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2016

#GiorgioGoesToHollywood

Alla fine ci siamo davvero andati, a Hollywood.
Siamo stati anche in un sacco di altri posti, macinando una roba come 4200 km in due settimane. Come sempre ho messo online la classica paginetta coi dettagli del viaggio e un album con le solite foto brutte (sto giro ancora più brutte perchè credo la mia macchina abbia un problema di autofocus).
Quello che mi andava di scrivere qui sopra però riguarda più il fatto che la California è grossomodo da vent’anni la mia personale Terra Promessa. Ci sono cresciuto io, idealizzando la west coast. Tutto ciò a cui tendevo, l’immaginario con cui ho vissuto la mia adolescenza e post adolescenza arriva da lì e poterci finalmente andare, seppur con colpevolissimo ritardo, per me è stata una roba importante e ovviamente carichissima di aspettative.
La cosa che più mi spaventava era che finirci a 35 anni da padre di famiglia mi facesse sentire vecchissimo o comunque fuori contesto.
L’ultimo giorno me ne stavo in bici sul lungomare che collega Venice a Santa Monica, Giorgio nel seggiolino dietro di me. Il sole, le palme, l’oceano. Ad un certo punto arrivo ad uno skate park, così mi fermo. In rampa tra gli altri c’è un ragazzino che stimo sui sei anni. Ovviamente alterna salti assurdi a cadute clamorose e un po’ tutti lì intorno tifano durissimo per lui, soprattutto due signori sulla quarantina. Un uomo e una donna che gli danno il cinque e gli scattano tonnellate di foto.
Vedo questa scena e non posso che pensare la California sia una figata anche quando hai quarant’anni e dei figli.
E’ stupido vero?
Temo di sì, ma penso anche chissenefrega.
Ho visto posti bellissimi, ma alla fine il cuore l’ho lasciato a San Diego, che non saprei descrivere se non come la città dello stare bene. E a me piace stare bene.
Mi piace da morire.

Ci sono persone che ci hanno seguiti durante il viaggio grazie all’hashtag del titolo. Tantissimi cuori per voi.
Ancora più cuori ai Galmotz per il supporto tecnico e logistico impagabile.
Record di cuori alla Polly che mi ha permesso di realizzare il sogno di una vita.

“…living in the perfect weather, spending time inside together
Hey, here’s to you, California…”

Allontana, astrai, nega. E dimentica.

Oggi ho scritto questa cosa:

La triste realtà è che a quello di Imagine hanno sparato in faccia.

Credo sia una metafora buona per la circostanza. Questo mondo non è destinato a veder vincere chi ci crede, chi ci spera o chi sogna di poterlo vedere migliore. Forse tra mille anni queste tragedie non succederanno più. Potrà essere perché l’umanità avrà altri problemi o forse perché i problemi non avranno più alcuna umanità da affliggere, io tuttavia credo dovrò conviverci per il resto dei miei giorni.
Non una grande prospettiva.
Tempo fa scrivevo che con me la strategia del terrore ha vinto, ma ho cambiato idea. Capita.
Oggi sono convinto il terrorismo non possa vincere e adesso vi spiego perché. È piuttosto semplice in realtà: la morte non l’hanno inventata loro.
L’uomo convive con la certezza di morire da sempre ed è una cosa che, a tutti, fa una paura fottuta. Il viverla meglio o peggio dipende solo da quanto uno sia capace di distrarsi. Di non pensarci. Siamo programmati per non pensarci, in realtà. Il nostro cervello ci lavora con costanza, crea separazione, distacco. E dimentica, molto in fretta grazie al cielo. Non fosse così, andare avanti sarebbe impossibile.
Quindi la lotta di chi cerca di farci vivere nella paura costante è persa in partenza. Possono solo spaventarci di tanto in tanto, ma se continueranno con questa frequenza é probabile anche quell’effetto vada a svanire. Il cancro fa molte più vittime ed è certamente un problema più vicino a ciascuno di noi di quanto lo siano gli attentati, statisticamente. Eppure ne parliamo meno e ne abbiamo meno paura. Esorcizziamo. Ci distraiamo. Neghiamo, inconsciamente.
Quello che è successo a Nizza mi ha sconvolto. Tempo fa ho scritto:

Diventi adulto quando smetti di avere paura per la tua vita ed inizi a preoccuparti per quella degli altri.

