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Parliamo di Charlie Kirk

Oggi è l’11 settembre 2025 e grossomodo tutti sanno chi è Charlie Kirk.
Il 9 settembre 2025 molti di quelli che lo stanno martirizzando non avevano letteralmente idea di chi fosse, ma di questa cosa non ha molto senso parlare. Non è il primo morto strumentalizzato e non sarà l’ultimo.
Per chi, non so bene come, ancora ignorasse chi sia stato Charlie Kirk faccio un recap veloce: un tizio che si è costruito una fama sui social spingendo l’ultraconservatorismo americano (una roba che in confronto la chiesa cattolica è un raduno di hippie) e che ieri è stato ammazzato male durante un comizio.
Io sapevo bene chi fosse anche prima venisse suo malgrado alla ribalta per i fatti di cronaca odierni.
C’è stato un periodo, non molto lontano in verità, in cui sono entrato nel circolo vizioso dei suoi contenuti online, ne ho consumati a decine. Ero in una situazione che potrei descrivere come il mix tra l’innata curiosità morbosa verso tutto ciò che mi è incompressibile e mio nonno che urlava alla televisione quando vedeva Berlusconi.
Forse è necessario che vi spieghi come erano strutturati i suoi contenuti. In pratica il tipo prendeva un tema sensibile, lo affrontava con una posizione ultra radicale difficile da digerire anche per quella che comunemente definiremmo “destra” e fingeva di volerlo dibattere montando le sue argomentazioni in antitesi a quelle di poveri ragazzi e ragazze che, ingenui  e spinti dalla necessità di contrastare un’ideologia così del cazzo, si prestavano inconsciamente al gioco senza avere una anche minima capacità argomentativa. Il risultato era lui che, per usare un termine caro all’internet e tra i primi tre che citerei come indicatore del nostro declino culturale, BLASTAVA dei poveracci.
Ecco, io so benissimo che tra tutti quelli che, apertamente e pubblicamente, decidevano di dibattere con lui, la maggior parte era gente capace di tenergli testa. Voglio dire, le argomentazioni di Kirk erano così assurde che non sarebbe stato complicato controbattere. Lui sceglieva appositamente di montare nei video quei pochi che non riuscivano in questa operazione e finivano “sconfitti” sul piano del dibattito, in modo da costruirsi l’aura di sommo oratore (lo sapete che gli americani considerano il dibattere una competizione, sì?).
Sto divagando, il punto è che io, pur conscio del meccanismo alla base del suo “lavoro”, ero diventato assiduo consumatore dei suoi video e li guardavo solo per lamentarmi. “Ma cazzo, ma rispondigli XYZ dai. E’ ovvio. Digli XYZ e lo metti all’angolo. Argomenta. CAZZO SMONTALO. COME FAI AD ESSERE COSI’ IDIOTA DA NON RIUSCIRE A RIBATTEREEEE…”. Ecco, questa era diventata una sorta di mia routine. Cercavo i suoi video per vedere quali argomentazioni assurde riuscisse a formulare, mi immedesimavo nella controparte trovando sempre la chiave per far cadere il suo castello di carte e mi incazzavo con quei poveracci che venivano mostrati in difficoltà nel farlo. Preciso ulteriormente: non è che io trovassi sempre il suo punto debole perchè sono un genio, è proprio che il suo livello era indecorosamente basso.
Insomma, io sono uno che si è guardato molti dei suoi video e oggi, quando ho saputo che gli avevano sparato, un po’ ci sono rimasto di merda.
Ecco, questo vuole essere l’argomento della mia riflessione.
Da questa mattina ho letto una montagna di post, pensierini, commenti, etc. espressi da gente che conosco e in certi casi stimo, che tenevano a ribadire come non ci fosse troppo da dispiacersi. E ora proverò a dibattere queste argomentazioni.
La prima la riporto testualmente: Insomma, leggendo in giro mi sembra di capire che oggi è la Giornata Internazionale del “Charlie Kirk era un pezzo di merda, ma”.
Come a dire che troppe persone, sbagliando, stessero dicendo che per quanto fosse uno stronzo forse sparargli non era la cosa da fare. Io sono tra quelli fermamente convinti fosse uno stronzo e tra quelli fermamente convinti non fosse il caso di sparargli. Sicuramente è una questione di bolle, ognuno pesa le opinioni che vede intorno a sè sulla base delle persone che ha, in quell’intorno, quindi magari per chi lo ha scritto quella posizione (la mia) è risultata largamente condivisa. Nella mia, di bolla, non è così. Da quel che vedo io, chi ne sta parlando, ne sta parlando come di uno che se l’è cercata e io con il tema del cercarsela ho un rapporto conflittuale. Non voglio entrarci adesso, ma per me non può e non deve essere un’attenuante. Mai.
Mi piace tifare per un mondo in cui non si spara agli stronzi, as simple as that. Sono troppo naive? Sono uno di quelli che vive nel mondo di Lelly Kelly e che crede nel “marketplace of ideas” (sto linkando un pezzo di stand up meraviglioso che, di fatto, sfotte me.)? Possibile.
