ho idea del perchè. Io metto quello originale, ma se interessa (non credo) quella nuova sta qui e per qualche ragione che non voglio sapere si chiama SKA BRAVO VERSION.

Diario dall’isolamento: day 53

Oggi sono entrato in contatto con l’informazione secondo cui esistono casi ancora positivi dopo oltre 40 giorni dal primo tampone. E’ una cosa che probabilmente ormai sapete tutti, ma che nel guscio in cui sto in qualche modo cercando di chiudermi per convincermi che #AndràTuttoBene non era ancora trapelata.
Quaranta giorni sono un’infinità e viene abbastanza da sè che questo rende piuttosto drammatiche le previsioni per questa benedetta fase 2 prima ancora che inizi.
Però.
Però se ricordo bene dai miei studi passati un peso sull’infettività è dato dalla carica virale, ovvero da quanto virus c’è nell’individuo. I test di biologia molecolare che rilevano il virus sono ultra sensibili perchè basati sull’amplificazione. Spiego: diciamo che tu hai una molecola di virus nel tuo corpo, il test la amplifica nella provetta fino a che diventano abbastanza da essere “visibili” e poter quindi restituire un risultato misurabile che dica “Ehi, qui il virus c’è”. Ovviamente una molecola non basta, ma la sensibilità di un test di questo tipo è molto alta e permette quindi di verificare la presenza del virus anche quando è molto bassa. La domanda quindi è: se c’è una soglia di carica virale oltre cui si è infettivi e questa soglia è più alta dei limiti di sensibilità dei test, esistono pazienti positivi che però non sono infettivi?
Non lo so.
Ho girato la domanda su twitter a Burioni e alla Capua, da cui accetterei anche un “ma che cazzo dici”, purchè seguito dalla spiegazione di come stanno realmente le cose.
Mi piace pensare che le cose siano meglio di come appaiono, perchè altrimenti mi sdraio sui binari della MM2. Certo, se il mio dubbio avesse un fondamento, resta complicatissimo da sfruttare in termini concreti perchè:
1) Titolare un virus non so quanto sia semplice, ma immagino non sia lo standard degli attuali test diagnostici che credo restituiscano più che altro un Positivo/Negativo.
2) Se dopo 40 giorni la carica virale è sotto la soglia di infettività, non è detto ci resti. Credo.
Insomma, è credo l’unica volta in vita mia in cui rimpiango di non avere ricordi chiari di un esame che ho dato all’università.

Cambiando discorso, ho reinstallato Commandos: behind enemy lines. L’ho giusto aperto per controllare funzionasse e ad una prima occhiata posso solo dire che non me lo ricordavo così impestato.
Però gioco clamoroso.

Diario dall’isolamento: day 52

Tempo fa ho spiegato a Giorgio 123 Stella (che poi sarebbe 123 stai lá, lo sapete vero?). Ci abbiamo giocato un po’, ma qualcosa non gli piaceva e quindi mi ha detto: “Ti insegno io un gioco papá, si chiama Salta il canguro.
Allora tu ti metti da una parte e devi contare:
1 canguro
2 canguri
3 canguri
Poi gridi PALLA e ti giri.
Io intanto vengo da te saltando come un canguro e se quando ti giri non sono fermo devo ricominciare da capo.
Quando arrivo da te ti devo toccare e dire CANGUROTTO, così poi conto io e tu salti.”
Salta il canguro, che ovviamente è tutto un altro gioco rispetto a 123 Stella, è ormai sport ufficiale dei nostri pomeriggi post lavoro.

Diario dall’isolamento: day 51

Il nuovo decreto mi ha abbastanza fatto incazzare. Ieri sera stavo proprio svalvolando e oggi ho speso parecchio tempo a discuterne tra social e gruppi whatsapp.
Amarezza e frustrazione.
Una maggioranza che non esiste fuori dal parlamento, un premier simbolo di incompetenza che sperava di svangarla via liscia e si è invece trovato con la faccia indissolubilmebte associata alla più grande crisi del dopoguerra e un clima generale di confusione in cui l’unico messaggio che traspare è “stiamo fermi e speriamo che passi da sola”.
Oggi Giuditta Pini (non me ne voglia se mi accanisco con lei) scriveva un post poi modificato in cui sostanzialmente diceva di non sapere su che base il PD avesse deciso di appoggiare la richiesta della CEI riguardo le messe. Se non lo sa lei che è parlamentare, chi dovrebbe saperlo? Come si può votare un partito del genere?
Bisogna riportare le persone in chiesa e a vedere le partite prima che realizzino di stare bene anche senza Preti e Pallone, ma per il resto non ci sono non dico certezze, ma nemmeno idee in termini di diagnosi, contenimento e tracciabilità dell’infezione. Zero. Senza contare la questione bambini: facciamo tornare i genitori al lavoro e teniamo le scuole chiuse è un buon piano, ma ha delle implicazioni che andrebbero analizzate e andrebbe proposta una soluzione. Quel che capisco io è che l’idea del governo siano le babysitter (da lí il bonus). Posto ce ne sia davvero una per famiglia (ahahah) assumere una persona alla paga minima di 8 euro all’ora versandole i contributi si tradurrebbe in 3200 euro al mese da qui a Settembre, di cui posso recuperarne 600 una tantum grazie al sopra citato bonus. Mi conviene mettermi in aspettativa e non lavorare, visto che il mio stipendio è ben più basso.
Se l’obbiettivo è ripartire economicamente forse il governo non dovrebbe mettermi nella condizione di rinunciare al lavoro.
Potrei andare avanti ancora un tot a vomitare risentimento perché sono stanco, demotivato e con l’umore sotto i piedi.
Forse non c’è un modo più giusto di gestire queato Paese in questo momento, forse non ci sono persone più adeguate di quelle che abbiamo al timone. È possibile. Forse sbaglio io.
In ogni caso, non voglio più vedere o sentir nominare nessuno di quelli che oggi stanno nella stanza dei bottoni. Di conseguenza, credo che per me di tornare a votare se ne parlerà nel duemilamai.