In quel caso non mi riferivo ad un figlio, ma avere un figlio questo concetto te lo tatua nel cuore.
Oggi leggendo di tutti quei bambini coinvolti nel massacro ho avuto un crollo, fisico e mentale, finendo sull’orlo di una crisi di panico, a tanto così dal piangere e vomitare. Non mi era mai successo. Ho cercato di leggere delle notizie evitando foto e video, ma è stato complesso. Ora non tornerò su quanto mi disgusti chi pubblica contenuti completamente non necessari alla cronaca di una tragedia, ne ho già parlato troppe volte. Penso che parte della mia indignazione razionale derivi dalla necessità irrazionale di non voler vedere per avere un particolare in meno da rimuovere dalla memoria. Credo sia il mio cervello che ottimizza le risorse.
Sui social è pieno di persone che oggi postano immagini di sdegno e commenti altisonanti su come siano tutti sconvolti sul momento, ma poi dimentichino tutti poco dopo. E’ vero e posso capire sia una cosa razionalmente deprecabile e disgustosa, ma è ciò che ci tiene vivi. E’ ciò che ci fa prendere i mezzi tutte le mattine, ciò che ci fa andare ai concerti o frequentare manifestazioni affollate. E’ il meccanismo che ci porta a mettere al mondo dei figli in una società in cui, potendo scegliere, non vorremmo stare noi per primi, con davanti un futuro che spaventa noi per primi.
Sta sera va così.
Rientrato dal lavoro ho abbracciato mio figlio più stretto del solito, poi sono uscito e mi son buttato in corpo tre birre.
Ora scrivo sul blog nel tentativo di fissare nel tempo emozioni che andranno svanendo domani o dopodomani, soppiantate da nuovi avvenimenti da vivere con più o meno distacco e poi rimuovere con più o meno fatica. L’esito però sarà sempre uguale: separazione, astrazione, negazione. In loop.
Poi scopri che tre giorni fa sul treno in puglia, oltre ad un tot di sconosciuti, è morta la sorella di una ragazza che conosci e, mentre ancora stai metabolizzando, ti dicono che tuo cognato è bloccato in aereoporto a Istanbul durante un colpo di stato.
Così, onestamente, inizia a diventare complicato.

Due giorni dopo

Non è che mi sia passata.
C’è un qualcosa, nelle partite della nazionale, che mi coinvolge ad un livello emotivo superiore. E’ sempre stato così, devo dire, ma negli ultimi dieci anni credo la cosa si sia ulteriormente inspessita a causa del doversi relazionare con un sacco di persone straniere, tutte ovviamente provenienti da Paesi che contano. Quelli civili, puliti, onesti, dove la gente è educata e i politici non sono corrotti. Non sono brutte persone, anzi, molti sono anche amici, però non possono fare a meno di farti sentire “sfortunato” quando ti parlano. C’è chi sa farlo meglio, in maniera più sottile, e chi invece per cultura riesce meno a velare il messaggio, ma in generale è una cosa abbastanza trasversale.
Io non sono mai stato nazionalista in senso stretto, però ho questa sorta di reazione protettiva nei confronti dell’Italia quando a parlarne sono gli stranieri. E’ un po’ come quando qualcuno di esterno alla compagnia dei miei amici si permette qualche commento poco carino su uno di loro. Di solito sono morose e mogli, non per forza di cose altrui. Io lo posso dire che ho degli amici imbecilli (<3) perchè me li sorbisco da trent’anni e li conosco bene. Altri non ne hanno il titolo.
Ecco, per l’Italia vale il medesimo discorso. La prendo sul personale.
Ora, lo so benissimo che cercare rivalsa nel calcio è quanto di più puerile, immaturo e illogico ci possa essere, però è qualcosa che mi viene dal cuore e che non riesco proprio a soffocare.
Italia vs. Germania è chiaramente l’apice di questo mio fervore, per ovvie ragioni insite per il 5% nel mio percorso di vita e per il 95% nella natura e nell’indole del popolo tedesco.

Non essendo interista, nella sconfitta non trovo particolare giovamento richiamando alla memoria i fasti del passato. Ho visto in giro gente che a poco dalla conclusione della partita pubblicava sui social la semifinale del 2006. Trovo la cosa piuttosto triste. Abbiamo perso. Gira il cazzo, tantissimo, ma è un risultato che ci portiamo a casa e che non si può discutere. Oltretutto crea un precedente.
I valori in campo, sabato sera, erano spropositatamente sbilanciati in favore dei nostri avversari. Se è stata la partita che è stata, se non abbiamo perso nei 90′ regolamentari, credo si debba ai meriti dei nostri ragazzi (su cui torno dopo), ma anche alla paura dei tedeschi. Paura legittima perchè, in fin dei conti, per loro incontrare l’Italia è sempre significato tornare a casa. Ecco quindi che, mio malgrado, tocca anche inquadrare in quest’ottica le dichiarazioni che hanno rilasciato a fine partita. Hanno parlato con l’euforia di chi fino a quell’ultimo rigore ha avuto paura di perdere ancora una volta. Poi certo, la loro simpatia riesce sempre a venir fuori prepotente, ma se li sentite arroganti non è per sicumera, ma per sollievo.
Il che non mi esime dal leggere certe dichiarazioni e pensare il più classico dei “Le vostre madri…”, ma quello è tutt’altro discorso.
Sta di fatto che ora che hanno vinto questa paura non ci sarà più, la prossima volta, e se i valori restano quelli attuali per noi credo possa solo essere peggio. Certo, prima o poi sarebbe dovuto succedere, ma siamo stati a tanto così perchè ancora una volta fosse poi.
Sono stati, ad onor del vero, perchè il merito è di questi qui.