Il che ci porta alla seconda argomentazione che ho letto: male male sparare al tipo, ma se da domani questi avvelenatori di pozzi pezzi di merda avranno un briciolo in più di paura nel fare quel che fanno, forse è bene sia così.
Non lo è (imho). Intendiamoci, capisco BENISSIMO da dove viene quel tipo di reazione e sarei falso se non dicessi di averla provata anche io, di aver pensato anche io di esserne convinto, sul principio. Però no. La paura come deterrente non funziona mai.
MAI.
M-A-I.
La paura spinge le persone a nascondere la polvere sotto il tappeto, a celare quel che causa ritorsioni a prescindere dall’idea che hanno di quella cosa. “Non lo faccio perchè non si fa” non funziona neanche coi bambini. L’educazione è la chiave con cui si combattono certi atteggiamenti tossici, tra cui il pensare di poter e dover dire tutto ciò che si vuole. L’educazione crea le basi per razionalizzare quel che si vuole dire, farsi delle domande, ragionare sul concetto di rispetto e mettersi dei limiti. Da soli. La paura non porta a nulla di tutto questo. La paura ottiene magari un risultato migliore, sul principio, ma non otterrà mai persone che si limitano per scelta propria, sarà sempre e solo un’imposizione. E quando quell’imposizione cade, si torna al punto di partenza.
Porto due esempi, che mi hanno illuminato quando vivevo a Colonia. In Germania c’erano due limiti: no fuochi d’artificio tranne capodanno, no espressioni di fiero nazionalismo tranne durante i mondiali.
In 2 anni e mezzo mai visto succedere nulla di strano tranne:
– A capodanno, dove la città diventava Baghdad e la gente puntava le finestre coi bengala uso ridere.
– Durante i mondiali, dove tutti avevano la bandiera tedesca alla finestra, sugli specchietti e sul cofano dell’auto, addosso. Molti le facevano anche il saluto (giuro).
Lì ho maturato l’idea che un popolo che si comporta bene perchè deve, non perchè vuole, non è un orizzonte a cui tendere. Per quanto in quel posto ti possa sembrare che le cose funzionino, non è il posto in cui vorresti vivere. Parlo per esperienza personale.
Quindi, per chiudere questo paragrafo, anche se la paura generata da questo evento di cronaca, come dal gesto di Luigi Mangione, può portare anche a cose buone (semicit.), resta un metodo del cazzo che per me dovrebbe sparire ieri, a prescindere da chi lo usa.
Il che ci porta al terzo ed ultimo aspetto della vicenda, l’unico che fa un po’ sorridere.
A meno di 24 ore dall’omicidio il governo USA ha materiale video sul killer e ha già trovato prove sull’arma e sui bossoli che riconducono evidentemente ed innegabilmente al fatto che chi ha sparato fosse un estremista di sinistra (leggi: antifa, pro transgender, etc.). Lasciamo un attimo da parte il fatto che ancora non sanno chi ha sparato a Kennedy, che sembra di fare ironia, il mio punto è diverso.
Io non ho alcun problema a credere che chi l’ha fatto sia uno che condivide la mia stessa opinione su Kirk. Questa autoconvinzione che i matti/spostati/ritardati/terroristi/violenti/estremisti siano sempre gli altri è idiota. Non saprei come altro definirla. Partendo dal fatto che nel mondo ci siano N persone problematiche che possono decidere di sparare ad un altro essere umano sulla base del credo politico, pensare che nessuna di queste sia dal nostro lato dell’ideologia è come credere che la terra sia piatta. Negli stati uniti hanno la cultura del risolvere i problemi sparando, non è una cosa correlata all’essere repubblicani o democratici, è un livello sopra, più trasversale. E’ perfettamente plausibile che chi ha sparato a Kirk, come chi ha sparato a Trump, sia un estremista di sinistra con evidenti limiti cognitivi. Se usi l’attentato per costruire una retorica volta a screditare quella parte politica fai schifo, ma devo darti il beneficio del dubbio. Se immediatamente dopo un evento del genere te ne esci dicendo di avere le prove che chi ha commesso il fatto è sicuramente uno di quella parte politica che tanto tieni a contrastare, allora spingi anche uno come me, che lo riteneva plausibile dal principio, a pensare tu stia mentendo e che chi ha tirato il grilletto non sia per niente chi mi dici che sia. Da lì, il complottismo. Su questo, però, probabilmente sbaglio io.
Cmq il mio punto, non si fosse capito, è che dovremmo smetterla di ammazzarci tra noi.
Quale che sia la ragione, quali che siano le colpe (oggettive o soggettive) di chi si prende il proiettile. Citando un film: I just wanna say I think killin’ is wrong, no matter who does it, whether it’s me or y’all or your government.


