Sono a casa.
Ho mille cose da fare e 36 ore di veglia sulle spalle, di cui otto abbondanti di lavoro.
Ciò nonostante devo assolutamente scrivere del concerto di ieri sera.
Eclatante.
E’ stato un concerto eclatante.
Andiamo con ordine.
Mi presento all’ingresso del locale poco dopo le 18.30, forte del biglietto acquistato on-line. Il mio atroce pessimismo ha fatto sì che per tutto il giorno io pensassi che qualcosa sarebbe andato storto, rendendo il bel viaggio a Londra un’incompiuta simile alla notissima svista di Caporetto, e così mi ritrovo in coda all’apertura dei cancelli.
In Inghilterra i concerti iniziano paurosamente presto.
Da qui in avanti generalizzerò molte delle cose viste ieri come fossero consuetudini del Regno Unito, sebbene io abbia un’unica esperienza di questo tipo alle spalle.
Chissenefrega, il blog è mio e faccio come mi pare.
Il locale è un incrocio tra il Rainbow ed il Rolling Stone: il palco è in una saletta sotterranea abbastanza piccola su cui si avvacciano due sale laterali rialzate da cui si può seguire il concerto dall’alto con una vista fantastica del main (and only) stage. Da qualunque punto del locale infatti non si è mai a più di grossomodo dieci metri da chi sta suonando, cosa che rende il tutto di un’intimo impressionante.
Si registra il tutto esaurito, ma non essendo Wembley la cosa un po’ me l’aspettavo.
Alle 19.00 iniziano il loro set gli Shadows Chasing Ghosts. Sono una sorta di Silverstein dell’Essex. Sono giovani, si sbattono e non tengono nemmeno così male il palco, tuttavia la mia prof delle medie avrebbe scritto loro, a margine della valutazione, “poche idee e confuse”. Mi prendo la loro mezz’ora per valutare l’acustica del locale che è decisamente sopra le righe. Alla fine si meritano la mia simpatia.
19.30: cambio palco.
In Inghilterra il cambio palco si fa a mano.
La band che ha finito di suonare smonta ampli, piatti, rullante, spie, pedali e microfoni e se li porta via, lasciando che la seconda band in programma arrivi e si monti i suoi strumenti, operazione che svolta in Italia credo avrebbe impiegato delle ore.
Li ci mettono un quarto d’ora.
Il mio pensiero però è: come cazzo fanno ad avere i suoni a posto se si rimontano il palco ogni volta?
Inizio così a temere che il suono sarà una merda.
Sono quasi le 20.00 quando sale sul palco la seconda band: gli Hexes.
Mi bastano due accordi per odiarli dal profondo del mio cuore.
Oltretutto hanno dei suoni osceni: non si capisce una fava ed io imputo la cosa alla brillante idea dei cambi palco fatti alla cazzo di cane.
Nel tentativo di sentirli meno, visto che non sentire chi suona dentro quel locale è impossibile, faccio un salto al banchetto del merchandise.
Ho ovviamente finito tutte le sterline a mia disposizione prima di entrare, visto che all’uscita l’idea è volare in aereoporto, quindi posso solo guardare l’EP dei Finch, attualmente praticamente introvabile on-line.
Un pizzico di rammarico è ancora vivo in me.
Sta di fatto che intorno alle 20.20 anche i disgraziati sopracitati concludono la loro esibizione e iniziano a smantellare il palco.
In Inghilterra anche gli headliners della serata si montano il palco da soli.
Se sono i Finch.
I Rolling Stones magari hanno i fonici.
Mi piace pensare di no, comunque.
Sta di fatto che i nostri eroi salgono sul palco ed iniziano a montarsi la strumentazione.
Io li guardo e penso che i Finch sono il prototipo degli anti-poser.
Drew a tempo perso credo giri remake di film porno anni ’70.
Daniel è il sosia di Nicola Gallo di QSVS e si veste uguale: camicina bianca, pullover grigio fumo e sciarpina di ciniglia grigia annodata sotto la gola come i veri fighetti milanesi.
R2K arriva con il Woolrich addosso, cappuccio di pelo alzato, e fa i suoni così conciato in un ambiente dove ci saranno stati seimila gradi. Per suonare toglie il Woolrich e si rivela essere in pigiama (o comunque con una felpa brutterrima).