Verrebbe facile mettersi a fare il giochino di dire “senza google, quanti ne riconosci?”. Potrebbe dare soddisfazioni persino dopo un mese di sovraesposizione mediatica, cosa che lascia facilmente intendere come fosse la situazione prima che il circo dell’europeo iniziasse.
L’armata Brancaleone.
Un gruppo costruito su una difesa fortissima, come da tradizione, con a supporto però la più bassa densità di talento mai vista in una nazionale italiana. Una squadra capace di azzerare ogni aspettativa e velleità anche solo leggendone la rosa. Questa analisi non è stata stravolta dai risultati ottenuti. Aver giocato bene, aver battuto la Spagna ed essersela giocata fino ai rigori coi campioni del Mondo non rende l’italia una squadra di talento. Quello che Conte è stato in grado di fare è cementare un gruppo e far diventare la sua idea di calcio una visione condivisa, una missione per cui dare tutto, dando ad ognuno degli scarsotti in rosa l’illusione di potersi redimere dalla propria condizione di “giocatore modesto” ed innalzarsi a “campione”. Credo Pellé sia l’esempio più eclatante, in tal senso.
Graziano Pellè ha trent’anni e non ha mai giocato nel calcio che conta. Mai. Nemmeno i suoi parenti più stretti possono pensare sia un fenomeno incompreso, un talento restato in ombra per via del destino cinico e baro. Eppure in questo europeo ha giocato in maniera superlativa. Io non vedevo un centravanti così dal vecchio millennio. Non si limitava a mettere giù la palla e difenderla, ma la giocava sempre. Sempre. Sponde, spizzate, per una volta c’era un centravanti capace non solo di accasciarsi reclamando una punizione atta a far salire la squadra (quello che per gli esperti è il metodo Gilardino, di cui Balotelli oggi è il più grande profeta in patria), ma di creare gioco con un tocco, anticipando il difensore e creando spazi. Un europeo da incorniciare, fino al rigore.
Anche se io per primo lo prenderei a frustate per quel rigore, è impossibile non vedere nel suo gesto di sfida a Neuer il tentativo, quantomai goffo, di dissimulare la paura vera che provava in quel momento, con nei piedi la palla di un 3-1 che sapeva di passaggio del turno. Non è un caso se, in partita, l’unico che si è preso la responsabilità di tirare un rigore pesantissimo è stato Bonucci.
Oggi sono tutti bravi a sfottere, l’ironia del web sempre più moderna piaga d’Egitto, ma non c’è davvero nulla da ridere.
Abbiamo perso con la Germania e a me, due giorni dopo, girano ancora i coglioni.

Hail to the king

Quest’anno non ho postato le mie previsioni sui playoff NBA, l’ormai celebre bracket. Voi, attenti lettori, ve ne sarete certamente accorti.
Oggi potrei quindi atteggiarmi a quello che l’aveva prevista questa vittoria dei Cavs, invece no. Io avrei detto Golden State.
Non solo all’inizio eh, quando la regular season si è chiusa 73-9 ed era logico aspettarsi una marcia altrettanto trionfale ai playoff, ma anche l’altro ieri, quando ormai di motivi per immaginarsela quantomeno combattuta ce n’erano diversi.
Tipo:

E invece io ho sempre creduto che Golden State avesse al massimo un problema di concentrazione, una tendenza a distrarsi e tirare i remi in barca con eccessiva facilità, che è sì una cosa grave, ma solo se non si è altrettanto pronti e decisi nel riaccendere la luce quando serve. Cosa che io pensavo nella baia sapessero fare a comando.
Questa illusione me l’ha probabilmente data la serie con OKC quando, sotto di 3 a 1, si sono semplicemente rimessi in riga e l’hanno porta a casa rigirando un risultato che, nella storia, non viene ribaltato con estrema frequenza (internet dice che è successo 10 volte su 234 serie, per dire). Ok, la partita forse più decisiva di quella finale di conference se l’è bevuta Westbrook con due perse sanguinose negli ultimi secondi, ma andando oltre l’episodio, che è pur sempre un episodio, resta una squadra che sotto 3 a 1 decide di rimetterla in riga e ci riesce in maniera direi convincente.
Questa è però solo l’ultima circostanza, a volerci pensare, in cui i Warriors hanno dato prova di potersi permettere rischi folli senza troppe controindicazioni. Pensiamo proprio alla regular season ed alla corsa al nuovo record di vittorie ogni epoca. A 5 partite dal termine i nostri fenomeni perdono alla Oracle contro i Timberwolves, squadra di talento e prospettiva, ma non proprio imbattibile per i campioni in carica. Nell’ottica di fare la storia, la 9a sconfitta era l’ultima che potessero permettersi e nelle ultime quattro partite gli restavano due scontri con i San Antonio Spurs, non solo detentori del secondo record di stagione, ma una delle squadre più temute e solide della lega. Spurs che, per metterci un ulteriore carico, fino a quel momento non avevano MAI perso in casa in tutta la RS.
Ricapitoliamo.
A 4 gare dal termine GS per battere il record che insegue da tutta una stagione è “obbligata” a vincere tutte le partite, compresi due scontri con SA di cui uno in Texas, dove gli Spurs non hanno mai perso. In quel momento ricordo che parlando con il BU dissi una roba come: “Per me Popovich sente l’odore del sangue” e continuo a credere fosse così. Il coach dei texani non è uno che da troppa importanza alle singole partite della stagione regolare, ma l’occasione di spezzare il record ai propri avversari diretti per la corsa alle Finals era davvero troppo ghiotta. Fallire il bersaglio ad un metro dal traguardo è qualcosa da cui psicologicamente non ti riprendi così in fretta. Sarebbe potuta essere una chiave di svolta della stagione. Dimostrarsi capaci di fermare la squadra che per tutti ormai era “unstoppable”.
Ecco, invece ciccia. Curry e soci han vinto tutte e quattro le partite, comprese le due con San Antonio. In casa, ma soprattutto in Texas. Una dimostrazione di forza tale da aver probabilmente (o almeno a mio avviso) dato un bel colpo alla fiducia di San Antonio che, di fatto, poi ha chiuso con una post season ben al di sotto delle attese (se lo chiedete a me, secondo fallimento di questo 2015/2016 in ordine di importanza e peso).
Restiamo però sulla squadra della Baia. Questo finale con San Antonio, il 3-1 ribaltato con OKC, le serie vinte nonostante l’infortunio di Curry e le follie di Green, sono tutte situazioni che ho idea abbiano contribuito a generare nei Warriors questa percezione di se stessi prossima all’immortalità. Uno stato di self confidence così estremo da pensare di poter far fronte anche nelle finali a partite in cui si decide di non scendere in campo (Gara 3), a squalifiche di Green (Gara 5), a una serata storta dell’MVP e magari anche del team di arbitri (Gara 6).
E come ci credevano loro, ci credevo pure io. Ero convinto che, anche in questa situazione, avrebbero semplicemente girato l’interruttore e vinto gara 7 in leggera scioltezza. E per me lo switch c’è stato eh, lo dimostra la prestazione mostruosa di Green, che a mio avviso è il vero barometro della squadra. Per la prima volta invece questo colpo di coda finale non è arrivato, i tiri di Curry e Thompson non sono entrati come previsto. Ci sono stati fattori che hanno spezzato quella corda tirata e tirata dai campioni per tutta la stagione e mai davvero apparsa sul punto di rompersi.
Fattori tipo questo:

Direi che è tempo di parlare dei vincitori.
Non che ci sia molto da dire eh. A est si sono dimostrati una squadra senza rivali. Han perso due partite con Toronto in finale, ma ciò nonostante non sono mai sembrati in discussione. Forse perchè, come direbbe qualcuno, “Il cielo è blu, l’acqua è bagnata e LeBron James arriva in finale”. Eppure per quanto fosse scontato il re-match della finale 2014/2015 nessuno avrebbe mai pensato ad un risultato diverso. Leggevo e sentivo un po’ ovunque “La finale vera sarà quella di conference a ovest tra Golden State e San Antonio” e questo un po’ la dice tutta sulla percezione della situazione. Perchè è vero che nello sport può succedere sempre di tutto, [SPOILER] come di fatto è successo,[/SPOILER] ma in una lega dove tutto si gioca su una quantità di partite abnorme, i valori reali dovrebbero quasi sempre essere premiati dal risultato.
Eppure lo scorso anno LeBron da solo, letteralmente, due gare contro i Warriors le aveva vinte. E a memoria, sul 2-1 Cavs di un anno fa, qualcuno aveva iniziato a pensare che Cleveland potesse farcela nonostante tutte le assenze. Perchè quest’anno, con la squadra al completo, le chances sarebbero dovute essere meno? Love può essere “mollo” fin che si vuole, Irving può avere tutti i limiti difensivi del mondo, ma è difficile sostenere che i Cavs senza di loro possano essere più pericolosi. Quindi se era ragionevole aspettarsi che facessero meglio dello scorso anno, ovvero meglio di 4-2, cosa ci impediva di pensare potessero addirittura vincerla 3-4? Direi che la risposta è di nuovo nei Warriors: avevano convinto tutti non ci fosse storia. Talmente bene da esserne convinti loro per primi. Probabilmente nemmeno a torto. Se volessimo definire “schiacciante dimostrazione di superiorità” usando delle immagini, direi che Gara 1 e Gara 2 di queste Finals funzionerebbero a pennello.
La testa però fa tutta la differenza del mondo quando si traccia la riga che separa i fenomeni dai campioni. LeBron James non credo abbia bisogno di grosse indicazioni per capire da che parte posizionarsi e, dopo questa serie, mi sembra che anche Irving abbia trovato il suo posto. Curry invece il dubbio ce lo lascia. Due volte MVP della regular season, di cui una votato all’unanimità, due volte in finale e una volta campione NBA, eppure mai incisivo come ci si aspetterebbe nelle ultime sette gare. Non lo è stato l’anno scorso e non lo è stato quest’anno, dove anche in caso di vittoria non si sarebbe con ogni probabilità aggiudicato il premio di MVP. E forse questa cosa dovrebbe far riflettere un po’ di più quando si parla di lui, senza per forza metterlo in discussione (che è follia). Queste due stagioni ci hanno detto che tra Thompson, Curry e Green quello di cui Golden State non può proprio fare a meno è l’ultimo. E mi pare una nota interessante.
Bon, chiudo qui che ho già scritto troppo per un post che ha come unico prestesto celebrare la vittoria dell’anello di JR. Smith.