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Black Sails

Qualche mese fa avevo vaneggiato qui sopra di un progetto a cui mi stavo dedicando e di cui non mi sentivo di dare i dettagli per evitare di renderlo reale al punto di mal digerirne un eventuale fallimento. A distanza di tempo, ho deciso che non sia più il caso di fare i misteriosi.
Sto scrivendo un romanzo.
Al punto in cui sono ora(1), la parola fallimento ha assunto diverse sfumature, ma il significato che le avevo dato inizialmente era di buttarmi nell’opera e non riuscire ad arrivare in fondo. Siccome oggi mi sento di escludere questa possibilità, pur essendo ben lontano dal finire il lavoro, posso anche uscire allo scoperto qui sopra. Anche perchè, voglio dire, non è che questo sia propriamente un articolo del NY Times.
Veniamo al tema del post. Siccome il mio ipotetico romanzo parla di pirati, concluso il primo troncone di scrittura mi sono rivisto tutte le quattro stagioni di Black Sails per un “reality check” e mi sono innamorato di nuovo dell’opera. Se con quello che sto provando a fare (e che mi sta costando una quantità di ore e di sonno incalcolabili) riuscissi a trasferire anche solo un decimo dell’atmosfera che è riuscita a ricreare questa serie, mi riterrei ben più che soddisfatto.
Black Sails racconta le vicende del Capitano Flint e del pirata John Silver, poi Long John Silver, intrecciandone le origini con figure storiche dell’epoca. Un mix di fantasia e storia che, fin dal primo istante in cui ho pensato di cimentarmi nella stesura di un romanzo, è stato l’obiettivo a cui tendere anche per il sottoscritto. Essendomi messo a studiare parecchio l’epoca della pirateria, ho capito in fretta che sul piano della veridicità storica la serie TV non ha mai voluto essere davvero verosimile, si è limitata ad incollare nomi di figure realmente esistite dentro una storia completamente di fantasia e di difficile collocazione temporale. Questo però non è un difetto. Guardandola la prima volta non me ne ero assolutamente accorto e, probabilmente, è una buona indicazione del fatto che l’attenzione alla veridicità/verosimiglianza che sto provando a mettere io, con tutti i limiti del non essere uno storico, risulterà largamente superflua. Amen.
Tornando a parlare della serie, invece, quella spolverata di personaggi storici non fanno che supportare il lavoro magistrale fatto a livello visivo per trasferire allo spettatore un’ambientazione estremamente suggestiva, in cui chi ama quel tipo di periodo storico non può che venire risucchiato fin dai primi minuti grazie ad una fotografia superlativa. A livello di trama, poi, le prime due stagioni sono di un livello stellare. C’è un colpo di scena, nel penultimo episodio della seconda stagione, che per scrittura e realizzazione è senza dubbio il più sorprendente e potente che mi sia mai capitato di vedere. Non dico debba esserlo per tutti, ma per me lo è sicuramente stato. Non l’ho visto arrivare e mi ha colpito con una velocità e un’impatto irripetibili. Le due stagioni successive mantengono inalterata la qualità di resa dell’atmosfera, ma calano parecchio a livello di storia, anche se nel finale c’è una bella ripresa.
Quello che non cala mai, invece, è la grandezza dei personaggi raccontati. Ognuno di loro è perfetto, nel tratteggio e nel percorso, anche quelli che possono sembrare più caricaturali o stereotipati. Li ho amati tutti, senza esclusioni, e ho fatto il tifo per ognuno di loro in almeno un’occasione.

Quindi niente, il succo del discorso è che in un mese mi sono riguardato trentotto episodi di Black Sails e ne vorrei almeno altrettanti. Da amante dei pirati, credo siano il prodotto perfetto. Io sono un fan enorme di Monkey Island, ho adorato alla follia il primo Pirati dei Caraibi e ho letto un po’ di letteratura a tema, ma non credo di aver trovato mai nulla che fosse così affine alla mia idea e al mio gusto.
Ho chiesto di leggere la prima parte del mio romanzo wannabe ad una manciata di amici. Un paio lo hanno fatto davvero, mia moglie ci sta litigando, gli altri probabilmente sono troppo gentili per dirmi “lascia perdere”. Diciamo che dai primi feedback non ho l’impressione di avere per le mani un best seller, ma non ho intenzione di mollare.
L’illusione a cui mi aggrappo è che anche che Black Sails non è piaciuta a nessuno.

(1) circa 200 pagine scritte, circa metà della strada, circa metà del secondo dei tre tronconi di cui dovrebbe essere idealmente composto.


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#BelKomodo

Il megaviaggio di quest’anno lo abbiamo fatto tra Indonesia e Singapore. Siamo partiti alla ricerca dei famigerati draghi (da lì, l’hashtag) e abbiamo scoperto che il resto era molto molto meglio.
Come sempre, mi sono preso il tempo di buttare giù un report dell’esperienza ad uso e consumo di chi, magari, ha la curiosità di saperne di più.
Long story short: è stato bello bello.


