Si parla sempre più spesso di dare più soldi alla ricerca e alle Università italiane.
In linea di principio credo nessuno possa avere da ridire su un proposito del genere.
Ebbene io voglio proprio spendere due parole in merito visto che oggi, tutti insieme, mi sono tornati alla mente i molti motivi che mi hanno portato ad odiare il sistema Universitario del nostro Paese.
Oggi si è tenuta la prova orale del mio concorso di dottorato.
Non mi vengono altre parole per definire lo spettacolo cui ho assistito se non “pagliacciata”. Non ho voglia di addentrarmi nei particolari perchè è un pomeriggio che li racconto e ne sono decisamente nauseato, tuttavia un piccolo aneddoto voglio riportarlo.
Dopo aver spiegato all’inizio del mio discorso la funzione della proteina su cui verteva il progetto da me proposto allo scritto (perchè la domanda della prova orale era “raccontare quanto esposto nella prova scritta”), tre dei quattro commissari hanno pensato bene di richiedermelo, in diversi momenti del colloquio. Il terzo ad essere onesti non l’ha nemmeno chiesto a me, ma si è girato verso un suo collega e ha chiesto: “Ma sta proteina che proteina è?”.
Ora, tralasciando che l’unica mansione del professore in quel momento era stare ad ascoltarmi e che sarebbe stato apprezzabile l’avesse svolta, ma mi chiedo: se proprio non hai prestato la minima attenzione al mio discorso e alla fine ti sorge una domanda, non ti sembra almeno il caso di farla direttamente a me e non al tuo collega seduto affianco?
Avrei voluto alzarmi ed andarmene in quel momento.
Sto mentendo.
Avrei voluto alzarmi, mandarli affanculo e andarmene.
Ora io non so se verrò ammesso oppure no. I posti sono quindici e noi eravamo diciassette, potrebbe pure capitare di essere preso.
Oltretutto non ho certo velleità di accaparrarmi un posto con borsa, quindi pure quindicesimo andrebbe bene.
Che secca è il modo in cui sono stato trattato.
Non ho mai pensato che le graduatorie dei dottorati venissero stilate in base alla prova d’ammissione, tuttavia credo che ci sia modo e modo anche per falsare un concorso.
Analizzando il concorso di dottorato tipo, ci sono tre posizionamenti possibili:
1- progetto con borsa “chiuso”
2- progetto con borsa “aperto”
3- posto senza borsa
Nel primo caso un professore mette a disposizione dell’Università dei suoi fondi personali per pagare un ragazzo per tre anni affinchè svolga quel determinato progetto. In questo caso trovo l’attuazione di un concorso quantomeno ridicola. Mi pare sacrosanto che un professore “assuma” a lavorare per lui chi meglio ritiene, dovendolo pagare coi suoi soldi. Lo Stato però impone un concorso anche per queste posizioni e di conseguenza questi concorsi vengono falsati perchè alla fine vinca il prescelto dal professore. Ridicolo, ma accettabile.
Nel secondo caso lo Stato da dei soldi all’Università per costituire delle borse di studio che andranno a pagare i vincitori per i tre anni in cui questi ultimi lavoreranno presso l’Università. In questo caso il meccanismo del concorso è legittimo perchè i più meritevoli dovrebbero poter ambire a quei soldi e quindi essere pagati dallo Stato per continuare a svolgere l’attività di ricerca senza gravare sulle casse dell’Università o sui fondi dei vari professori. Ciò che accade però è che questi soldi fanno gola a tutti i docenti, poichè consentono di avere manodopera “gratuita”, e quindi ogni anno queste borse vengono fatte ruotare tra tutti gli ordinari. In sostanza se un concorso ha quattro borse “aperte” ci sono quattro professori che ne usufruiranno. Questo fa si che questo tipo di posizione alla fine non sia più molto diversa dalla precedente, poichè ogni professore farà in modo di far avere la sua borsa al proprio candidato, che non necessariamente sarà poi il più meritevole in fase di concorso. Risultato: anche in questo caso si da un’aggiustatina alle graduatorie e tutto si sistema.
Questo lo trovo già meno corretto, perchè la borsa statale dovrebbe essere un’opportunità per un giovane ricercatore di continuare il suo sogno professionale, non per un professore di piazzare i suoi figliocci.
Che però le cose nel bel Paese vadano in questo modo non è certo una sorpresa per nessuno e quindi passiamo oltre.
Il caso della posizione 3 è quello che fa più sorridere.
Chi “vince” un dottorato senza borsa in sostanza vince l’opportunità di lavorare tre anni gratis. Gratis. Le borse sopra citate sono di 10.561,54 euro LORDI annui e si potrebbe pensare che anche vincendola uno lavori pressapoco aggratisse. Tuttavia assicurandosi un posto in quest’ultima categoria ci si accaparra l’opportunità di lavorare in un laboratorio di ricerca privi di qualsiasi stipendio. Zero. Nemmeno i ticket restaurant per la piada di mezzogiorno o il rimborso delle spese di trasporto. Un cazzo.
La necessità di un rigido concorso per attribuire un posto di cotanto lusso è ovvia.
Per evitare di campare di sogni e speranze un dottorando senza borsa deve quindi girare per i laboratori e chiedere se qualche anima pia è disposta a dargli uno stipendio per i tre anni necessari a conseguire l’agoniato titolo.