I am a nightmare

La vita, a quanto pare, è quella cosa che succede tra il release di un pezzo nuovo dei Brand New ed il successivo.
Dall’ultima volta sono successe un po’ di robe, in effetti: ho cambiato casa, ho allargato la famiglia, ho imparato a tagliare il prato, mio figlio ha imparato a camminare, son pure stato promosso al lavoro. Sembra giri bene, per quanto faccia sempre paura dirlo.
Oggi ho ascoltato “I am a nightmare”.
Mi ci son volute le consuete dodici ore per metabolizzare l’idea di cliccare play ed accettare la possibilità di rimanere deluso, ma alla fine ce l’ho fatta. Ed è andata bene. Il nuovo singolo dei Brand New è la cosa che meno ci si potrebbe aspettare dai Brand New, è una canzone che prende bene. Tipo i pezzi di “Your favorite weapon”.
Quindi boh, forse anche a Jesse gira bene ultimamente. Da quel che ho letto in giro sembrerebbe di sì.
Ieri su BASTONATE usciva un articolo che, tra le varie cose, dice che un musicista che sta male produce tendenzialmente musica migliore. Io non sono del tutto allineato, a me piace un botto di roba scritta da gente che tutto sommato si diverte e non ha problemi nel darlo a vedere (anzi, la merda di solito arriva quando se ne va il divertimento), ma se dovessi pensare ad un esempio per corroborare la tesi del pezzo, i Brand New sarebbero la prima immagine a venirmi in mente.
Nel loro caso, anche io temevo che senza malessere sarebbe mancato l’ingrediente principale.
Invece no.
Poi magari il testo di questo nuovo singolo è la roba più disperata di sempre, io mica sono andato a leggerlo. Mi bastano quelle chitarre lì, quel riffettino lì e quel “I am a nightmare and you are a miracle” per prenderlo come un pezzo pieno di sole cose belle. Che poi è il motivo per cui se un quadro astratto mi piace non son così interessato a sapere il messaggio di chi l’ha dipinto. Vedo i colori, le forme e se stanno bene insieme io lo guardo volentieri. Poi magari per l’artista rappresenta la madre morta male, ma quello è a tutti gli effetti un problema suo.
Ha senso?
Per me ne ha.
Si continua a vivere quindi, tra un pezzo dei Brand New ad un altro, e forse è quasi bello che sia così piuttosto che avere un disco da dover affrontare tutto insieme, fatto di emozioni ed immagini diverse che ti arrivano in faccia simultaneamente. Non lo so. E’ probabile abbia scritto una cazzata.
George R.R. Martin, tanto per tornare ad un argomento ormai inflazionato su questo blog, da anni fa uscire qua e là capitoli dei suoi libri (l’ultimo proprio ieri, per chiudere il cerchio. Niente link, non qui sopra. Mai più.) e nel suo caso l’operazione mi manda ai matti. Ma proprio che gli auguro ogni male, mi son pure fatto bannare dalla sua community scrivendogli che il prossimo libro l’avrei pagato un euro alla volta in dieci anni (true story).
Forse il problema è mio e nella scarsa coerenza con cui approccio operazioni simili sulla base di chi le mette in atto, o forse son cose molto diverse che ho accomunato a cazzo io in chiusura di post. Non ho una risposta e temo il pezzo se ne stia andando dove non deve.
Ricapitolo, quindi.
E’ uscito un nuovo pezzo dei Brand New.
E’ bello.
Niente da aggiungere.

Life is too short to last long

Ciao Manq, hai sentito il nuovo pezzo dei Blink 182?

Questo?

Esatto. L’hai sentito allora!

Beh si.

E non ne parli?

Boh, pensavo di no. Ho scritto davvero un mucchio di post in cui sbraito che per me i Blink 182 ormai sono un argomento chiuso, speravo di evitarmi di pubblicare l’ennesimo. Sai, provare ad essere credibile per una volta.

Quindi nulla? Speravo in un’opinione a caldo. Anche solo due righe eh, giusto per darmi un’idea.

E cosa vuoi che ti dica? Questa mattina quando l’ho sentito ero traboccante di felicità all’idea di poter twittare “Il nuovo dei Blink non è una merda”. Credo questo basti ad inquadrare la situazione.

Madonna che pesantezza… Ho capito il concetto. L’hai detto sa Dio quante volte. Va bene. Io vorrei solo provare a farti fare un passo avanti, svuotare la testa da tutte le tue menate da vecchio e dire cosa ne pensi di QUESTO pezzo. Ma ho idea che non sia cosa…

Ok, scusa. Se vuoi un parere provo a dartelo. Sta mattina, appena ho trovato il link, mi sono sentito il pezzo. L’attacco e la strofa sono una roba alla +44, che a pensarci non vuol dire niente visto che sempre di Hoppus si parla, ma in realtà credo stia a significare che quei suoni, con quella batteria lì e con quell’effetto orrendo sulla voce, siano esattamente la sfumatura che poteva permetterti di distinguere un’operazione dall’altra. A pensarci oggi non ha davvero più senso farlo, non mi stupirei se i nuovi Blink suonassero qualche pezzo dei +44 dal vivo, ma sto divagando. Quel che voglio dire è che il pezzo parte male. Poi però entra un ritornello GROSSO COSI’ e di tutte ‘ste seghe me n’è di colpo fregato zero. Volevo solo risentirlo ancora. E ancora. Talmente preso bene che mi sono digerito senza troppi scompensi pure il finalone coi cori e Travis che spruzza.
Ti basta come commento tecnico?