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Polemichetta

Fa caldo ed è tempo di vacanze, ci sarebbero una tonnellata di cose più edificanti da fare che non gettarsi nella polemichetta, no?
Evidentemente no.
Partiamo da un mini riassunto dei fatti: Sydney Sweeney, che molti di voi ricorderanno per questo motivo, ha fatto da testimonial per un’azienda di jeans americana, American Eagle, in una serie di spot che giocano con l’assonanza tra JEANS e GENES. In pratica il messaggio è che l’attrice è una figa senza senso molto bella per via dei suoi geni.
Panico in sala.
Io vi giuro che non so neanche da dove partire a ridere di sta faccenda, ma ci voglio comunque provare.
Il reato imputato allo spot è di un riferimento alla supremazia della razza. Siccome il fenotipo dell’attrice è quello tipicamente ariano, siccome il fenotipo deriva dai geni e siccome è incontestabile i suoi geni abbiano fatto un discreto lavoro sul piano estetico, allora la razza ariana è superiore. Se mentre leggi questa cosa noti evidenti voragini nella logica non so che dirti, io sono qui solo per presentarti i fatti. Anche volendo però prendere per lineare il ragionamento di fondo, ci sono due aspetti di cui non mi pare si stia parlando abbastanza.
1) Il possibile target statunitense di quello spot dovrebbe essere la fetta di elettorato che si batte per togliere l’evoluzionismo dalle scuole, perchè crede nella bibbia e non nei dinosauri. Il target di quello spot NON LO SA cosa sono i geni o, comunque, non crede nella loro funzione.
Siccome sono propenso a pensare che le campagne marketing di aziende con così tanti soldi siano messe in mano a persone che sanno fare il proprio lavoro, è evidente che lo spot è stato scritto per innescare la polemica e far parlare del brand come di un brand anti-woke, che è il principale metodo di guadagno consenso negli USA ormai da qualche tempo, in maniera direi incontrovertibile. Se ci pensate è una roba veramente divertente. Se nessuno si fosse preso la briga di alzare la polemichetta, il messaggio suprematista dello spot i suprematisti non l’avrebbero colto. Dopo la polemichetta, invece, il vero messaggio che passa è che American Eagle è un brand anti-woke. Ed è molto diverso, perchè i suprematisti in USA sono tanti, ma non così tanti. Mentre il rigetto per il cosiddetto wokeism è davvero trasversale. Per dirla facile: la campagna ha centrato l’obbiettivo, AE probabilmente venderà più jeans, ma questo non deriva dal fatto che negli States siano tutti nazisti. Leggerla così è continuare a non capire perchè Trump ha vinto le elezioni.
2) Se anche volessimo credere che, negli Stati Uniti del 2025, dichiararsi sostenitori della supremazia della razza ariana sia talmente condiviso da fondarci sopra una campagna pubblicitaria volta a vendere indumenti ad un pubblico trasversale, il problema non dovrebbe MAI essere lo spot. Il problema di cui occuparsi dovrebbe essere perchè un’azienda possa pensare che uno spot di quel tipo faccia aumentare le vendite e non il contrario. Discutere della rimozione dello spot è sbagliare mira. Se AE inneggia a Hitler per vendere jeans, il problema non è AE. Il problema sono le persone che comprano i jeans. Io davvero non posso credere che dopo la retromarcia violenta fatta da quasi tutte le grandi aziende USA sul fronte dell’inclusività letteralmente il giorno dopo il riscontro elettorale avuto da Trump, ancora ci siano persone che credono che eventuali manifesti ideologici sbandierati da questa o quella multinazionale riflettano effettivamente dei valori e non unicamente la necessità di vendere a quante più persone possibile. Boh. Mi sembra lunare che se ne stia ancora parlando in questi termini.

Il problema dello scagliarsi contro concetti sbagliati, anche aberranti, con un approccio censorio invece che di dibattito è che si alimenta con microgesti irrilevanti una narrazione completamente inventata relativa al quadro generale. Tipo che escono settordicimila canzoni ogni giorno in cui il rapperino di turno dice che “alla sua troia gli taglia la gola”, ma poi una volta all’anno si decide che il cantante X non può suonare nel contesto Y per via dei suoi testi sessisti e violenti. Unica conseguenza: far ripartire il valzer del “non si può più dire niente”, senza che nessuno si prenda la briga di sottolineare che, dal giorno dopo, le canzoni sessiste e violente in uscita continueranno ad essere settordicimila, se non di più.
Viviamo un’economia di mercato, l’offerta segue la domanda e non viceversa. Chi insegue il grande pubblico gli dà quel che il grande pubblico vuole. Ci sono le nicchie, ovviamente, per fortuna ci sono le alternative. Possiamo e forse dobbiamo esercitare un consumo più consapevole, con tutti i limiti oggettivi che non è il caso di tirare fuori adesso, ma non possiamo illuderci di fermare il vento con le mani o cancellare i problemi semplicemente filtrandoli fuori dall’algoritmo. In altre parole: io posso non comprare America Eagle (facile), posso informarmi al massimo sull’etica reale dietro chi mi vende i jeans (già decisamente più complesso), ma non posso pensare che se AE pensa di vendere agli stronzi con un messaggio stronzo, eliminando il messaggio io stia eliminando gli stronzi. Non funziona così. Al massimo, non vedendo più il messaggio io posso convincermi che gli stronzi non esistano, ma siamo sicuri sia un bene perdere il termometro della società in cui siamo? Perchè poi arrivano le elezioni, puntualmente, e stiamo tutti a dire: “No, ma come è possibile?”.
E’ possibile perchè abbiamo deciso che guardare il mondo per com’era ci triggerava (brrr.) e abbiamo ritenuto più importante evitarci il fastidio che non cambiare il mondo.


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Ok boomer (la mia sul rifiuto dell’orale di maturità)

Parliamo dei ragazzi che si rifiutano di fare l’orale di maturità, dai. Facciamoci del male.
Io il mio orale di maturità l’ho fatto con la camicia hawaiiana. Questa cosa è successa (davvero, giuro) perchè il commissario esterno di matematica mi aveva detto: “Scommetto che lei non ha le palle per venire vestito da hawaiiano a fare l’orale di maturità.”. Tipo Marty McFly.
Precisazione 1: la mia situazione era tutt’altro che quella di uno che con il solo voto degli scritti avrebbe matematicamente conseguito il diploma.
Precisazione 2: nella mia classe sono usciti in 17 su 27 con un voto compreso tra 60/100 e 61/100, cosa che mi dava margine per pensare che, prima di segare me, avrebbero dovuto segare troppe persone e che quindi potevo permettermi di accettare la sfida.
Precisazione 3: i membri di commissione esterni alla maturità sono la ragione per cui io, a 44 anni, non sto ancora cercando di diplomarmi. Perchè, si può pensarla un po’ come si vuole, ma se 17 alunni su 27 arrivano alla maturità con una media che permette di ambire massimo a 60 e 61 o tutti gli idioti del 1981 iscritti al liceo scientifico Paolo Frisi di Monza furono scientemente raggruppati dentro un’unica sezione, oppure forse c’era qualcosa che non funzionava benissimo nell’equipe di luminari professori che ci ha portati in quinta.
Precisazione 4: non ricordo che genere di scommessa ci fosse in ballo col professore di cui sopra, ma ricordo che si rifiutò di concedere vittoria perchè “io intendevo con il gonnellino di paglia e i cocchi sui capezzoli”. A costo di citare Michael Bay: questa, giuro, continua ad essere una storia vera.