Alex ha la stessa camicia a scacchi che mette sempre. Forse è un tatuaggio, difficile capirlo.
N8 ha la maglia del primo dei due gruppi di supporto, gesto che apprezzo.
Disquisizione stilistica a parte, i Finch si fanno il cambio di palco in dieci minuti netti.
Prova suoni giusto in spia, nulla più.
A quel punto ho la certezza che si sentirà una merda.
L’inizio del loro set è previsto per le 21.00 così si aspetta un’infinità e l’agitazione sale.
Finalmente, alle nove spaccate, lo show comincia.
Si parte con “Perfection Through Silence” e, come previsto, non si capisce una mazza. Suoni confusi, gran macello, gente impazzita. Da metà pezzo in poi però tutto migliora, il suono si pulisce fino ad essere praticamente perfetto.
Nate ha una voce della madonna, non scherzo, e si sente tutta alla faccia della tonsillite che settimana scorsa l’ha costretto a cancellare diverse date del tour.
Il secondo pezzo è “Worms of the Earth”, la canzone che meno mi piace della band.
In sostanza, dopo due tracce, il concerto per me ancora non ingrana.
Dalla terza in poi però, mi prendo decisamente bene.
“Grey Metter”, “Insomniatic Meat” e “Miro” mi trascinano decisamente nel vivo dell’esperienza.
Nel sentirli rifeltto su come dal vivo i pezzi di “Say Hallo to Sunshine” rendano particolarmente bene.
“Daylight” viene accolta con una mezza ovazione dal pubblico, cosa che sorprende molto anche la band, trattandosi di un pezzo nuovo. Grande pezzo, a mio avviso, e grande esecuzione.
A questo punto hanno fatto “Untitled” e sono morto.
In inghilterra ai concerti tutti fanno macello.
Tutti.
Teenagers, anziani come il sottoscritto, ragazze: non si può uscire dal pit perchè tutto il locale ne è coinvolto. Durante questo pezzo ho attraversato tutta la pista per due volte, spinto e trascinato da forze sovrannaturali.
E prima dell’ultimo ritornello la gente si è spontaneamente aperta in due per poi fondersi in un unico grande e violentissimo abbraccio.
Le cose che tutte le band che vengono in Italia chiedono al pubblico di fare e che, immancabilmente, non fa mai nessuno.
Fantastico.
Ormai sono regredito ad un ragazzino: salto, canto, spingo e alzo le corna cercando di non perdere la giacca (come detto, zero cash per il guardaroba).
La band riprende a suonare egregiamente estratti dal secondo disco, prima di tornare agli albori con la combo “Letters to You” e “New Beginning”.
“Letters to you” l’ho cantata tutta con un trasporto che poche volte mi è capitato di mostrare, per tanti, troppi motivi.
E’ il momento di chiudere e per farlo i Finch scelgono “Chinese Organ Thieves”, ultima traccia del nuovo EP.
Presentandola Nate si prende un minuto e chiede se qualcuno ha già sentito “Chinese Democracy” dei G’n’R.
Citando, o meglio parafrasando: “Have you heard it? Damn. Ok, it’s not bad, but fifteen years to write that songs? Fifteen years? Anyway I’m not Axl Roses, this is not Chinese Democracy and we took only four years to compose it.”
Dal vivo il pezzo spacca, mette proprio la pelle d’oca.
A questo punto i cinque se ne vanno per un paio di minuti, prima di venire richiamati sul palco per il bis.
Il bis consiste in tre pezzi.
“Ender”.
“Stay with me”.
“What it is to burn”.
Sulla prima ho quasi pianto, sull’ultima credo di aver perso conoscenza e aver vissuto un’esperienza extracorporea.
Contemporaneamente.
Esagero?
Forse sì, ma è il mio blog e faccio come mi pare.
Scaletta della madonna.
Quella di ieri è stata una delle più belle esperienze di musica live che io abbia mai vissuto.
Sono stravolto, ma ripartirei oggi per farlo di nuovo.
Con questo interminabile report ho anche posto fine ad un periodo di scarsa produttività in ambito di blog.
Ok, un post infinito non può ovviare ad una latitanza lunghissima, ma come forse ho già detto il blog è mio e faccio come mi pare.