No. Nel senso, credo di aver capito che il pezzo ti piacicchia, ma non hai detto nulla su questo nuovo suono, su Matt Skiba, insomma su quello che succederà adesso…

E cosa dovrei dirti, di grazia? Il “Suono Nuovo” è esattamente il suono ipertrofico dei Blink del nuovo millennio, con gli effettini di “Feeling this” sull’intro e i muri di suono nel ritornello tipo “Stay toghether for the kids”. Le parti di chitarra potrebbero essere di Tom senza problemi, ad indicare che o anche prima le scrivevano gli altri, o che il buon vecchio DeLonge abbia dimenticato di farsi restituire qualche demo. Alla luce della sbroffata di “uo-oh” che c’è in fondo propenderei per la seconda ipotesi, perchè mi pare proprio roba sua. L’hai sentita la parte in palm mute nel finale? Non ho cazzi di controllare, ma è presa paro paro da qualche altro pezzo pre-scioglimento. Se dovessi basarmi su questo singolo, Matt Skiba potrebbero benissimo averlo preso per scaricare il van.

Ok, quindi nessuna attesa per il disco nuovo immagino…

Non ho detto questo. Insomma, questo pezzo qui ha un bel ritornello, limita tutto sommato l’invadenza di Travis e ha dei suoni gonfi e finti che mi prendono bene. Sai quanto tempo era che non sentivo un pezzo dei Blink capace di prendermi bene, anche se con delle riserve?
Alla luce dei fatti io un po’ voglio crederci.

Non è che poi ci rimani male?

Può darsi, ma molto probabilmente ormai certe robe mi scivolano addosso. Ti dico una cosa. Se quindici anni fa i Blink 182 se ne fossero usciti con un disco intitolato CALIFORNIA proprio l’estate in cui io pianifico un viaggio in CALIFORNIA l’avrei vissuta ai limiti del misticismo. Immediatamente colonna sonora della vacanza, a prescindere dalla qualità del disco.
Oggi la trovo solo una buffa coincidenza.

Non so se ti credo. Te sei quello che mi diceva che vai a San Diego e il tuo primo obbiettivo è andare da Sombrero’s a mangiare messicano. Mi sembra che tutto sommato ne sei uscito per modo di dire. E anche sta cosa del titolo del disco che hai appena detto, beh, uno normale manco ci avrebbe fatto caso…

Non ho altro da dirti.

Ehi, te la sarai mica presa?

Vaffanculo.

Cose successe in HBO

George R.R. Martin è legato ad una sedia, sudato e stanco. Di fronte a lui, David Benioff e D.B. Weiss lo osservano. L’espressione soddisfatta e compiaciuta sui loro volti lascia presto il posto ad un ghigno. Può sembrare scherno, ma in realtà è solamente sadismo, represso per anni e finalmente lasciato libero di affiorare.
E’ a quel punto che i due iniziano a strappare pagine e pagine dai romanzi dello scrittore che, inerme, è suo malgrado costretto ad assistere a tutta la scena.
“La vedi questa storyline George? ECCO, NON CE NE FREGA UN CAZZO.”
“Vi prego, vi scongiuro lasciate quella part…”
“Quale, QUESTA? – risponde Weiss mentre di scatto sbottona i pantaloni ed inizia a pisciare sulle pagine di uno dei volumi – No, caro. Tutta questa MERDA noi la togliamo. Per noi non è mai esistita!!!”
“Ma… non potete farlo…”
“Oh, certo che possiamo. POSSIAMO ECCOME!”
E’ Benioff ora ad accanirsi sui tomi con una violenza ed una soddisfazione senza eguali, in preda ad una vera e propria estasi.
“Centinaia di pagine… in questi anni ci hai costretti a leggere miliardi di parole INUTILI! Personaggi, storie, colpi di scena DI CUI A NESSUNO PUO’ FREGARE UN CAZZO! Volevamo ribellarci, ma non potevamo. Abbiamo chiesto indipendenza, autonomia, ma l’unica risposta che arrivava erano altre pagine sotto cui soffocare. CI HAI ROTTO I COGLIONI!”
“Non volevo… scusatemi… non è colpa mia. Purtroppo non so più dove andare a parare. Vorrei piantarla lì, ma il mio editore mi sta addosso e anche HBO continuava a chiedere…”
“ZITTO! DEVI STARE ZITTO! – riprende Weiss tirando “A Dance with Dragons” nel camino – Hai venduto i diritti per la TV per fare ancora più soldi, per ampliare il numero di persone TRUFFATE da te e dal tuo editore. Hai promesso una saga che non sai concludere, un finale che non hai nemmeno idea di come tirare insieme. E NOI COSTRETTI A DARTI UNA MANO! Ancora mi sveglio sudato nel cuore della notte, con nelle orecchie le urla di persone che chiedono perchè le costringo a sciropparsi le storie di Daenerys a Meereen…”
“Dio, cosa abbiamo fatto…” bisbiglia Benioff piangendo, con il volto tra le mani.
“Ma adesso basta, caro George. – riprende Weiss – Basta. Vaffanculo Aegon Targaryen, vaffanculo Quentyn Martell…”
“‘FANCULO TUTTI I CAZZO DI MARTELL!!! – Grida Benioff gettando benzina su un espositore Mondadori.
“Già, fanculo a tutti loro! E Fanculo a te George. Non saremo più tuoi complici in questo!”
Martin è sconvolto.
“Voi non sapete quello che state facendo. Siete degli stupidi. Col materiale che vi ho dato avremmo potuto mangiare tutti per anni. Ci potevate fare almeno otto spin-off…”
“Ammazziamolo.”
“No, David. Non merita questa grazia. Noi ora chiuderemo quest’opera e lo faremo il meglio possibile. Con le nostre idee. Abbiamo ancora due stagioni da scrivere. Diamo alla gente quello che merita. Diamo loro un finale. Mettiamo fine alla tirannia di questo grassone di merda…”
“TANTO IO POI SCRIVERO’ UN FINALE DIVERSO PER I MIEI LIBRI E FOTTERO’ DI NUOVO TUTTI! COME HO SEMPRE FATTO! NON POTETE SCONFIGGERMI. IO SONO GEORGE R.R. MARTIN!”
“Può essere. Forse però, se faremo bene il nostro lavoro, qualcuno potremo salvarlo. Per pochi che siano, avremo fatto del bene.”
Weiss e Benioff escono dalla stanza.
Si abbracciano, commossi.
Da dentro giungono ancora grida ferali: “… NON SONO LA VOSTRA PUTTANA…”, ma loro ora hanno raggiunto la pace.
Insieme, costruiranno un mondo migliore.