Questo racconto serve a dire che il punto della maturità, ma se vogliamo di tutto il mio percorso al liceo, per me non è mai stato il voto. E’ sempre stato sopravvivere. E  non lo dico con il tono melodrammatico di chi “ai miei tempi sì che il liceo era una roba pesa”, ma perchè era davvero così. Era una guerra, psicologica, contro i professori, combattuta sui due fronti ad armi impari. Una cazzo di guerra di resistenza. Solo che, anche se provavano tutto ciò che fosse in loro potere per buttartela al culo, i miei professori avevano quantomeno il merito di riconoscere l’onore delle armi a chi riusciva a difendersi, in un modo o nell’altro, e restare in piedi. Gente come me, che tirava serenamente a campare galleggiando sulla soglia della sufficienza non tanto/solo per la mancanza di voglia di studiare, ma anche/soprattutto per la volontà strenua di non dar loro alcuna soddisfazione.
Precisazione 5: in 5a liceo io mi presentavo ai compiti in classe di latino senza dizionario. Dopo cinque anni di sonore insufficienze era evidente che avere o meno il Castiglioni/Mariotti con me non facesse alcuna differenza, ma era altrettanto evidente che non fosse necessario esplicitare in modo così veemente che di prendere l’ennesimo 4 non me ne fregava grossomodo un cazzo.
Precisazione 6: il mio prof. di italiano e latino adorava uno dei miei migliori amici (aka Orifizio). Prima dell’orale di maturità si accordarono su quel che avrebbe voluto gli chiedesse e, essendoci stati io ed un altro paio di testimoni, lo chiese anche a noi. Io non avevo mai avuto un rapporto con il mio prof di italiano, come avrete potuto intuire dalla precisazione precedente. Quando mi chiese “Mancuso, cosa preferisce che le chieda?” io risposi “Mi chieda quello che vuole”. Lui mi guardò negli occhi e mi disse: “Le chiedo Ungaretti”. Per un secondo l’avevo preso come un gesto distensivo, che riconosceva la mia schiena dritta nel momento della verità. Poi mi presentai davanti alla commissione e mi sparò una domanda volutamente incomprensibile, forse per testare i miei limiti o forse per farmela pagare, non lo so. Io partii a nastro parlando di Ungaretti e ancora oggi non ho idea se quel che dissi era la risposta a quel che aveva chiesto o meno. Lui si limitò ad un “può bastare” dopo un paio di minuti di monologo e io passai alla materia successiva.

Non lo so che idea si possa fare una persona esterna nel leggere queste righe, ma per me quelli delle superiori sono stati anni bellissimi. Mi hanno insegnato tutto quello che oggi ritengo importante per vivere in questo mondo di merda.
Precisazione 7: a meno di un mese dalla fine della 5a viene indetta simulazione di terza prova d’esame. Le materie erano fisica (media dell’8 da tre anni, inscalfibile), inglese (grossomodo sempre sotto dalla 1a) e filosofia (media del 7 letteralmente sudata col sangue dopo una debacle totale su Kant nel primo quadrimestre). Nel tentativo di salvare questo terzo risultato, bigio. Al rientro, la prof. di fisica mi disse, testualmente: “Lei pensa di avere 8 in pagella saltando l’ultimo compito?”, poi mi chiamò alla lavagna e mi fece fare scena muta. Volutamente, per darmi 4. Unica insufficienza in fisica mai presa. La settimana successiva, mi chiamò di nuovo fuori, a sorpresa, chiedendomi se volessi recuperare. Feci una bella interrogazione, presi di nuovo 8. “Bravo. Peccato per il 4 della scorsa settimana, ma la porto comunque all’esame con 7”. Ed era la prof. a cui volevo più bene (e che ne voleva di più a me).

E’ giusto, doveroso anzi, sviluppare un certo antagonismo verso il sistema scuola durante l’adolescenza. Perchè la scuola è fondamentale, ma non perfetta e i professori ti aiutano a crescere anche per il fatto che sanno essere degli stronzi senza pari. Chiudere il liceo in cinque anni combattendo contro di loro è stata la mia vittoria più grande. Più di qualsiasi trenta preso all’università, più del dottorato, più di qualsiasi successo lavorativo se in quel che ho mai fatto ci possa essere qualcosa di definibile come “successo”. Mettendo lo stesso impegno nello studio, invece che in questa sfida continua, ce l’avrei fatta uguale e probabilmente anche con un bel voto, ma per me era più importante tenere il punto.
Precisazione 8: in prima liceo, a un mese dall’inizio di un percorso scolastico nuovo in un ambiente in cui conoscevo letteralmente quattro persone, un “amico” di quinta conosciuto in oratorio mi chiese se mi andasse di far parte della loro lista per il consiglio di istituto, che gli mancava uno. Scoprii, tardi, che era una lista di CL. Avevo quattordici anni. Per diversi prof. ero e sono rimasto CLino per cinque anni, con tutta la simpatia che ne può conseguire in un ambiente come quello del liceo in cui andavo io alla fine degli anni novanta (ho ancora amici che me la menano per sta cosa. Dopo trent’anni.). A me, però, di andare a spiegare che non fossi CLino non è mai interessato, mi faceva ribrezzo l’idea di doverlo fare. L’idea che mi avrebbero valutato diversamente.