Più spesso però questi posti se li giocano coloro i quali già lavorano per un capo laboratorio (NON necessariamente professore) che li paga indipendentemente dal dottorato. Io sono una di queste persone. Quelli come me hanno spesso un contratto o una borsa di studio fornita dal loro capo e cercano di far fruttare gli anni che comunque spenderebbero nel fare ricerca, ricavandoci un ulteriore attestato.
Che io entri o meno in graduatoria, il mio futuro lavoro sarà lo stesso, così come il posto dove lo porterò a termine.
La domanda ora è: che interesse ha l’Università a negarmi la possibilità di un posto senza borsa?
La risposta è: nessuno.
Se facessi il dottorato all’Università non costerei un euro. Non ci sono professori da pagare per i corsi perchè non ci sono corsi. Ad essere onesti ce n’è uno di inglese, ma si terrebbe comunque per gli ammessi con borsa e qindi che lo frequenti anche io a loro non cambierebbe nulla. Non ci sono nemmeno costi di reagenti/strumentario perchè lavorerei fuori dall’Univerità e pagherebbe anche quelli il mio capo. Ad essere onesti anzi, io sarei una fonte di guadagno perchè a differenza dei vincitori delle borse, sarei tenuto a versare 885 euro all’anno per l’iscrizione. Negandomi un posto senza borsa l’Università sputa su 2700 euro scarsi che io sarei disposto a regalare in cambio unicamente di un attestato che riconosca un lavoro triennale che svolgerò indipendentemente dal rientrare o meno in graduatoria.
Più soldi alla ricerca nelle Università? Cazzo, ma se non li vuole da chi glieli regala perchè deve chiederli a terzi?
A questo punto una considerazione è d’obbligo: devo essere proprio un coglione a farmi il sangue marcio per un concorso in cui se vinco va a finire che prendo una mensilità in meno per tre anni.
Probabile.
Resta che coglioni come me meriterebbero almeno un briciolo di rispetto.
Commento prendendo in prestito una frase di Francesco Giavazzi.
”Ciò che ha spento la nostra Università è la scomparsa della curiosità per la ricerca scientifica: ne è la prova un sistema retributivo basato esclusivamente sull’anzianità. Brevettare una scoperta, pubblicare su una prestigiosa rivista internazionale è ininfluente: lo stipendio procede solo con gli anni, indipendentemente dalla qualità delle ricerca e anche dell’insegnamento.”
Facendo ricerca si arriva a guadagnare tardi. Si parte facendosi un mazzo così prendendo le briciole, poi se si è fortunati la situzione migliora e si vedono i soldini.
No, non una situazione degna di un paese civile.
Devo dire, Manq, che il tuo terzo punto mi ha dato da pensare: non l’avevo mai visto sotto questa luce, e hai ragione, non c’è che dire.
Sulla commissione, sinceramente sono stato più fortunato: erano perone simpatiche, con la voglia di ascoltarmi e anche di farmi domande. Non che cambi la sostanza, ma almeno non ho assaporato anche quell’amarezza.
Per simpatia, nel post successivo risponderò calandomi nelle vesti della Gent.ma Sig.ra Università degli Studi.
Gentile Dottore,
la pubblicazione del suo post ci lascia spiacevolmente sorpresi.
Ci teniamo innanzitutto a ricordarle che il Corso di Dottorato è, come dice il nome stesso, una Scuola in cui i laureati, come lei presumibilmente è, possono continuare a svolgere il proprio cursus studiorum, approfondendo ulteriormente le discipline nelle quali hanno conseguito il proprio titolo.
In quanto sede d’insegnamento, dunque, il Corso di Dottorato offre due risposte ad altrettanti quesiti da lei posti con un sarcasmo che giudichiamo fuori luogo.
In primis, l’ammissione al Corso di Dottorato DEVE avvenire mediante la vincita di un Concorso, come decretato dalla vigente legislazione. Ciò permette di non sovraccaricare i ranghi del Corso suddetto, con il rischio di abbassare la qualità dell’insegnamento ricevuto dai Dottorandi.
In secundis, il Corso di Dottorato sostiene una quantità insospettabile di costi, proprio per insegnare a quelli come lei qual è il vero modo di fare la Vera Scienza. Infatti, offriamo prestigiose lezioni tenute dai più stimati professori, per un totale di ben 30 ore annue. Senza contare che, per la sua comodità, per metterla a suo agio e permetterle di ripassare agiatamente, ogni anno ripetiamo praticamente le stesse lezioni dell’anno precedente, magari ritoccando un paio di slide.
Inoltre ci troviamo a sostenere le ingenti spese legate alla gestione elettronica e telematica della registrazione degli studenti ai nostri ipermoderni sistemi informatici; non serve certamente che senza questa tecnologia, che permette di tramutare un dottorando (o anche un laureando, se è per questo) in una serie di cifre, non ci si avvantaggerebbe di quella famigerata spersonalizzazione dell’individuo cui oggigiorno tutte le culture avanzate aspirano.
Le sarà ovviamente chiaro che dinanzi a queste spese ed altre che ho volutamente omesso di citare (per fare solo un altro esempio, forniamo i dottorandi di un lucidissimo badge plastificato, contenente una minuscola ma fedelissima riproduzione del loro volto), l’esigua somma versata per l’iscrizione annua e poco più di una cifra simbolica, giusto atta a rammentare agli studenti che per imparare bisogna, a volte, anche fare un piccolo sforzo in più.
Con falsissimo rispetto,
Unimi