Niente, ieri ho visto la premiere della sesta stagione di Game of Thrones e ora ho questa immagine bellissima in testa che non riesco proprio a far andare via.

Io non sono come Mendez

Entriamo nel locale sul presto.
Non si capisce mai quando i concerti inizino davvero nei locali milanesi. Ogni tanto arrivi che i gruppi stanno ancora facendo il check mentre altre volte entri che son già a metà set.
Per non rischiare, questa volta siamo arrivati presto. Sul palco c’è un tizio che non ho mai visto. Strimpella due note in croce col basso prima di dire al fonico che è ok e passare al setup del suo microfono. Un calvario. E’ troppo alto, troppo basso, c’è troppo eco, va alzato in spia, no meglio riabbassarlo, così fischia, togli l’eco, era meglio prima. Il fonico impazzisce a stargli appresso per almeno dieci/quindici minuti, ma alla fine il tutto sembra soddisfare il tizio sul palco, che da il suo ok e mette fine al check.
Il locale si riempie, io e i miei amici ci beviamo una birretta e si fa l’ora dell’inizio del concerto.
Il gruppo sale sul palco ed il tizio del check imbraccia di nuovo il basso. Attaccano il primo pezzo e quello che si rivela essere il bassista tira immediatamente il microfono, con tutta l’asta, sul pubblico. Glielo recupererà a fatica uno dello staff, ma per tutta la restante parte del concerto il tipo lo userà solo ed esclusivamente tra un pezzo e l’altro per insultare i presenti.
Il locale è il Rainbow club di Milano, il gruppo sono i Derozer e il bassista in questione si chiama Mendez. L’anno è probabilmente il 1998 o giù di lì.
Via all’RVM.

Venerdì sera al Live di Trezzo son tornati i Derozer per la prima data di un nuovo reunion tour. Ci sono andato. Mendez invece è stato a casa sua perchè a questa reunion non ha intenzione di partecipare, almeno stando a quello che ha scritto sulla sua pagina facebook:

Ciao a tutti,
in questi giorni mi hanno contattato molte persone per avere notizie sul ritorno dei Derozer.
Ci tengo a precisare che per quanto mi riguarda NON PARTECIPERO’ a questo “Reunion Tour”.
Il gruppo non esiste più già da molto tempo e purtroppo non ho voglia di condividere NULLA con personaggi con cui non ho più NIENTE in comune.
Buona fortuna!!!