Quindi boh, a me non è che faccia tutta questa impressione uno studente che, col culo al caldo della promozione aritmetica conseguita sulla base di essere stato cinque anni per benino dentro ai binari, se ne esca con l’idea di “boicottare l’orale di maturità”.
Però se a questi ragazzi sarà utile per provare a tirare delle somme e crescere con un’idea della vita che gli consenta, anni dopo, di continuare a vedere il confine tra il giusto e lo sbagliato anche quando ci si rende conto di non poter più essere (o forse non essere mai stati) dalla parte del giusto, non quanto si sarebbe voluto, allora fanno bene a farlo. Sicuramente, gli servirà di più di qualsiasi versione, teorema, poesia o legge della termodinamica imparata nei cinque anni precedenti.


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Desolazione & Stand-up comedy

Il fatto di essere di fatto fuori dai social probabilmente mi sta impedendo di entrare in contatto con tutta una serie di notizie, approfondimenti, commenti e sopra ogni cosa persone che un tempo finivano a vario titolo per farmi incazzare. E’ una buona cosa per la mia salute, credo, ma è una cosa terribile per questo blog su cui non trovo davvero più nulla da scrivere.
Dall’attualità ho sempre tratto il grosso dell’ispirazione a trascrivere in bella copia le mie riflessioni, ma la mia attualità, oggi, è decisamente poco ricca di spunti. Oltretutto, non ho più alcuna voglia di scrivere di politica o di temi grossi ed importanti. Quello che vedo succedere è spesso troppo brutto e non ho le energie necessarie a leggerlo e cercare di dargli una chiave dibattibile, soprattutto conscio del fatto che il dibattito non ci sarebbe in ogni caso. Su quell’aspetto credo di essere invecchiato molto male.
La verità è che questo spazio ha, ogni giorno che passa, sempre meno senso di esistere e forse devo solo decidermi a staccare la spina come ho fatto con i social.

Non oggi, però.
Oggi mi va di condividere qui sopra uno spettacolo di stand up che ho scoperto di recente. Si chiama “Alcoholocaust”, di Jim Jefferies, ed è uscito nel 2010. Trattandosi di stand-up, parliamo di un’era geologica fa e si nota tutta, già dalle prime battute. E’ uno spettacolo forte, con comicità aggressiva e spesso oltre le righe, ma il mio punto non è condividerlo per sostenere che oggi non si potrebbe più fare, che oggi non si può più dire niente, etc. etc.
Il mio punto è, paradossalmente, l’opposto.
Oggi ci sono tantissimi (troppi) comici che, esattamente come i rapper, brandiscono l’arma del politicamente corretto alla rovescia. Gente che cerca solo di fare le battute più edgy o scorrette possibile usando come selling point il fatto che non dovrebbe poterle fare e invece le fa lo stesso. Ideologicamente, come imprinting forse, io non ho neanche tutto questo astio verso chi si ostina a fare B quando tutti gli dicono che fare A è l’unica cosa giusta/possibile/accettabile. Anzi, sono situazioni per cui riesco a provare simpatia anche quando B è qualcosa di lontanissimo dal mio modo di vedere le cose. Il problema nasce quando i numeri non supportano più la narrazione, o almeno i numeri che percepisco io.
La mia impressione è che, oggi, tutti facciano B millantando una dittatura di A che non esiste. Nel caso della stand-up poi, l’aggravante diventa che fare B, ovvero essere scorretti, sia di per sè una sorta di bollino di qualità, che sia diventata condizione sufficiente oltre che necessaria a far ridere. Non è così e, guardando vecchi spettacoli di quando tutta questa menata non era sul radar di nessuno, a mio avviso diventa ancora più evidente.
Jim Jefferies qui fa un’ora di monologo dicendo sì cose ultra scorrette, ma la sua bravura, quello che ti fa realizzare che il tipo è uno capace e non solamente uno a cui piace sfottere le lesbiche, è la costruzione comica, il punto dove vuole portarti con quelle battute eccessive, senza che tu te ne accorga. Anzi, proprio perchè sei distratto dalla scorrettezza delle stesse, come uno specchietto per le allodole. Questo, secondo me, fa tutta la differenza del mondo.
Lo spettacolo integrale è su youtube, se interessa.


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Ex post

È la 1:34 del primo giugno 2025.
Da due giorni mi ripeto di dover scrivere qualcosa sul blog perché altrimenti questo maggio appena concluso sarebbe diventato il primo mese in vent’anni senza un post.
Avevo anche trovato un paio di argomenti su cui attorcigliarmi con uno dei miei consueti siluri audienceless, ma poi non c’è stato modo, tempo o sbatti per mettermi a scriverci sopra davvero.
Alle 19 di ieri sono uscito per andare a cena da amici con l’idea che l’Inter potesse perdere la finale di Champions League e darmi almeno lo spiraglio per portare a casa quattro righe di sfottó, ma dopo un 5 a 0 sul groppone infierire scollinerebbe anche l’etica del tifo contro.
Quindi niente, il danno è fatto e ci troviamo con un mese vuoto. Mentre sto per andare a letto però, sto cercando di vendermi il concetto che formalmente la mia giornata non sia ancora chiusa e che questo post, per quanto fine a se stesso, debba considerarsi ancora parte del mio 31 maggio.
Alla fine, credo di essere riuscito a convincermi.
Per il resto, nessuna news rilevante dalla mia vita. Il progetto di cui vi avevo accennato è difficile e forse non vedrá mai la luce, ma al momento procede e mi succhia larga parte del tempo libero. Spero davvero di poterlo portare in fondo. Con la corsa si continua, anche se la motivazione è un po’ venuta meno sia perché non sto più perdendo un grammo, sia perché ho deciso di smettere con l’incremento delle distanze e/o l’abbassamento dei tempi. Sarà la cosa più ovvia del mondo, ma senza un traguardo, un obiettivo, della corsa rimangono solo noia e stanchezza. Non proprio due incentivi. Però si tira dritto, abbracciati ad una forza di volontà che mai mi sarei attribuito.
Tutto qui, per questo maggio senza niente da dichiarare. Magari in giugno troverò qualcosa di interessante da scrivere.
Baci baci.

Massimo Coppola che si incazza

L’altro giorno sono incappato in questo video qui sotto.
Premessa: non conosco il podcast, non conosco chi lo conduce. Ci sono arrivato perchè YT mi ha profilato, giustamente, come uno a cui piacciono le polemiche, ma poi me lo sono guardato davvero perchè l’intervistato, Massimo Coppola, è un personaggio di cui mi interessa conoscere le opinioni.
Lo riporto qui sotto, dura un’oretta, poi sotto scrivo qualche riflessione.

Guardandosi tutto il contenuto ci sono ovviamente delle problematiche grosse, che vanno ampiamente oltre il “conflitto” finale a cui si arriva in maniera se vogliamo anche inaspettata.
Il primo problema è il conduttore, in generale, ma soprattutto in relazione ad un ospite come Coppola. Il tipo rappresenta, a mio avviso, un po’ il tipico podcaster attuale, che definiremo “alla Gazzoli”: uno con niente da dire o comunque a cui non interessi dire nulla mentre fa un podcast, che si limita a imbeccare l’ospite con domandine superflue e un po’ del cazzo sperando che sia poi l’altr*, eventualmente, a rendere il contenuto interessante facendo, se e quando vuole, un passo in più. E’ un modo di condurre le interviste di cui comprendo il razionale e che può anche funzionare, pur trovandolo io, personalmente, detestabile. Solo che dall’altra parte ci deve essere un*ospite che accetti la cosa, per qualche ragione che può andare dall’etica, al rispetto per l’impegno preso fino alla necessità di non ostacolare la promozione per cui si trova nella stanza. Se l’intervistat* accetta può scegliere di stare al livello proposto e regalare a chi guarda un’ora di vuoto pneumatico, oppure alzare l’asticella portando la conversazione su un altro piano. Se, ripetiamolo, accetta l’assunto.
Nel caso specifico, Massimo Coppola non lo accetta manco un po’ e, fin dal principio, appare intenzionato a farlo notare. Verrebbe da chiedersi perchè abbia deciso di andarci, che aspettative avesse, ma non ha molto senso da parte mia stare a fare dietrologia, restiamo su quel che si vede. L’evidente rifiuto, legittimo, di Coppola a prestarsi ad una chiacchierata sterile e superflua si traduce però in un atteggiamento di maleducazione rara che, fin dalle prime battute, avrebbe messo a dura prova i nervi di qualsiasi persona. Il tipo però, gli va riconosciuto, invece di mandarlo a fare in culo come avrebbe diritto di fare, trovandosi in casa propria, cerca di abbozzare e prova a mantenere il dialogo aperto. Da questo lavoro pazzesco esce un’oretta scarsa di contenuto a mio avviso valido, in cui anche Massimo Coppola di tanto in tanto dimentica di volersi mettere di traverso e contribuisce dicendo cose interessanti. E’ uno strazio da seguire, per via dell’atteggiamento di cui sopra, ma almeno ci sono dei concetti.
In questo clima, si arriva alla situazione finale non con un climax di tensione crescente che sarebbe stato anche ipotizzabile visti gli inizi, ma proprio al contrario. Lo scontro nasce nel momento in cui sembravano poter arrivare in fondo. Volendo entrare nel merito, senza spoiler: la domanda incriminata era quantomeno mal posta se non completamente idiota nella logica fondante? Sì. C’erano gli estremi per alzarsi ed andarsene? Per me no, per Coppola sì e quindi ha fatto bene a farlo. Il modo in cui se n’è andato è criticabile? Boh, sembra l’atteggiamento di uno schizofrenico: si alza, saluta con rispetto spiegando di non poter andare avanti, porge addirittura la mano e poi uscendo urla minacce risibili e del tutto antitetiche con la posizione di uno che “non tollera i fascismi”. Onestamente però anche di quello mi interessa relativamente.
La roba su cui volevo ragionare con questo post è un’altra. Coppola non è un politico, non gli è richiesto di usare una strategia comunicativa utile al messaggio in cui crede. Non è il suo ruolo rappresentare la sinistra e può fare quello che vuole, rispondendone come individuo. Però non è neanche idiota, credo, certamente non al punto da ignorare che il suo atteggiamento di chiusura e di arroganza (reale o ostentata che sia) possa avere una conseguenza che va oltre il farsi un’opinione di Massimo Coppola. Specie in un contesto sociale in cui sembra evidente la sinistra, come macro categoria intellettuale, abbia come primo problema l’incapacità di parlare con le persone. E quindi boh, forse uno sforzo in più anche persone come Massimo Coppola, a cui non è richiesto un cazzo, dovrebbero provare a farlo.
Nulla più di questo, in realtà.