Il comunicato è nello stile del personaggio, quindi la situazione potrebbe essere molto meno compromessa di come viene fuori, ma non necessariamente. A sostituirlo l’altra sera c’era Paletta, per il resto del tour ci penserà il bassista dei Duracel. Seby a fine concerto ha comunicato che Mendez non ci sarà per sua scelta, che nessuno lo ha cacciato e che se vorrà potrà tornare quando e come vuole perchè loro “hanno ritirato la maglia come ha fatto il Milan con Baresi”. Il comunicato citato qui sopra però non mi pare altrettanto possibilista.
La domanda ora é: come sono i Derozer senza Mendez?
Boh.
Come ho già detto altre volte, per me ci sono canzoni che ha sempre e comunque senso andare a sentire dal vivo e almeno un paio di queste sono dei Derozer. Cantarle a un metro dal palco col dito alzato vale il rientrare alle due e mezza consci di doversi alzare alle sette, vale lo stare circondato di ragazzini puzzolenti a torso nudo, vale farsi schiacciare i piedi e farsi piantare i gomiti nel costato a quasi 35 anni, vale bere una birra di merda e vale pure sorbirsi playlist di sottofondo con gli Ska-p. Vale grossomodo tutto e quindi, io, mi sono divertito. E’ però innegabile che non sentire nessuno gridare alla folla “Diskotecari di merda” o “Astemi” ad ogni pausa, in costante rissa verbale col pubblico di fronte, lima e non di poco la portata della cosa. Un concerto dei Derozer senza Mendez quindi è davvero un’altra roba, al netto dei pezzi. La sua è stata una presenza iconica per cui fatico a trovare un corrispettivo in termini di impatto sul pubblico / peso specifico nel suono del gruppo. Non c’è nulla di diverso in come suonano, ma li vai a vedere e sono un’altra band.
Cosa si sia incrinato (se si è incrinato davvero qualcosa) non è dato saperlo e conta il giusto. Uno come me, che ha sempre cantato convinto “Alla nostra età” senza averci mai avuto troppo a che fare, prima anagraficamente e poi concettualmente, fatica un po’ a comprendere un certo tipo di coerenza, quella che fa dire “basta” o “no” ad operazioni della risma di questo secondo reunion tour. Di mio quando sento Seby dire: “Avevamo voglia di andare in giro a suonare questi pezzi e ci sembrava giusto farlo, senza obbligare nessuno e senza farci condizionare da nessuno”, boh, lo capisco. E si trattasse solo di alzare qualche euro lo capirei lo stesso anche se, non so perché, credo nel caso specifico questo possa essere magari uno dei fattori, ma non quello portante.
Di conseguenza si va avanti, ognuno con la propria strada. La prossima volta che suoneranno in zona probabilmente andrò meno volentieri di Venerdì scorso, o forse passeranno ancora quattro anni e avrà comunque senso presenziare per sentire quel paio di pezzi che avranno sempre il potere di trascinarmi fuori casa o farmi pentire di non averlo fatto.
Già che ci sono uno di questi lo butto qui sotto, perché parla tutto quello che ho provato a scrivere io in questo post, ma lo fa meglio di quanto abbia fatto io.

Negli occhi di chi guarda

Questa mattina ho visto un’immagine pubblicata da uno degli account social del Bayern.

Ho riso.
L’ho proprio trovata ben pensata, divertente e al tempo stesso giustamente carica dal punto di vista agonistico.
Così ho deciso di condividerla con gli amici con cui di solito parlo di sport e, soprattutto, con i gobbi.
Il primo che mi risponde, ovviamente, se l’é presa. Conosco tanta gente che vive il calcio con questo attaccamento morboso per cui toccagli tutto, ma non la Juve. Ce ne sono probabilmente di tutte le squadre, ma tra le mie conoscenze sono soprattutto gobbi. Quindi lui se l’é presa perché, credo, sotto sotto sa che sta sera sono sfavoriti (eufemismo). Posso capire. Mi dice: “E se l’avessero fatto al Milan?” e io rispondo che tutto sommato difficilmente ci sono avversari che possono sfottere il Milan più di me, ma conoscendo il livello di attaccamento continuo a comprendere la reazione. Poi però mi dice: “E poi Aushwitz potevano risparmiarsela…” e io li sbrocco e gli do del cretino (in simpatia eh).
Come cazzo si fa a pensare ad Auschwitz per una roba del genere?
Passano alcune ore e lo stesso amico mi manda la pagina di Tuttosport che si lamenta adducendo la stessa associazione.
Io gli rispondo che non avevo necessità mi dimostrasse di non essere l’unico cretino al mondo, ma via via che passa il tempo sento sempre più persone, anche non juventine, uscirsene con questa cosa e allora mi inizia a montare il nervoso vero. Reale.
Partiamo da un presupposto direi inconfutabile: chi si sarebbe mai sognato di pensare ad una simile associazione di idee se la squadra in questione non fosse stata tedesca? Nessuno.
Questo perché non c’è nessun appiglio logico, nessun sottotesto, niente che possa giustificare l’associazione mentale coi campi di sterminio se non il fatto che il Bayern è una squadra tedesca. È solo un triste cliché che arriva drammaticamente fuori tempo massimo.
È assolutamente possibile che il padre di chi ha pensato l’immagine non fosse nato ai tempi del nazismo. Non lui eh, suo padre. Sono passati quasi cent’anni, santodio. Non dico certamente che si debba dimenticare, ma magari se un ragazzo tedesco parla di treni nel 2016 e noi pensiamo ad Auschwitz, ecco, MAGARI il problema siamo noi e i nostri stereotipi del cazzo.
Che poi chi si é scandalizzato oggi sarà pronto domani ad incazzarsi perché all’estero qualcuno lo associa a Berlusconi o alla Mafia (separatamente, gli stereotipi non sono così dettagliati).
Ed è giusto.
Io ho passato anni ad incazzarmi coi tedeschi per la storia della mafia tirata fuori senza motivo ogni due per tre. E quelli di loro a cui tenevo spiegare la cosa, una volta capito quanto potesse essere offensivo mi dicevano: “È come se tu mi dessi del nazista solo perché son tedesco”.
Ci arrivavano persino loro!*
E mi pare assurdo star qui a prendere le loro difese, ma ecco, se c’è qualcuno che dovrebbe scusarsi oggi è chi ha offeso il Bayern con un’associazione mentale assurda.
Non certo il contrario.

*questo è un inside joke che esplicito per evitare fraintendimenti con chi legge, visto il livello della discussione.