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Tacca

Anche quest’anno ho compiuto gli anni.
Il tempo in cui mi andava di festeggiare la cosa è finito da un po’, quindi mi sono vissuto la mia giornata con quel velo di malinconia e presa ammale ormai tipico, anche se strenuamente combattuto dall’euforia dei miei figli.
Per il resto tanti messaggi di auguri anche da insospettabili, che fanno sempre piacere, e una spolverata di rodimento di culo per alcuni tra i non pervenuti.
Tutto normale, dritti sul binario che mi vuole sempre più cosciente del fatto che nella mia vita di persone ce ne siano troppe e non troppo poche.
Le ultime due ore, prima di aprire questo post, le ho passate a scrollare reel su FB o forse Instagram pensando a come un tale bombardamento mirato di contenuti ideologico/politici facesse impallidire la cura Ludovico. Cosa che, fosse vera, dovrebbe allarmarmi e non poco in merito agli effetti sulla mia persona. Non lo so, al centesimo contenuto di Travaglio che parla di Russia è difficile non convincersi di essere anche solo incuriositi dalla questione. L’idea è che l’algoritmo ci profili per darci contenuti rilevanti, ma la sensazione è che la rilevanza non sia per forza di cose relativa al nostro interesse. Forse si tratta solo di capire su che aspetti sia necessario farci cambiare idea e procedere per sfinimento.
Non lo so.
Io ho passato lo scorso anno a cercare di staccarmi da questa realtà aumentata smartphone mediata, ma i risultati sono evidentemente nulli. Siamo al punto in cui la sera mi agita di più l’idea di trovare qualcosa da fare per non guardare il cellulare, che non la possibilità di buttare ore in scrolling forsennato.
Adesso quasi quasi disinstallo dal cellulare pure FB e Youtube così vediamo se la situa migliora.
Me lo faccio come regalo di compleanno.
Ecco, fatto.
Già che siete qui, a sto punto vi beccate un paio di update dalla mia vita.
Sto continuando a correre, sempre con la stessa sofferenza e mancanza di voglia, ma continuando anche a spostare in avanti il limite di quel che aspiro ad ottenere. Ora corro 22/23 km a settimana, divisi in 3 sessioni. Sono riuscito a portare i 5km sotto il muro dei 5′ a km di media, cosa che ritenevo impensabile, ma poi di fatto i 5km ho smesso di correrli. Adesso il mio ciclo di allenamenti prevede 6 o 7 km ad inizio settimana, 6km di ripetute a metà settimana e i 10km a chiudere. Sui 10km il mio record personale é 5’18” al km, portato a casa proprio sabato scorso. Ho sempre il timore di poter smettere domani, quindi vivo l’impegno con un senso del dovere marziale nell’idea di contrastare questa ipotetica tendenza al darla su che, in 16 mesi, ancora non si è palesata. Teniamo botta, quindi.
Questo 2025 è anche l’anno di un nuovo progetto in cui mi sono imbarcato e che, forse (ma forse no) è anche il motivo per cui non sto aumentando i miei scritti qui sopra come invece avevo ipotizzato sarebbe successo. Non sono qui a fare il fenomeno che “non vi posso spoilerare nulla” o “seguitemi per scoprire di cosa si tratta”, non dico apertamente cosa sia perché metterlo nero su bianco sarebbe come ufficializzare il fatto che ci stia provando, cosa che renderebbe ufficiale il fallimento. Non me la sento, anche perché non è una roba completamente nuova, ci avevo già tentato in passato senza mai andarci neanche vicino, quindi nulla mi lascia pensare possa andare diversamente a questo giro. Anche se, ad onor di cronaca, non ero mai partito così lanciato. Oh, avete ragione, ho già scritto troppo per essere credibile nella parte di chi non ne vuole parlare. Sono un po’ gasato, perdonatemi. Passerá.
Che poi, anche ‘sto scrivere ad un interlocutore immaginario, da dove mi esce?
Molte vibes da blog anni ’00 questo post. Ero partito con l’idea di non pubblicarlo, poi ho pensato di metterlo su, ma senza spedirlo via newsletter e ora mi sa che ho deciso di andare full optional. Vediamo se qualcuno sto giro fa unsubscribe.
Dai, l’ho tirata in lungo anche troppo.
Da Manq dell’omonimo blog è tutto, a voi studio.


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Texas is the reason (sometimes)

Un paio di settimane fa i Brand New hanno annunciato alcuni show nel profondo sud degli Stati Uniti.
Come nulla fosse, come non ci fossero persone che, da quasi dieci anni, vivono corrose dalla faida tra la speranza autolesionista di poterli rivedere su un palco prima o poi e la disillusione autoconservativa del metterci una pietra sopra. The Devil and God Are Raging Inside Me, letteralmente. Facendo parte di questo gruppo di persone e conoscendone altre messe grossomodo come me, l’argomento è stato ampiamente dibattuto e ha portato anche a riesumare robe scritte troppo tempo fa. Non lo so se sia normale, sulla via per i cinquant’anni, sentire così tanto una questione così oggettivamente irrilevante, ma non farei a cambio con chi se la vive diversamente.
Ieri c’è stata la prima di queste date e un tizio ha messo su youtube il video dell’attacco del concerto. I Brand New sono tornati a suonare live dopo otto anni, praticamente senza dire un cazzo a nessuno, e hanno attaccato il set con la più grande canzone mai scritta. Mentre guardavo il video, sentivo crescere la pelle d’oca sulle braccia e sulla schiena e lottavo contro il bisogno di iniziare a cantare in ufficio, ho pensato che, fossi stato lì, sarei probabilmente crepato a “Hello”.


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